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Sid e Nancy

Durante una lezione d’Educazione artistica, il Mezzosangue mi spinse sotto il naso una fotocopia dell’Urlo di Munch. «Visto che roba?» domandò con aria ammirata. «L’hanno fatto in Norvegia.»

Restai sorpreso, perché non era tipo da esaltarsi per i quadri. Era impermeabile al fascino dell’arte in tutte le sue espressioni, e lo zenith della sua creatività era la scritta “Zebre alè, Nerazzurri busèn” tracciata a pennarello sulla porta dei bagni.

«Ma guardalo!» insistette, e le sue labbra carnose s’incresparono in un sorriso. «È uguale a te, Tommy!» Si piazzò le mani sulle guance, strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca. Poi tornò a sorridere mostrando una chiostra di denti candidi e spiegò: «Precisa alla faccia che fai quando vedi Germano insieme alla Bonsignori».

Quei due erano sempre insieme, e Radiobunker li dava come prossimi al fidanzamento. Durante la ricreazione andavano a chiacchierare nella penombra del laboratorio di tecnica, certi che nessuno avrebbe rotto loro le scatole, e all’uscita Raul la scortava conducendo la bici a mano, sollecito e cortese come il deficiente Grignoni non era mai stato.

Con me si era sempre comportato bene, il ragazzo che aveva abbattuto il regime dei voivodi. C’era da sentirsi orgogliosi d’essergli amico; tuttavia, quando pensavo che era libero di avere l’attenzione della principessa polinesiana, di vederla ridere da vicino, mi pentivo di avergli dato confidenza.

E quella smemorata di Ester? Come faceva ad avere dimenticato il patto che ci legava? Era a me che aveva fatto una linguaccia, in quel remoto pomeriggio al cinema Arlecchino. Non a Raul Germano, né a nessun altro. Peccato che non avessi mai trovato il coraggio di rivolgerle la parola.

Bisognava fare i conti con la realtà. Ero cresciuto con l’idea di diventare un eroe, invece mi cascava addosso a perfezione il costume da anonimo peone tredicenne, ugonotto in Lumberjack, comparsa buona giusto per le scene di massa. Il protagonista di quel film era un altro. Io al massimo potevo vantarmi di essergli amico.

Le giornate si facevano sempre più brevi, il calendario inclinava verso il Natale, ma anziché bearmi delle vacanze in arrivo, coltivavo una qualità nuova di dolore. Faceva battere le tempie e salire l’amaro in bocca, lo spettacolo di quei due che si sfioravano le dita, chiacchieravano fitto, si cercavano specchiandosi l’uno negli occhi dell’altra. C’era qualcosa che li rendeva affini, e si erano riconosciuti.

Ai semplici figuranti come il sottoscritto non restava che meravigliarsi nel trovarli ogni giorno più simili e concordi. Belli nelle felpe gemelle dei Pistols che lui aveva ordinato per corrispondenza, teneri nell’allontanarsi, mano nella mano, coloratissimi contro il cielo bianco.

Ester e Raul mi volavano via sotto gli occhi. Predestinati. Invincibili nell’aria profumata di neve. Felici in maniera insopportabile.

A gennaio il cielo era d’un bianco levigato e uniforme tipo Fabriano liscio. Si diceva che fosse in arrivo una grossa perturbazione dalla Siberia, ma passavano i giorni e non veniva giù neppure un fiocco.

L’attesa della bufera e il giro di boa del calendario ci mettevano addosso una strana inquietudine: prima che quel 1988 nuovo di zecca conoscesse la sua estate, tutti noi avremmo lasciato il Bunker per trasformarci in apprendisti adulti, chi alle Professionali e chi al Liceo.

Una mattina di quelle, durante la ricreazione, Raul mi parlò per la prima volta della sua relazione con Ester. «È successo qualcosa di imprevisto» annunciò ridotto a una silhouette in controluce mentre sfilavamo sotto il finestrone affacciato sulla palestra. «Credo di amarla.» Subito mi riapparve a colori, domestico negli anfibi slacciati e nella maglia giallonera del Peñarol. Non si era più rasato le tempie, e ora la cresta giaceva per ciuffi sparsi, ammainata, sulla ricrescita a velluto dei capelli biondastri. «È una ragazza speciale, Tommy, e ha davvero una gran testa.»

Giusto. Infatti l’aveva capito subito, lei, che il sottoscritto era un invornito.

«Viene giù dritta, quando vuole dirti la sua, anche se è l’unica nel raggio di mille miglia a pensarla in quella maniera.» Mi strizzò l’occhio e aggiunse: «Il nostro è un amore contrastato».

«In che senso?» domandai con voce smorta.

«Le sue amiche d’egitto non mi vedono di buon occhio. Ce le ho tutte contro: la Bergamini, la Fantoni, persino quell’invertito di Pinzoglio. Dicono che ho una cattiva influenza su di lei. Ma la verità è che le bifolche sono gelose. Ester è il totem vivente della loro tribù, e se la fanno sotto all’idea di perderla.»

«E lei cosa dice?» domandai animato da una speranza viscida e senza nome.

«Se ne frega perché è innamorata.» Raul mi sbatté in faccia la verità. «Lo sai come sono le donne quando decidono di volere bene a qualcuno.»

Lo sapevo?

Il giovane diavolo mi squadrò complice e sospirò: «Certo, dal punto di vista musicale c’è ancora parecchio lavoro da fare».

Se c’era qualcosa che doveva riconoscermi era una discreta competenza musicale, e ne andavo fiero. Ogni due o tre settimane, il postino consegnava a casa mia un promettente pacco quadrato e piatto in arrivo da Milano. Sventravo i sigilli con il cutter, e dal cartone scivolava fuori la busta di Buscemi che avvolgeva la musica ribelle di Finardi o le poesie in musica degli Smiths, gli eroi tossici di Bowie o gli apocalittici virtuosismi di Demetrio Stratos. Quei vinili regalo di Ianez finivano allineati nella mia libreria, giusto accanto al mobiletto in plastica trasparente destinato alle cassette che mi registrava il giovane diavolo.

«Quando ci siamo messi insieme, il gruppo preferito di Ester erano gli A-Ha» mi fece sussultare. «Ma ormai l’ho convertita ad ascoltare la merda giusta. E tu sai di cosa parlo.»

Mi sforzai di annuire con aria sagace mentre scivolavo lentamente verso l’abisso. Adesso mi toccava immaginare Ester che scorreva le tracklist scritte a mano da lui, dolcemente sorpresa di scoprire che esisteva un mondo più colorato e selvaggio di quel che raccontava la radio. L’inarrestabile cavalcata di Hell’s bells, le oscillazioni schizo di Pretty vacant, il ritornello di I fought the law: ogni singolo inno che suonasse potente e vivace le parlava di Raul.

«Hai dovuto… educarla» mi sforzai di riconoscere.

«Ha rischiato grosso» considerò. «Ascoltava il liquame commerciale, ascoltava. Non l’aveva mica capito, che a forza di ascoltare musica di merda si fa una vita di merda.»

Com’era possibile? Lui solo aveva diritto di camminare mano nella mano con la principessa tahitiana, lui solo poteva sfiorarne la chioma corvina e strappare baci alla sua bocca da sogno. Era l’unico ragazzo al mondo che avesse quella fortuna, e proprio con me doveva venirne a lamentarsene?

«Chi ascolta musica schifosa fa sogni banali, crede alla pubblicità del Mulino Bianco e si prepara a diventare un altro ingranaggio nella macchina che ci macina. Another brick in the wall» scandì amaro, poi esclamò divertito: «Gli A-Ha! Ma ti rendi conto?» e si arrestò nel bel mezzo del corridoio.

Lo guardavano tutti, mentre spalancava le braccia come il Cristo di Rio, e subito dopo si nascose la faccia dietro le mani giunte, come pregasse o avesse un gran mal di denti. «Ma ci pensi cos’ha rischiato, la matta?» domandò remoto, poi liberò il volto dalla maschera delle dita e mise in chiaro: «Una che ascolta quel liquame ti diventa come niente un’italiana media! È matematico, come giallo più blu fa verde».

«Che cosa diventa?» domandai incredulo.

«Un’ugonotta del menga» mi fece, e riprese a marciare sulle suole ultraresistenti dei Doctor Martens. «Una poverina che vuole sposarsi in chiesa e avere due figli» presagì spiritato. «Il maschio col nome del nonno e la femmina che fa danza classica. E un cane, ovviamente. Un levriero dalle zampe a stecco, o un bassett hound che striscia il pisello per terra.»

Che fosse l’attesa della neve o una forma più sottile di ansia, qualcosa lo stava prostrando. Sragionava.

«Qui dentro la gente non lo sa» sussurrò in tono lugubre, quindi puntò l’indice verso l’alto con un gesto a giro. «La macchina della repressione non va mai in ferie» rivelò spiritato. «Una ragazza può essere intelligente quanto vuole, ma se nessuno le fornisce qualche indicazione, la povera perderà un giorno dopo l’altro il suo talento» spiegò. «E quando non gliene resta più nemmeno una briciola, buonanotte! È pronta per diventare una brava scema obbediente, e chi s’è visto s’è visto!»

L’inverno quell’anno fu avaro. Di neve cadde giusto una spolverata, niente a che vedere con i cumuli ai quali avevamo fatto l’abitudine. L’indomani mattina era già sciolta, e la strada era dilavata come se durante la notte si fosse scatenato il diluvio. Le grondaie gocciolavano senza sosta, e sembrava che l’estate non potesse essere più lontana.

Risalii pedalando sulla Legnano le colonne di primini in galosce diretti verso il Bunker, e quando arrivai sul piazzale trovai Raul, le mani in tasca e l’aria scazzata accanto alla BMX già assicurata alla rastrelliera. Portava un berretto in lana a visiera, che faceva pensare a uno sciatore o un terrorista, e appena fui a tiro attaccò: «Sai cosa mi ha detto ieri Ester?».

Non ero sicuro di volerlo sapere.

«Vuole partecipare a Doppio slalom» rivelò corrucciato.

Era un quiz televisivo per ragazzi che seguivo regolarmente, e non mi era mai passato per la testa che fosse uno spettacolo riprovevole.

«È un problema?» domandai.

«Un megaproblema, Houston!» sbottò. «Solo i coglioni vogliono andare in tivù!»

Ora che avevo scoperto di avere un punto in comune con Ester, mi sentivo più forte.

«Doppio slalom non è così male» obiettai. «Hai mai provato a vederlo?»

Raul mi guardò arreso e chiarì: «Io mica ce l’ho, la tivù».

«Mi dispiace» mormorai in preda all’imbarazzo.

«Guarda che è una figata!» mi prese in contropiede. «Per vedere i film vado al cinema, e senza quella scatola di merda si può ascoltare lo stereo tutto il giorno.»

Chissà dove si trovava, quella casa senza televisione. Non ci aveva mai invitato nessuno, e mi meravigliai quando disse: «Mia madre vuole obbligarmi a usare le cuffie. A me invece piace far pompare le casse per godermi tutta la tempesta».

Così una madre ce l’aveva anche lui.

Mi strizzò l’occhio, come si fosse reso conto di aver parlato troppo e invocasse la mia riservatezza.

«Io non sono fatto per stare con una che guarda i quiz» sterzò il discorso. «Se c’è una ragazza che fa al caso mio è come Nancy di Sid e Nancy.»

Chi cavolo era?

«La tipa di Sid Vicious, il bassista dei Pistols» mi ragguagliò.

«Ah, lei» feci spallucce. «E cos’ha di tanto speciale?»

«Accompagna Sid fino all’estremo, e alla fine muoiono» s’illuminò.

Decisamente Raul non finiva di stupirmi. Non gli bastava Ester, colma di ogni benedizione. Voleva che lo accompagnasse fino all’estremo per morirci insieme. A quattordici anni.

«Lei lo sa?» indagai.

Mi scosse per una spalla con un sorriso che non mi piacque. «È proprio per questo che te ne sto parlando» annunciò. «Mi fido di te, Tommy. E tu mi aiuterai, vero?»

«A fare cosa?» mormorai con un filo di voce.

«A spiegarle che sono molto arrabbiato con lei! Mette in dubbio la mia parola, capisci?»

Così dovevo andare dalla ragazza che mi piaceva come ambasciatore per conto suo. Se esisteva uno stadio di abiezione più basso di quello, doveva essere appannaggio dei lombrichi.

«Non sono sicuro che sia una buona idea» presi tempo, ma lui si fece sotto con un sorriso speranzoso.

«Te lo chiedo per cortesia, socio» aggiunse in tono supplice. «È un caso disperato.»

Mi sentii spalle al muro. «Cosa devo dirle, di preciso?» mi arresi, ormai calato nei panni del peone messaggero.

Sorrise, contento della mia solerzia. «Deve venire con me fino all’estremo» scandì, gli occhi color dell’oceano ravvivati da una luce nuova. «Lei capirà cosa intendo.»

Trasecolai. Così non voleva lasciarla. Soltanto convincerla a levarsi il reggiseno e a farsi toccare in mezzo alle gambe… L’orrore!

«Ma perché devo andarci io?» protestai ora che il mio destino si svelava in tutta la sua ingratitudine.

Raul mi posò la destra sulla spalla, magnanimo come un re che affidi la missione cruciale al favorito tra i paladini. «Non esitare» mi sorrise. «Sei tu l’uomo giusto, Tommy.»

Ero distrutto, raso al suolo come Hiroshima, annichilito come i Veltri superati dall’ennesimo gol in zona Cesarini. Non avevo mai trovato il coraggio di avvicinare Ester, e ora mi toccava farlo per convincerla a lasciarsi mettere le mani addosso da Raul.

«Per sdebitarmi ti registro un po’ di roba forte» annunciò, ormai sicuro che avrebbe ottenuto quel che voleva. «Conosci i Beastie Boys?»

Non li conoscevo.

Puntò gli indici verso di me come fossero pistole, e annunciò sorridente: «È materia di prima scelta. Finirà che mi ringrazi, parola mia».

A ricreazione mi toccò mettermi alla ricerca di Ester.

La avvistai fra le amiche cowgirls lettrici di “Cioè”, rustiche dame di compagnia dell’unica fanciulla in grado di far palpitare il mio cuore. A tenere banco pensava l’invertito Silvio Pinzoglio, i capelli morbidi di balsamo e i risvolti dei jeans arrotolati sino a metà polpaccio; si stava producendo nell’imitazione in falsetto del preside Bruslì che comminava tre giorni di sospensione a qualcuno.

«Scusate» mi accostai tremando al corral. «Posso parlare un minuto con Ester?»

Pinzoglio e le cowgirls mi guardarono come avessi appena commesso un sacrilegio.

«E tu chi cazzo sei?» domandò la gigantesca Fantoni Melania, frangetta da barboncino e guance color terra di Siena. Appariva schifata, come si fosse presentato al loro cospetto un ripugnante lebbroso.

«Cosa devi dirle di bello, Bandiera?» domandò civettuola Gennifer Bergamini, giocherellando con il nastro di pizzo che le pendeva vezzoso dalla chioma decolorata, identico a quello che sfoggiava Madonna in Cercasi Susan disperatamente.

«Sarai mica un messaggero dello stronzetto?» mi smascherò Pinzoglio.

Nessuno aveva mai chiamato Raul a quella maniera. Come osava, il Testa di balsamo?

Adesso rideva su un tono acuto, la bocca nascosta dietro le dita bianche e lisce. «Ho indovinato!» esultò, e scambiò un cinque alto con Gennifer. «Viene da parte di lui! Novità in arrivo, sorelline!»

«Ester» sillabai come un naufrago alla ricerca della salvezza. «Per favore, posso parlarti un minuto in privato?»

Dovevo avere pronunciato la formula magica, ché i suoi occhi verdi dal taglio orientale ora mi squadravano sospettosi e ironici. Non avevo mai notato il disegno perfetto delle efelidi sui suoi zigomi ambrati, e mi riproposi di tenerne a mente la mappa. Era talmente bella che mi tremavano le gambe. E io ero lì per incoraggiarla a farsi mettere le mani addosso da un altro.

«Poi ci racconti tutto, vero?» si raccomandò il Silvio, ma ormai Ester guadagnava distanza dal gruppo, camminava spalla a spalla con me, e io sentivo la guancia esposta alla sua luce andare a fuoco.

«Allora, Tommy?»

Nel sentirla pronunciare il mio nome mi sentii felice come non ero mai stato a fianco di una ragazza. Valutai che su un altro pianeta, collocato in una dimensione parallela, saremmo potuti essere fidanzati; magari pilotavamo due robot che lottavano fianco a fianco contro i mostri, come Goldrake e il Delfino spaziale di Venusia.

«Immagino ti mandi Raul» tagliò corto, e forse nessuno al mondo poteva sentirsi più infelice di me in quell’esatto momento. «È ridotto così male che ha bisogno dei messaggeri?»

L’unica era fare in fretta. «È molto arrabbiato» rivelai.

«Ah sì?» domandò divertita. «Anch’io, sai?»

«E perché?»

«Mi ha rifilato delle balle» spiegò.

Raul? Beccato a mentire? Come un Biondino qualsiasi?

Ora mi guardava dritto in volto. Chissà se vedeva un ragazzo carino o soltanto una specie di Fantozzi giovane. Nel dubbio, ora m’avvampava anche l’altra metà del volto.

«Non è giusto, raccontare le bugie alla tua ragazza» fece il punto. «Non trovi?»

«Trovo, trovo» ammise la mia voce, distorta come quella di Max Headroom.

«Invece di predicare tanto la coerenza e la lealtà, uno potrebbe cominciare col dimostrarsi sincero.»

E se avessi tentato un colpo di mano, gettando la maschera per confessarle che l’amavo, che sognavo di invitarla nella baia più riposta della mia isola, per vivere soli tipo Richard e la bellissima Emmeline in Laguna blu?

«Su» m’incoraggiò con un sorriso. Concreta. Pragmatica. Propositiva. «Cosa si è messo in testa stavolta, quello là?»

«Conosci Sid e Nancy?» tastai il terreno.

«Mai visti. Chi sarebbero?».

«Due tipi veri sui quali hanno fatto un film. Sid dei Sex Pistols e la sua tipa.»

Era bello vederla attenta, e mi dispiacque non poter aggiungere dettagli gustosi sulla pellicola.

«E insomma?» cedette all’impazienza. «Cosa combinano, ‘sti due?»

«Quel film l’ha ispirato!» inquadrai la questione. «Si sente come Sid, vuole che tu sia la sua Nancy e vuole andare con te fino all’estremo» vuotai il sacco.

Ester abbassò le belle ciglia. «Che stronzo» sospirò, come si sentisse all’improvviso stanchissima.

Qualcosa dentro di me andò in pezzi. L’avevo ferita, imbecille che non ero altro!

«Scusa» invocai. «Io non ci volevo neanche venire.» Sudavo, ora. Sudavo e ingobbivo. «Non è facile, andare da una ragazza a dirle queste cose per conto di un amico.»

«Ti credo, Tommy» sospirò. «Non bisognerebbe mai accettare incarichi del genere.»

Aveva troppo ragione! E ora cosa faceva? Si avvicinava a me, il gobbo più sudato dei dintorni, e mi prendeva le mani?

Anga sgevù! Ci vedevano tutti, nel corridoio della scuola, i voivodi deposti e i nani di prima, l’invertito Pinzoglio, l’atleta pesante Fantoni Melania, i bidelli e certo anche Raul, che doveva essere appostato alla Robin Hood in posizione nascosta e sopraelevata. Se avessi rivelato a Ester che la amavo, quello avrebbe senz’altro scoccato un dardo capace di fischiare esatto a spaccarmi il cuore.

«Sei un po’ timido, vero?» mi sorrise.

Timido? Stavo per perdere i sensi!

«Un tipetto sulle sue che guarda e non saluta» mi inquadrò.

«Ma io… È solo che…»

«Ti ricordi che una volta ci siamo visti al cinema, vero?» la musica allegra della sua voce coprì i miei balbettamenti.

«All’Arlecchino» partii a mitraglia. «Davano Fandango. Ero con mio zio Ianez, e tu…».

«Abbiamo praticamente visto Fandango insieme, e non mi saluti?» osservò con aria di rimprovero. «Chi ti credi di essere, Bandiera?»

Io? Il più infelice fra i peones!

«Non vale la pena di torturarsi» cantava la sua voce. «Se ti va di fare una cosa, la fai. Altrimenti non c’è niente, né il sangue né l’amicizia, che può costringerti».

Mai nella vita avevo immaginato che le mani potessero trasmettere un simile calore al resto del corpo, né mi aveva mai lambito la periferia del cervello l’idea che un giorno sarei svenuto di fronte a tutta la scuola. Ora, invece, mi girava la testa e vedevo un caleidoscopio di esagoni e cerchietti colorati esplodermi davanti agli occhi.

Ester parlava, e io dovevo lottare per non cedere alla tentazione di lasciarmi andar giù, il filo della schiena percorso da una processione di gocce ghiacciate.

Come cavolo faceva Raul a ritrovarsi quelle labbra piene a due palmi dal volto e non perdere di vista il senso delle sue parole, a mantenersi saldo sulle gambe, a replicare?

«Mi stai ascoltando, Tommy?» domandò lei con una vibra di dispetto nella voce.

Avevo perso il filo, ma annuii lo stesso. Purché non se ne andasse, ero pronto a dire quello che voleva.

«Non mi piace più» mise in chiaro, scuotendomi per le mani. «Mi ha rotto le scatole, con i suoi modi da grand’uomo e le sue bugie. Lo lascio, capito?»

Coño y mierda!

«Perché?» sibilai, le dita orfane all’improvviso delle sue.

“Perché mi piaci tu, Tommy.” Così avrebbe potuto dire. E subito dopo mi avrebbe baciato sotto una pioggia di petali e coriandoli, mentre un invisibile impianto stereo mandava The river del Boss e tutta la scuola applaudiva. Invece rispose: «Cavoli miei. Voglio stare un po’ da sola, d’accordo?».

Le casse dello stereo saltarono tutte insieme, vittime di uno sciagurato cortocircuito; la voce del bardo Springsteen smorì in un rantolo, e i cannoncini che dovevano sparare a festa fecero cilecca tutti insieme.

«Questo gli avrei detto se avesse avuto la decenza di presentarsi di persona» spiegò, e restò a guardarmi come volesse accertarsi che avessi registrato il messaggio.

«Capito» assicurai ritratto, come doppiato da Oreste Lionello. «Un po’ da sola, vuoi stare. Glielo dirò.»

«Grazie, Tommy» disse, e le sue belle labbra planarono sulla mia guancia.

Era la ricompensa inattesa per i tormenti che m’erano toccati. Il premio per anni di silenziosa devozione. La luce d’una speranza.

Avrei voluto trovare il coraggio per tenerla a me, abbracciarla, ricambiare quel piccolo bacio cento e cento volte sino a trovare la sua bocca, ma ormai mi dava le spalle e se ne andava leggera. Meravigliosa. Finalmente libera.

E adesso chi glielo spiegava, a Raul?