PURGATORIO

L’APPRODO DEL VIAGGIO INFERNALE

Anche l’ultima esperienza dell’Inferno, il passaggio all’emisfero australe attraverso il corpo di Lucifero infisso al centro della terra, che permette a Dante e Virgilio di riemergere all’aria, è ormai un ricordo. Ora che è nell’altro emisfero, quello che mai sguardo umano ha potuto scorgere dopo quelli di Adamo ed Eva, il pellegrino Dante vede sopra di sé un altro firmamento, intorno a sé un’altra parte di mondo, e, soprattutto, può respirare di nuovo l’aria libera.

Anche noi lettori immaginiamo quale sollievo sia, dopo tanto tempo trascorso in un imbuto incuneato nella terra, senza luce, circondato da urla bestiali e lezzo insopportabile, ricominciare a sentire su di sé la carezza del vento. Rivedere la bellezza del cielo aperto.

La traversata dell’Inferno è stata come una navigazione in un mare oscuro e pieno di pericoli, ma adesso il timoniere Virgilio e il marinaio Dante sono approdati a una spiaggia sicura. Non è una metafora, è un fatto: appena usciti dalla prigione dei dannati, i due poeti si sono trovati su di una spiaggia deserta, sotto un cielo ancora stellato, ma che sta per essere illuminato dalla luce dell’alba.

Dante ancora non lo sa, ma si trova sulla base di un monte che li ha accolti, l’unica terra emersa dell’emisfero australe, per il resto occupato solo dalle acque dell’Oceano. Si trova ormai sul monte del Purgatorio. Il luogo posto a metà tra la giurisdizione terrena e quella celeste dell’universo: fino a una certa altezza ancora dominato dalle leggi fisiche, poi del tutto obbediente solo agli ordini divini.

Il Purgatorio è il secondo regno dell’Aldilà, la seconda tappa del viaggio. Anche se fa ancora parte del pianeta, è già la prima regione del soprannaturale regno di Dio. Questa sua natura ibrida si comprende da due aspetti contrastanti: la presenza degli angeli, segnale indubbio del dominio di Dio su questo regno, e nel contempo la tendenza delle anime espianti a ricordare il corpo, anzi a desiderare di non staccarsi tanto presto dal suo peso. Anche se sono ormai anime disincarnate. Anche se ormai sanno che la loro fede era veritiera, che le attende, dopo la purificazione, un’eterna felicità. Ma è difficile staccarsi dalle nostre imperfette abitudini, dai nostri affetti miseri e deludenti. Noi uomini ci affezioniamo anche a chi ci fa del male.

Il fascino del Purgatorio consiste proprio in questa capacità di farci comprendere meglio la nostra stessa condizione umana: che è a sua volta, in sostanza, una contraddittoria tensione fra terra e cielo. E ci fa pensare che anche il nostro pianeta sia una specie di Purgatorio terreno, sospeso tra male e bene. Dante ci fa capire questa somiglianza attraverso la descrizione di dettagli naturali di questo monte così impervio, ripido ed elevato, in contrasto con la mite dolcezza della spiaggia che lo circonda. E specialmente nella prima parte della cantica, fino al canto VIII, dove ancora non è iniziato il Purgatorio vero e proprio, con le sue modalità attive di espiazione e avvicinamento alla salvezza: sono i canti dell’Antipurgatorio, la parte solo terrena del monte, dominata da leggi fisiche. Qui Dante trascorre una lunga pausa di attesa, che gli dà modo di riabituarsi alle leggi del mondo fisico che gli sono familiari. E di comprendere alcune verità.

IL COLORE DELLA SALVEZZA

L’uscita a «riveder le stelle» dopo il viaggio infernale segna il ritorno alla luce naturale del mondo. Un ritorno graduale, perché Virgilio e Dante approdano alla spiaggia poco prima dell’alba: la riconciliazione con gli elementi della natura coincide così con la riconciliazione con Dio. Se l’Inferno era il regno del buio, la prigione dei dannati da cui si era ritratta la luce di Dio, il Purgatorio è la dimostrazione di quanto avrebbe potuto essere bello, sereno e accogliente il mondo, se gli uomini non avessero commesso il peccato originale. Lo si vedrà molto meglio nel giardino dell’Eden, il luogo di felicità creato per la vita terrena di Adamo ed Eva, i primi uomini, luogo che si trova proprio sulla cima del monte. Ma già adesso, appena affacciati sul nuovo mondo, Dante e Virgilio hanno modo di riabituarsi all’esistenza dei colori, trionfo e gioia della vista. Se l’Inferno è la cantica del senso dell’udito, qui trionfa la vista: Dante costruisce il nuovo regno per i suoi lettori usando principalmente il senso della vista.

Il primo colore è l’azzurro: intenso, profondo, come quello di una gemma che viene dall’Oriente. È il morbido, «dolce» zaffiro, il colore stesso del firmamento, miracolosamente bello: infatti tutti gli elementi qui, fisicità e materialità, ma anche energia immateriale di Dio, sono in perfetta armonia tra loro. Le somiglianze fra cielo e terra possono essere sorprendenti, per chi non pensa alla loro comune origine, che è sempre Dio: secondo i «lapidari» del Medioevo, trattati che elencavano le qualità magiche delle gemme, ogni pietra preziosa aveva una virtù, che le permetteva di esercitare la sua influenza nel mondo terreno. Ma questa virtù le proveniva da una stella, quindi dal cielo: il legame fra questi due aspetti dell’universo si evidenzia quindi in questi splendidi oggetti che partecipano della fisicità e dell’immaterialità, grazie alla qualità della trasparenza unita a quella della durezza. E in particolare qui, nello zaffiro: secondo i lapidari simbolo di perdono, serenità e riconciliazione.

La prima sensazione è di sollievo, infinito. Ma subito dopo il viaggio dovrà ricominciare e una fatica nuova, non più dell’inabissarsi ma del salire, dovrà essere affrontata. E la vetta ambita di questa impresa alpinistica è il regno della luce, è Dio. Indubbiamente, il colore dello zaffiro è un’anticipazione delle gioie splendenti di questo regno: essendo il colore del cielo, è il colore della salvezza. È il colore dell’amore. E noi ancora intenti a vivere la nostra difficile vita terrena, non ci rendiamo conto quando alziamo gli occhi di quanto grande sia la sfera d’amore che ci avvolge tutti. Forse, la lettura della seconda cantica ci può aiutare a pensare in termini cosmici anche la nostra vita quotidiana.

IL LENTO GREGGE DELL’ANTIPURGATORIO

La prima metà del monte del Purgatorio, fino alla porta custodita da un angelo di Dio, è regolata dalle medesime leggi che governano le stagioni, il trascorrere delle ore di luce e di ombra, le variazioni atmosferiche sulla Terra. Non è ancora il regno dell’espiazione in cui si sale sulla rampa di lancio che conduce a Dio: è l’Antipurgatorio.

È in questa parte del monte che le somiglianze tra il secondo regno dell’Aldilà e il nostro mondo sono più marcate: appare un paesaggio collinoso, con sentieri, prati e declivi, il giorno è seguito dalla notte. L’unica differenza consiste in una legge che i due poeti scopriranno nel canto VIII: durante la notte bisogna interrompere ogni attività, non è possibile progredire in alcuna impresa che si stava compiendo durante il giorno: la notte è il tempo della tentazione, il tempo dominato dal male. Questo, almeno, sulla Terra. Ma, si diceva prima, il Purgatorio somiglia molto alla Terra.

L’Antipurgatorio non esiste per caso: Dio l’ha destinato alle anime, morte nella Sua grazia, che però hanno tardato molto a pentirsi. Sono quindi degli spiriti negligenti, che meritano la salvezza perché Dio accetta anche i pentimenti dell’ultimo minuto, ma che dovranno attendere prima di iniziare l’espiazione, come hanno fatto attendere Dio. Una vendetta? No, piuttosto un’equa pausa di riflessione, durante la quale queste anime pigre avranno modo di meditare sul loro eccessivo attaccamento ai beni terreni. Perché anche il tempo è un bene materiale: che loro hanno voluto tenere per sé. Non si dice forse che il tempo è denaro? Per Dio, certo, il denaro non ha alcun significato. Ma vuole che anche per gli uomini diventi meno importante, nella loro scala di valori, del loro bene più prezioso, l’anima. Solo quando questo sarà avvenuto, gli uomini avranno veramente varcato la soglia che li separa per sempre dalle miserie della vita terrena.

Così, in un ambiente sereno e solo un po’ malinconico, Dante ha modo di incontrare personalità interessanti di principi, nobildonne, guerrieri e politici del suo tempo. Anime che vagano piene di dignità e di tristezza, di fiducia in Dio e di rimpianto per i loro cari; insomma, tutte sospese nella loro lunga attesa, più di qua ancora, che di là, che mostrano bene la difficoltà principale che i trapassati incontrano nel Purgatorio. Appunto, superare l’attaccamento alla vita terrena. Un compito molto più arduo di quanto non sembri.

Dante nell’Antipurgatorio impara anche un’altra importante caratteristica del secondo regno: diversamente dall’Inferno, qui le anime procedono volentieri in gruppo, anzi sembrano godere di questa nuova condizione di vicinanza e, si direbbe, di somiglianza. Anche quando parlano con Dante, non si staccano nettamente dalla schiera: preferiscono mantenere il contatto con lo sfondo delle altre, che è come un sostegno e una sicurezza. La sicurezza e la pace che derivano dalla fratellanza. Anche nell’Antipurgatorio sono divise in gruppi: dapprima gli spiriti degli scomunicati, che trascurarono di «regolarizzare» la loro posizione religiosa, ma si pentirono sinceramente delle loro colpe appena prima di morire. Essi devono attendere per trenta volte il tempo che lasciarono passare sulla terra sotto scomunica. Tra questi, nel canto III, il primo incontro importante della cantica: il principe Manfredi di Svevia, un autentico personaggio del tempo, figlio naturale di Federico II imperatore e protettore di poeti, scomunicato e rimasto insepolto. Anche Manfredi, che nella sua vita fu un grande, un sovrano e, cosa non meno importante, un uomo affascinante e bello, nella sua nuova vita appare trasformato: non più spavaldo o arrogante, ma invece sorridente e gentile nei modi. Non mostra odio, nemmeno un minimo rancore contro il vescovo di Cosenza che lo perseguitò da morto, facendone disseppellire il corpo e lasciandolo esposto alle intemperie. È davvero rinato, gode di un nuovo splendore. E diventa un esempio dell’ingiusta, arrogante azione della Chiesa, che osa arrogarsi il compito di giudicare gli uomini anche al di là della morte, compito che spetta solo a Dio.

Dopo gli scomunicati vengono gli spiriti pigri, che non ebbero ragioni articolari per rimandare il loro ravvedimento. Perciò adesso resteranno in questo luogo per un tempo corrispondente alla durata della loro vita terrena. Sostano qui anche gli spiriti che hanno dovuto abbandonare il corpo all’improvviso, in seguito alla violenza: sono stati uccisi a volte a tradimento, a volte addirittura da persone care, e sono i più malinconici. Sembra anzi che staccarsi dal loro amato corpo rappresenti una difficoltà insormontabile: l’esserne stati separati a forza ha creato un attaccamento morboso, che traspare dai racconti delle loro uccisioni. Queste anime indugiano a volte sui particolari dei loro omicidi, descrivono con nostalgia e affetto i loro corpi martoriati. Sembra quasi che ne apprezzino ancora la fragilità, le imperfezioni. In fondo, sono stati strappati alla vita quasi senza rendersene conto: dovranno avere tutto il tempo per capacitarsi della loro nuova condizione.

Pessimi esempi della violenza e dell’inganno che gli esseri umani subiscono dai loro simili, gli spiriti delle persone uccise precedono il gruppo dei sovrani negligenti di tutta Europa: buoni governanti per i loro sudditi, non seppero occuparsi altrettanto bene delle questioni riguardanti l’anima. Dante li descrive intenti a cantare inni in coro, con uno spirito nuovo di fraternità che mai sulla terra avevano dimostrato. Evidentemente, il poeta spera che quest’immagine serena possa diventare un esempio per i regnanti del suo tempo. Perché la storia che conosceva, in realtà, era assai meno edificante. Lo provano i tristi racconti del canto V, dove due uomini politici, Iacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro e un personaggio femminile, la dolce Pia da Siena, svelano al pellegrino il modo in cui furono uccisi. A tradimento, e senza avere possibilità di scampo Iacopo, in battaglia Buonconte, lei addirittura, dal marito, colui che le aveva giurato fedeltà mettendole l’anello.

Tutti questi personaggi, quelli che morirono da infelici e quelli che trascurarono lo spirito, sono accomunati da una dolcezza di movimenti, da una mansuetudine di modi e di parola che spinge il poeta a paragonarli, in senso assolutamente positivo, a un gregge di pecore. Pensare che nel Convivio, il suo trattato filosofico in prosa scritto poco prima del poema, aveva mostrato una ben più scarsa considerazione per questi miti ammali. Ma allora probabilmente non aveva ancora capito la felicità che può derivare dall’abbandonarsi a Dio. Con fiducia totale. Riconoscendogli un’intelligenza così superiore a quella individuale umana, da non sentire più il bisogno di aggrapparsi alle anguste facoltà della propria ragione. Insomma, in Purgatorio le qualità che facevano apprezzare un uomo nella competizione coi suoi simili cominciano a perdere importanza. Più in alto saliranno le anime, e meno conterà persino il loro ricordo.

IL PERDONO DI DIO

La seconda regione del monte è occupata dal Purgatorio vero e proprio. Qui, al di là della porta che Dante e Virgilio varcano nel canto IX, le leggi atmosferiche del mondo non hanno più vigore. Non ci sono né venti, né pioggia, né cambi di stagione. In compenso, accadono fenomeni soprannaturali: si odono voci senza corpo che gridano esempi di virtù da seguire, si vedono bassorilievi così perfetti e veritieri da sembrare vivi; si verificano terremoti presunti seguiti da cori celestiali, che segnano e festeggiano il termine della purificazione di un’anima. Una specie di anticipazione del modo in cui, possiamo immaginare, il Purgatorio tutto finirà, al momento del Giudizio Universale. Allora gli uomini risorgeranno col corpo e ci saranno solo due regni, Inferno e Paradiso, solo eterna dannazione ed eterna beatitudine. Non ci sarà più una sola anima ancora intenta a espiare, perché tutte le colpe saranno state per sempre purificate, o eternamente punite. Così è scritto nel libro di Dio: l’Inferno e il Paradiso sono regni eterni, il Purgatorio no. Un aspetto questo che lo rende ancora più simile alla Terra.

Il Purgatorio è il regno dell’espiazione, e ogni livello di ascesa rappresenta un avvicinamento a Dio. L’equità divina qui si manifesta in modo simile a quello del contrappasso delle pene infernali: solo che non ci sono pene, ma solo strumenti di purificazione. Gli spiriti prima di raggiungere Dio devono liberarsi completamente del loro peccato, o dei loro peccati principali: più che una punizione, la prova che subiscono è dunque uno strumento che permette di meditare continuamente su di essi. Ecco spiegata la ragione della gioia diffusa sulle pendici del monte, nonostante la sofferenza provocata dall’espiazione: ciascuno spirito sa che il dolore non durerà in eterno, ma che anzi in un tempo relativamente breve lascerà il posto alla beatitudine. Sa che la sofferenza non è fine a se stessa, ma un mezzo per avvicinarsi a Dio. Infine, sa che la sua maggiore sofferenza è data proprio dalla lontananza da Dio: spiriti morti in stato di grazia, gli abitanti del Purgatorio tendono più di ogni altra cosa a raggiungere Lui. Ogni volta che la zavorra del peccato tende a diminuire, il bisogno di Dio si fa più forte: ogni momento che passa è dunque accolto con gioia, in quanto avvicina a Lui.

La purificazione, quindi, è il mezzo per ottenere il perdono di Dio. Nel Purgatorio il sogno di tornare all’infanzia dell’umanità, a un tempo in cui colpe e peccati non esistevano, miracolosamente si realizza. O meglio: entrando nel Purgatorio, il regno del perdono, gli uomini tornano alla loro adolescenza: il perdono da solo non cancella il ricordo delle colpe commesse. Forse, dopo sette secoli, Dante ancora questo riesce a dirci con il suo Purgatorio, meglio di qualunque manuale di psicologia: per ottenere il perdono di Dio, bisogna innanzitutto perdonare se stessi. Proprio come nella vita, sempre.

ESPIAZIONI E CORNICI: IL PURGATORIO È UNA CATTEDRALE GOTICA

La classificazione delle colpe veniali, cioè non tali da causare la morte dell’anima, nel Purgatorio è quella canonica dei sette peccati capitali. Anche qui come nella prima cantica, il meno grave di tutti è la lussuria, rappresentato perciò nell’ultima cornice, la più vicina al Paradiso Terrestre e al Cielo. La purificazione non è solo simbolicamente un’ascesa a Dio: non dimentichiamo che il Purgatorio si trova sulle pendici di un monte, e che quindi una salita autentica corrisponde alla liberazione progressiva dai peccati. Dante non manca di ricordarcelo, paragonando spesso la sua fatica a quella di chi si arrampica sui pendii scoscesi di Noli o di San Leo, luoghi famosi per la loro impervia bellezza.

Con una simmetria esattamente speculare rispetto all’Inferno, la prima colpa si espia sul più basso «terrazzo» o «cornice»: una specie di balza pianeggiante che circonda il monte per tutta la sua circonferenza. Si procede quindi dal basso verso l’alto, ma anche dal terrazzo più largo al più stretto, data la forma a cono, col vertice rivolto in alto, della montagna. Quindi, nell’ordine, Dante assisterà all’espiazione di superbi, invidiosi, iracondi, accidiosi, avari e prodighi, golosi e, appunto, lussuriosi. Salendo faticosamente sulle balze, quindi soffrendo a sua volta, e non solo perché partecipe emotivamente della loro situazione. Che la prima cornice sia la più larga è un fatto, ma non solo fisico, non solo legato alla struttura montuosa del secondo regno: questo perché il sistema dell’espiazione prevede che vengano purificati anche più peccati da un’anima sola. La superbia, e subito dopo l’invidia, sono le colpe più gravi e temibili, perché da esse traggono pericoloso nutrimento tutte le altre. Essere superbi significa chiudere gli occhi dell’anima, impedirle di crescere, attribuendo valore a falsi beni. Ne sanno qualcosa gli artisti che espiano nel canto XI, piegati sotto il peso di massi enormi: credettero di essere immortali per la loro fama, e dimenticarono che l’unica fonte di vita eterna è Dio. Dante si ferma a dialogare con Oderisi da Gubbio, celebre creatore di immagini miniate nel suo tempo. Forse, riconosce anche in sé le tracce di un simile peccato, la superbia intellettuale, e si prepara ad affrontare, un giorno, la medesima prova.

Invidiare è il contrario di amare: chi prova invidia verso i suoi simili blocca l’amore che ha in sé, e che dovrebbe invece donare. Come per l’amore, gli occhi sono il veicolo dell’invidia: ecco perché gli invidiosi giacciono a terra con le palpebre cucite da fil di ferro. A meditare per lungo tempo sul male che fecero agli altri, avidamente guardandone le qualità, ma solo per sminuirle, malignamente cercando di vederne i segreti, ma solo per danneggiarli.

Né soffrono meno gli altri colpevoli. Ma tutti, come sì diceva, felici di soffrire. Diversamente dall’Inferno, immonda cloaca di brutture spirituali e perdizione senza speranza, il Purgatorio è luogo di speranza collettiva, dove la preghiera si accompagna all’espiazione al punto da farlo diventare un’immensa cattedrale a cielo aperto. Cantano in coro un inno biblico gli spiriti sbarcati sulla spiaggia nel canto II, i primi che Dante vede; pregano cantando un inno cristiano i re e principi nella valle fiorita dell’Antipurgatorio nel canto VIII; pregano per tutti gli uomini ancora soggetti alla tentazione i superbi nel canto XI, con un commovente «Padre nostro». E non solo questi cori di preghiere e inni rendono il monte sempre più simile a una cattedrale gotica, protesa verso Dio: ci sono esempi di virtù da seguire incisi sul terreno, o sul fianco della montagna, come sul pavimento e sulle pareti di una chiesa. E si svolgono persino sacre rappresentazioni, in cui spiriti e angeli recitano insieme: nel canto VIII il serpente, simbolo della tentazione, striscia nella bella valle dei principi negligenti ma viene cacciato via da due angeli armati di spada.

Dunque, tutti gli spiriti penitenti pregano. Ma c’è qualcos’altro che li accomuna. Un desiderio, che si traduce in richiesta a Dante, l’unico che, tornato sulla Terra, potrà soddisfarla. Queste anime combattute fra il ricordo del passato e la tensione verso Dio, pregano ma hanno anche bisogno che qualcuno preghi per loro. Anzi hanno estremo bisogno delle preghiere di persone vive, ma assolutamente in grazia di Dio, perché il tempo della loro espiazione, del loro esilio da Dio, si accorci. Perciò tutte, appena in qualche modo sanno che Dante vive ancora col suo corpo, gli chiedono di pregare per loro. Di sollecitare i loro cari, amici e parenti se ancora ne hanno, a fare altrettanto. Alcuni, come Pia, chiedono con discrezione, altri assediano quasi Dante. Ma tutti sono spinti dalla stessa ansia di raggiungere al più presto Dio. Se non otterranno suffragi, i loro tempi potranno essere molto lunghi, per la misura terrena: nel canto XVII, l’antico poeta latino Stazio, che ha appena ultimato la purificazione, racconta di aver trascorso più di cinque secoli nella cornice di avari e prodighi, a liberarsi della prodigalità.

LA PRESENZA DEGLI ANGELI

La continua richiesta di suffragi rappresenta anche, spesso, un collegamento fra questi spiriti e il mondo terreno: sollecitare le preghiere dei congiunti significa infatti ricordarli, accendere di nuovo l’affetto che univa gli uni agli altri.

Ma c’è anche un collegamento col Cielo. Il più importante segnale che il regno del Purgatorio si trova sotto la diretta giurisdizione di Dio, ben diversamente dall’Inferno, è la presenza degli Angeli. Essi rappresentano la prova visibile che è stato rinnovato il patto con Dio, dopo il peccato originale, le colpe e i pentimenti individuali. Gli angeli appaiono subito, fin dal canto II, anzi se ne incontrano più qui che non nella cantica successiva, dove a maggior ragione ci si aspetterebbe di poterli avvicinare e conoscere. Ma forse, è più necessaria adesso la loro presenza, nel momento ancora difficile della purificazione dalle proprie debolezze e mancanze: è necessario che si faccia sentire attraverso di loro un legame stretto con il Cielo, la meta che sembra ancora lontana.

Il primo a mostrarsi è l’angelo nocchiero, gentile traghettatore di anime ormai salve. Appare a Dante come un evento soprannaturale, più che come un essere vivo e pensante: tanto che lo descrive come una macchia di puro colore candido in progressivo avvicinamento, qualcosa che sulle prime non è classificabile in base ai parametri della mente umana. Altre presenze però sono meno astrattamente maestose: per esempio i due angeli dalle ali verdi che difendono la valle fiorita dalla minaccia del serpente; o gli angeli posti al confine tra una cornice e l’altra che cancellano le P simbolo del peccato dalla fronte di Dante. Essi usano le ali per produrre un vento leggero e carezzevole sulla pelle dello stanco pellegrino. Che dopo il trattamento si sente più forte e leggero.

Insomma, persino gli angeli, queste alate creature soprannaturali che il Paradiso ci mostrerà come pure intelligenze responsabili del movimento del cosmo, sembrano assorbire la dimensione umana del Purgatorio. Sono avvicinabili, meno enigmatici e inquietanti che nelle apparizioni raccontate nelle vite dei santi, persino meno identici gli uni agli altri. In una parola, quasi umani. Forse per delicatezza verso chi non è ancora abituato, e si deve abituare per gradi, alla dimensione dell’eternità. Al regno di Dio.

LO SMARRIMENTO DI VIRGILIO

Ma nel Purgatorio c’è un personaggio che al regno di Dio non si abituerà mai. Per il fatto, doloroso e inevitabile, che non potrà accedervi. Questo personaggio è Virgilio: proprio la guida di Dante, che tanto si è impegnato, tanto ha rischiato a volte per aiutarlo. Nel regno del Purgatorio, già parte della dimensione divina, Virgilio mostra la sua fragilità di anima del Limbo, esiliata in eterno da Dio. Lui che per tutto l’Inferno si era mostrato sicuro, pacato e inappuntabile nelle trattative con diavoli e mostri, consapevole del suo ruolo di guida incaricata da Dio, qui nel Purgatorio cambia del tutto atteggiamento. Appare fin dai primi episodi smarrito e insicuro. In realtà, Virgilio è doppiamente a disagio: intanto perché non conosce la topografia del secondo regno, che non ha mai visitato prima d’ora; poi perché improvvisamente si rende conto che qui dentro, fra tanti che se ne andranno in Cielo, l’unico spirito che non potrà mai vedere Dio è lui.

Di colpo, Virgilio è inferiore a tutti gli altri. Non conta più, alla luce della nuova dimensione, la sua grandezza di poeta. E riconoscere questa realtà gli provoca dolore e smarrimento.

Dante descrive con affettuosa attenzione questo cambiamento del suo personaggio, lo rivela a poco a poco in brevi situazioni di sapore teatrale, concentrate tutte nell’Antipurgatorio: nel canto II, Virgilio incontra il custode del monte del Purgatorio, l’eroe di Roma antica Catone. Subito è troppo ossequioso nei suoi confronti, e si lascia cogliere in fallo e rimproverare duramente da lui, quando si fermerà sulla spiaggia ad ascoltare incantato la melodia del musicista Casella. Nel canto III, Virgilio senza volere abdica al suo ruolo di guida, perché non sa in che direzione andare e nemmeno a chi domandarla. Toccherà a Dante stesso trarre d’impaccio entrambi, non senza mortificazione per la sua guida. Più avanti, dopo che avranno scoperto che è vivo, gli spiriti assedieranno Dante per chiedergli suffragi e ignoreranno completamente lui, che resterà mestamente in disparte. Fino all’incontro col concittadino Sordello, mantovano e poeta: col pretesto di parlare della patria, in realtà per prendersi una parziale rivincita, esclude Dante dal lungo colloquio, e parla di sé ampiamente, descrivendosi come un uomo giusto, al quale mancò una sola qualità: la fede. È così protagonista per un intero canto.

All’ingresso nel Purgatorio vero e proprio, Virgilio ha già avuto modo di riaversi dallo smarrimento iniziale, e riacquista il dominio di sé. La ritrovata dignità riceverà un commosso omaggio nel canto XXII, con l’apparizione del poeta Stazio: che dichiarerà di dovere la sua conversione al cristianesimo, quindi la salvezza, proprio a Virgilio. Senza rendersene conto infatti, quest’ultimo aveva predetto, secondo Dante e gli intellettuali del suo tempo, in una sua poesia la nascita di Gesù e il rinnovamento del mondo. Stazio paragona Virgilio a un uomo che illumina il sentiero su cui cammina, ma solo dietro di sé. Perché porta la lanterna sulla schiena, e non può vederne la luce.

Così Dante trova il modo di elogiare la superiorità del suo amato maestro di poesia e stile anche nel regno di Dio, dove la sua debolezza di uomo dotato della sola ragione e privo della grazia si rivela inadeguata.

SETTE P SULLA FRONTE...

Ma anche Dante è cambiato nel Purgatorio: l’esperienza terribile dell’Inferno gli ha dato forza e autonomia. Per la prima volta, può identificarsi nelle anime che incontra: non è più come all’Inferno, dove aveva da compiere ogni sforzo per prendere il più possibile le distanze dai disgraziati in cui si imbatteva. Adesso è veramente partecipe, fino in fondo, del cammino in salita che le anime penitenti stanno compiendo. Adesso la fratellanza è totale: Dante è uno di loro.

Questa condizione appare chiara fin dal canto I: appena sbarcato sulla spiaggia, Dante è ancora coperto dalle scorie opache del regno infernale, che se non venissero rimosse gli impedirebbero di godere pienamente lo spettacolo che ha davanti agli occhi. Ma Virgilio prendendosi cura del suo protetto ne deterge il volto, e poi ne cinge la vita con un giunco flessuoso, colto in riva al mare. Subito dopo, con un miracolo che svela l’essenza soprannaturale del luogo, il giunco ricresce, esattamente dov’è stato strappato. Quel giunco simboleggia l’umiltà che il buon penitente deve avere prima di accostarsi alla purificazione. Deve sentire tutta la fragilità della sua condizione, vivere fino in fondo il pentimento. Con il corpo circondato dal giunco, Dante è ufficialmente un penitente.

Quando poi inizia l’ascesa, la condizione penitenziale del pellegrino Dante gli viene scritta sulla fronte: l’angelo a guardia della porta d’ingresso gli disegna in fronte sette P maiuscole con la punta della sua spada. Ogni volta che ha visitato una cornice e ha imparato dagli esempi e dal dialogo con una o più anime, l’angelo preposto gli cancella una P. E basterà l’assenza di un così piccolo segno a far sentire Dante più leggero e pieno di energia. In realtà, non ha solo ottenuto la cancellazione di una P: si è purificato da un peccato. E come i protagonisti delle fiabe in cui «sette paia di scarpe» deve consumare l’eroe per compiere l’impresa, la sua fatica sarà premiata: Dante avrà davvero vissuto la dura esperienza dell’espiazione insieme con gli spiriti purgatoriali. Il numero sette, il numero simbolico dei peccati capitali, lo accompagna come un motivo ricorrente per tutta la durata dell’ascesa: sette sono le cornici, come sette i peccati, sette le P sulla fronte, e sette gli angeli che le cancellano. Come sette sono i giorni della settimana nel mondo terreno: della nostra penitenza quotidiana.

LA CANTICA DELL’AMICIZIA E DELL’ARTE

Dante si identifica a tal punto con gli spiriti penitenti, che il Purgatorio diventa il luogo privilegiato degli incontri con amici del passato fiorentino. Non persone qualsiasi fatte apparire per pura nostalgia: tutti personaggi molto amati, uomini che condivisero con Dante il sogno di un’arte perfetta, divina. Di una gloria che durasse in eterno. Un sogno che non poteva realizzarsi, perché, e Dante lo capì più tardi, la perfezione e l’eternità appartengono solo a Dio. Apre la schiera di questi incontri il musicista fiorentino Casella appena sbarcato sulla spiaggia del Purgatorio, nel canto II: mettendosi a cantare una poesia dell’amico Dante, incanta tutti gli spiriti e li distoglie dal loro dovere di salire a Dio. Un episodio simbolico: il ricordo della bellezza terrena, anche se gradita e rimpianta, non deve bloccare l’uomo nella sua imperfetta condizione di mortale. Non deve impedirgli di ritrovare la sua vera dimensione.

Questo avevano invece fatto anche altri artisti, incapaci di adeguare fino in fondo la loro arte alla volontà divina: Dante li incontra nelle cornici più alte, ormai prossimi alla beatitudine. Tra i golosi Forese Donati, con cui Dante scambiò una serie di sonetti scherzosi; poi Bonagiunta Orbicciani da Lucca, poeta meno importante, che riconosce la sua inferiori rispetto a Dante. Tra i lussuriosi Guido Guinizzelli, che riceve l’omaggio di essere chiamato «padre degli Stilnovisti», iniziatore del più importante movimento poetico della giovinezza di Dante. Poi il trovatore provenzale Arnaut Daniel, che parla in versi provenzali: insomma, alcuni tra i poeti più famosi del tempo, che attribuiscono a Dante un ruolo di primo piano. Un ruolo unico. Dante infatti sarà il solo poeta del suo tempo, dopo il suo ingresso nel Paradiso Terrestre con Virgilio e Stazio, due poeti epici dell’antica Roma, di millenni più antichi di lui, a entrare in Paradiso.

LA PRIMA BEATITUDINE DELL’UOMO...

Nella splendida foresta sempre soleggiata e tiepida del Paradiso Terrestre, il Giardino dell’Eden dove vissero felici Adamo ed Eva prima del peccato originale, Dante non entra da solo. Sono con lui ancora Virgilio, che però sparirà senza dir nulla qualche istante dopo, troppo commosso per sostenere un addio. E Stazio, che i due avevano incontrato qualche cornice più giù e che si era unito a loro. Ma anche di Stazio Dante non darà più notizia nei versi successivi: diventerà un comprimario poco importante.

Il terzetto dunque si scioglie, Dante resta solo e da solo gode la gioia di essere salito sulla cima del monte. Ha scalato l’intero Purgatorio, ha superato i suoi peccati con gli spiriti penitenti: l’ingresso nel Giardino dell’Eden ha il significato simbolico di una consacrazione poetica. Superate le prove più rischiose e faticose nelle prime due tappe del viaggio, raccolta da Virgilio l’eredità della poesia classica, Dante ha acquisito il diritto di cantare Dio, nella difficile poesia del Paradiso. L’ultima impresa della Commedia consisterà nel dare una descrizione adeguata delle visioni indescrivibili del terzo regno dell’Aldilà.

... E, DI NUOVO, BEATRICE

Ma qualcuno gli viene in aiuto: la solitudine di Dante dura poco. Nel giardino dell’Eden, prima dimora dell’umanità felice, Dante incontra di nuovo, dopo anni di separazione, «colei che rende beati», come il suo stesso nome dichiara: Beatrice. Toccherà a lei guidare Dante nel Paradiso, ora che Virgilio è tornato nel Limbo. Donandogli ancora la felicità che la sua sola vista gli suscitava.

La protagonista della poesia giovanile di Dante, cantata in sonetti e canzoni ormai celebri, adesso è severa con il suo poeta: non gli risparmia duri rimproveri, per aver trascurato la fede, per aver smesso di amare Dio attraverso di lei. Dante è profondamente consapevole dei suoi errori, sa che per poco non ha perso l’anima, rischiando di finire anche lui tra i dannati. Si vergogna a tal punto che piange. È quasi buffo assistere a questa ramanzina materna di Beatrice e al pianto del mortificato Dante, nella cornice soprannaturale di un Giardino incantevole, mentre angeli e figure allegoriche li circondano sbigottiti, intercedendo per il pellegrino.

Ma questo pianto è ancora più efficace del primo lavacro sulla spiaggia del Purgatorio. Con esso il penitente Dante ha superato l’ultimo ostacolo che gli impediva di sa lire al cielo, la prova che lo riguardava in modo più autentico. Come vedremo, nella terza cantica sarà così leggero, libero com’è da ogni colpa, da poter volare con Beatrice attraverso i cieli del Paradiso.

 

BIANCA GARAVELLI