SULLA BIBLIOFILIA

La memoria vegetale *

Voglio subito ricordare che questa conferenza – che dovrebbe auspicabilmente essere seguita da altre – è stata organizzata dall’Aldus Club, in collaborazione con la Biblioteca di Brera, non per bibliofili incalliti, o per eruditi che coi libri abbiano molta, e forse troppa dimestichezza, ma al contrario per un pubblico più vasto, anche giovane, di cittadini di un paese dove le statistiche ci dicono che, accanto a una folla di persone che non prendono mai in mano un libro, ve ne sono anche moltissime, troppe, che di libri non ne avvicinano più di uno all’anno – e le statistiche non dicono in quanti di questi casi si tratti solo di un manuale di cucina o di una raccolta di barzellette sui carabinieri.

Se poi l’austerità del luogo e la difficoltà del titolo han convocato qui più arcivescovi che catecumeni, non importa. Propongo il mio come esempio di una serie di discorsi che i lettori potrebbero fare, in varie circostanze educative, a chi lettore è un poco meno.

1. Sin dai tempi di Adamo gli esseri umani manifestano due debolezze, una fisica e l’altra psichica: dal lato fisico, prima o poi muoiono; dal lato psichico gli dispiace di dover morire. Non potendo ovviare alla debolezza fisica, cercano di rivalersi sul piano psichico, chiedendosi se vi sia una forma di sopravvivenza dopo la morte, e a questa domanda rispondono la filosofia, le religioni rivelate, e varie forme di credenze mitiche e misteriche. Alcune filosofie orientali ci dicono che il flusso della vita non si arresta, e che dopo la morte ci reincarneremo in un’altra creatura. Ma di fronte a questa risposta la domanda che ci sorge spontanea è: quando sarò quell’altra creatura mi ricorderò ancora che ero stato io, e saprò fondere i miei vecchi ricordi con quelli nuovi che essa avrà? Se la risposta è negativa, rimaniamo molto male, perché tra essere un altro che non sa di essere stato me, e scomparire nel nulla, non c’è nessuna differenza. Io non voglio sopravvivere come qualcun altro, voglio sopravvivere come me stesso. E poiché di me non ci sarà più il corpo, spero che sopravviva l’anima: ma la risposta che tutti daremmo ci dice che identifichiamo la nostra anima con la nostra memoria. Come diceva Valéry “Io sono, in quanto me stesso, a ogni istante, un enorme fatto di memoria”.

E infatti ci paiono più umane quelle religioni che ci assicurano che dopo la morte io ricorderò tutto di me, e persino l’inferno altro non sarà che un eterno ricordare le ragioni per cui sono stato punito.

E infatti se sapessimo che all’inferno soffrirebbe un altro che non sa di essere stato me, peccheremmo tutti allegramente: che cosa mi interessano le sofferenze di uno che non solo non avrà il mio corpo attuale ma neppure i miei ricordi?

La memoria ha due funzioni. Una, ed è quella a cui tutti pensano, è quella di trattenere nel ricordo i dati della nostra esperienza precedente; ma l’altra è anche quella di filtrarli, di lasciarne cadere alcuni e di conservarne altri. Forse molti di voi conoscono quella bella novella di Borges intitolata Funes el memorioso. Ireneo è un personaggio che percepisce tutto senza filtrare nulla e senza filtrare nulla ricorda tutto:

Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: “Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo”. Anche disse: “I miei sogni, sono come la vostra veglia”. E anche: “La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti”. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo (...).

Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.

Ma ricordare tutto significa non riconoscere più nulla:

Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico “cane” potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano.

(...) Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.

Come accade che siamo capaci di riconoscere una persona cara anche alcuni anni dopo (e dopo che il suo volto si è modificato), o di ritrovare la strada di casa ogni giorno anche se sui muri ci sono nuovi manifesti, e se magari il negozio all’angolo è stato ridecorato con nuovi colori? Perché del volto amato o del tragitto consueto abbiamo ritenuto solo alcuni tratti fondamentali, come uno schema, che rimane invariato al di sotto di molte modificazioni superficiali. Altrimenti nostra madre con un capello bianco in più, o casa nostra con le persiane riverniciate, ci apparirebbero come un’esperienza nuova, e non le riconosceremmo.

Questa memoria selettiva, così importante per permetterci di sopravvivere come individui, funziona anche a livello sociale e permette di sopravvivere alle comunità. Sin dai tempi in cui la specie incominciava a emettere i suoi primi suoni significativi, le famiglie e le tribù hanno avuto bisogno dei vecchi. Forse prima non servivano e venivano buttati quando non erano più buoni per trovar cibo. Ma col linguaggio i vecchi sono diventati la memoria della specie: si sedevano nella caverna, attorno al fuoco, e raccontavano quello che era accaduto (o si diceva fosse accaduto, ecco la funzione dei miti) prima che i giovani fossero nati. Prima che si iniziasse a coltivare questa memoria sociale, l’uomo nasceva senza esperienza, non faceva in tempo a farsela, e moriva. Dopo, un giovane di vent’anni era come se ne avesse vissuti cinquemila. I fatti accaduti prima di lui, e quello che avevano imparato gli anziani, entravano a far parte della sua memoria.

I vecchi, che articolavano il linguaggio per consegnare a ciascuno le esperienze di coloro che li avevano preceduti, rappresentavano ancora, al suo livello più evoluto, la memoria organica, quella registrata e amministrata dal nostro cervello. Ma con l’invenzione della scrittura assistiamo alla nascita di una memoria minerale. Dico minerale perché i primi segni vengono incisi su tavolette d’argilla, scolpiti su pietra; perché fa parte della memoria minerale anche l’architettura, dato che dalle piramidi egizie sino alle cattedrali gotiche il tempio era anche una registrazione di numeri sacri, di calcoli matematici, e attraverso le sue statue o i suoi dipinti tramandava delle storie, degli insegnamenti morali, costituiva insomma, come è stato detto, una enciclopedia in pietra.

E se un supporto minerale avevano i primi ideogrammi, caratteri cuneiformi, rune, lettere alfabetiche, un supporto minerale ha anche la più attuale delle memorie, quella dei computer, la cui materia prima è il silicio. Oggi grazie ai computer disponiamo di una memoria sociale immensa: basta conoscere le modalità d’accesso alle banche dati e su un qualsiasi argomento potremmo avere tutto quello che occorre sapere, su un solo soggetto una bibliografia di diecimila titoli. Ma non c’è maggior silenzio del rumore assoluto, e l’abbondanza d’informazione può generare l’assoluta ignoranza. Di fronte all’immenso magazzino di memoria che il computer può offrirci, noi ci sentiamo tutti come Funes: ossessionati da milioni di particolari, possiamo perdere ogni criterio di scelta. Sapere che su Giulio Cesare ci sono diecimila libri è lo stesso che non saperne nulla: se me ne avessero consigliato uno, sarei andato a cercarlo: di fronte al dovere di iniziare a esplorare quei diecimila titoli, mi arresto.

Ma con l’invenzione della scrittura è nato a poco a poco il terzo tipo di memoria, che ho deciso di chiamare vegetale perché, anche se la pergamena era fatta con pelle di animali, vegetale era il papiro e con l’avvento della carta (sin dal XII secolo) si producono libri con stracci di lino, canapa e tela e infine l’etimologia sia di biblos che di liber rinvia alla scorza dell’albero.

I libri esistono prima della stampa, anche se all’inizio avevano la forma di un rotolo e solo a poco a poco sono divenuti sempre più simili all’oggetto che conosciamo. Il libro, in qualsiasi forma, ha permesso alla scrittura di personalizzarsi: rappresentava una porzione di memoria, anche collettiva, ma selezionata secondo una prospettiva personale. Di fronte a obelischi, steli, tavole o a epigrafi su pietre tombali, noi cerchiamo di decifrarli: si tratta cioè di conoscere l’alfabeto usato e di sapere quali erano le informazioni essenziali che venivano trasmesse: qui è sepolto il tale, quest’anno sono stati prodotti tanti covoni di grano, questi e questi altri paesi ha conquistato questo signore. Non ci chiediamo chi abbia stilato o inciso. Di fronte al libro cerchiamo invece una persona, un modo individuale di vedere le cose. Non cerchiamo solo di decifrare, ma cerchiamo anche di interpretare un pensiero, un’intenzione. Andando alla ricerca di un’intenzione, si interroga un testo, di cui si possono dare letture anche diverse.

La lettura diventa un dialogo ma un dialogo – e questo è il paradosso del libro – con qualcuno che non è di fronte a noi, che è scomparso forse da secoli, e che è presente solo come scrittura. C’è una interrogazione dei libri (si chiama ermeneutica) e se c’è ermeneutica c’è culto del libro. Le tre grandi religioni monoteistiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, si sviluppano in forma di interrogazione continua di un libro sacro. Il libro diventa a tal punto simbolo della verità che custodisce, e che svela a chi sappia interrogarlo, che per chiudere una discussione, affermare una tesi, distruggere un avversario, si dice “È scritto qui”. Siamo sempre dubitosi della nostra memoria animale (“mi pare di ricordare che... ma non ne sono sicuro”) mentre accade che la memoria vegetale venga esibita per togliere ogni dubbio: “l’acqua è davvero H2O, Napoleone è davvero morto a Sant’Elena, lo dice l’enciclopedia”.

Nella tribù primitiva il vecchio assicurava: “Così sono accadute le cose nella notte dei tempi, lo assicura quella tradizione che si è tramandata di bocca in bocca sino ai giorni nostri”, e la tribù dava fiducia alla tradizione. Oggi i libri sono i nostri vecchi. Anche se sappiamo che sovente sbagliano, li prendiamo in ogni caso sul serio. Chiediamo loro di darci più memoria di quanto la brevità della nostra vita non ci consenta di accumulare. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissute moltissime. Una volta Valentino Bompiani aveva inventato come slogan editoriale “Un uomo che legge ne vale due”. In effetti ne vale mille. È attraverso la memoria vegetale del libro che noi possiamo ricordare, insieme ai nostri giochi d’infanzia, anche quelli di Proust, tra i nostri sogni di adolescenza quelli di Jim alla ricerca dell’Isola del Tesoro, e oltre che dai nostri errori traiamo lezioni anche dagli errori di Pinocchio, o da quelli di Annibale a Capua; non abbiamo spasimato soltanto per i nostri amori ma anche per quelli dell’Angelica ariostesca, – o se siete più modesti per quelli dell’Angelica dei Golon; abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sherazade.

A qualcuno (per esempio a Nietzsche) tutto questo ha dato l’impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l’analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non ha letto) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Naturalmente i libri possono indurci a ricordare anche molte menzogne, ma hanno pur sempre la virtù di contraddirsi tra loro, e ci insegnano a valutare criticamente le informazioni che ci consegnano. Leggere aiuta anche a non credere ai libri. Non conoscendo i torti degli altri l’analfabeta non conosce neppure i propri diritti.

Il libro è un’assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All’indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto e subito. Non sappiamo se conserveremo memorie delle nostre esperienze dopo la nostra morte individuale. Ma sappiamo di sicuro che noi conserviamo memoria delle esperienze di coloro che ci hanno preceduto, e che altri che ci seguiranno conserveranno memoria delle nostre. Anche se noi non siamo Omero, potremo restare nella memoria del futuro come i protagonisti – che so – di un fortunoso incidente sull’autostrada Milano-Roma nella notte del 14 agosto. D’accordo, sarebbe poco, ma sempre meglio di nulla. Pur di essere ricordato dai posteri, Erostrato ha incendiato il tempio di Diana in Efeso, e i posteri purtroppo lo hanno reso celebre ricordando la sua stupidità. Nulla di nuovo sotto il sole, si diventa famosi anche facendo la parte dello scemo del villaggio al Costanzo Show.

2. Qualcuno ogni tanto dice che oggi si legge meno, che i giovani non leggono più, che siamo entrati, come ha detto un critico americano, nell’età del Decline of Literacy. Io non so, certamente oggi la gente vede molta televisione, e vi sono i soggetti a rischio che non vedono altro che televisione, così come ci sono soggetti a rischio a cui piace iniettarsi in vena sostanze mortali: ma è pur vero che non si è mai stampato tanto quanto nella nostra epoca, e che mai come ai nostri giorni stanno fiorendo librerie che sembrano discoteche, piene di giovani che, anche quando non acquistano, sfogliano, guardano, si informano.

Il problema è piuttosto, anche per i libri, quello dell’abbondanza, della difficoltà della scelta, del rischio di non riuscire più a discriminare: è naturale, la diffusione della memoria vegetale ha tutti i difetti della democrazia, un regime in cui, per permettere a tutti di parlare, occorre lasciar parlare anche gli insensati, e persino i mascalzoni. C’è il problema di come educarsi a scegliere, certo, anche perché se non si impara a scegliere si rischia di rimanere davanti ai libri come Funes di fronte alle proprie infinite percezioni: quando tutto appare degno di essere ricordato, nulla più è degno, e si desidererebbe dimenticare.

Come educarsi a scegliere? Per esempio chiedendosi se il libro che stiamo per prendere in mano è uno di quelli che getteremmo dopo averlo letto. Mi direte che non si può saperlo prima di aver letto. Ma se dopo aver letto due o tre libri ci accorgiamo che non desidereremmo conservarli, forse dovremmo rivedere i nostri criteri di scelta. Gettare un libro dopo averlo letto è come non desiderar più di rivedere la persona con la quale si è appena avuto un rapporto sessuale. Se avviene così, si trattava di una esigenza fisica, non di amore. E invece bisogna riuscire a instaurare rapporti d’amore con i libri della nostra vita. Se si riesce, vuol dire che si tratta di libri che si esponevano a un’ampia interrogazione, a tal punto che a ogni rilettura ci rivelano qualcosa di diverso. Si tratta di un rapporto d’amore perché è infatti nello stato dell’innamoramento che gli innamorati scoprono con gioia che ogni volta è come se fosse la prima. Quando si scopre che ogni volta è come se fosse la seconda, si è pronti per il divorzio o, nel caso del libro, per la pattumiera.

Poter gettare o conservare significa che il libro è anche un oggetto, che può essere amato non solo per quello che dice, ma per la forma in cui si presenta. Questa conferenza è stata organizzata da un club di bibliofili, e un bibliofilo è qualcuno che raccoglie libri anche per la bellezza della composizione tipografica, della carta, della rilegatura. I bibliofili perversi si lasciano sopraffare dall’amore per queste componenti visive e tattili, al punto che non leggono i libri che raccolgono, e se sono ancora intonsi non ne tagliano le pagine per non abbassarne il valore commerciale. Ma ogni passione genera le proprie forme di feticismo. Però è giusto che il bibliofilo possa desiderare di avere tre edizioni diverse dello stesso libro, e talora la differenza delle edizioni incide anche sul modo in cui ci avviciniamo alla lettura. Un mio amico, non a caso poeta, che ogni tanto scopro a scovare antiche edizioni di poeti italiani, mi ripete che ben diverso è il gusto di leggere Dante su un tascabile odierno o sulle belle pagine di una edizione aldina. E accade a molti, quando trovano la prima edizione di un autore contemporaneo, di provare una emozione particolare a rileggere quei versi nei caratteri in cui li avevano letti i loro primi destinatari. Alla memoria che il libro trasmette, per così dire, di proposito, si aggiunge la memoria di cui trasuda in quanto cosa fisica, il profumo della storia di cui è impregnato.

Si ritiene normalmente che la bibliofilia sia una passione costosa, e certamente se uno di noi volesse possedere una copia della prima Bibbia a 42 linee stampata da Gutenberg dovrebbe disporre almeno di sette miliardi. Dico almeno, perché a tale somma è stata venduta due anni fa una delle ultime copie in circolazione (le altre sono in biblioteche pubbliche, custodite come tesori), e quindi chi oggi volesse cederla chiederebbe forse il doppio. Ma si può sviluppare un amore per il collezionismo anche se non si è ricchi.

Forse non tutti sanno che alcune edizioni del Cinquecento si possono ancora trovare per poco meno o poco più di cinquantamila lire, che si raggranellano evitando due pasti a un ristorante o rinunciando a due stecche di sigarette. Non sempre è l’antichità che costa, ci sono edizioni amatoriali stampate vent’anni fa che valgono un patrimonio, ma per il prezzo di un paio di Timberland si può provare il piacere di avere nei propri scaffali un bel volume in-folio, toccarne la rilegatura in pergamena, sentire la consistenza delle carte, persino seguire il decorso del tempo e degli agenti esterni attraverso le macchie, le gore d’umidità, il lavorio dei vermi che talora scavano lungo centinaia di pagine percorsi di grande bellezza, così come possono essere belli i cristalli di neve. Anche una copia mutilata può raccontarci una storia spesso drammatica: il nome dell’editore cancellato per sfuggire ai rigori della censura, pagine censurate da lettori o da bibliotecari troppo prudenti, carte arrossate perché l’edizione era stata stampata alla macchia con materiale a buon mercato, segni di una lunga permanenza magari nelle cantine di un monastero, firme, annotazioni, sottolineature che raccontano la storia di vari possessi attraverso due o tre secoli...

Ma senza sognare di libri antichi, si può praticare il collezionismo di libri degli ultimi due secoli, trovandoli sulle bancarelle, nelle fiere dell’usato, dando la caccia alle prime edizioni, alle copie intonse. Qui il gioco è alla portata di moltissime borse, e il piacere non consiste solo nell’entusiasmo della trouvaille, ma nella ricerca, nell’andare a naso, nel frugare, nell’inerpicarsi su scalette cagionevoli per scoprire cosa tiene il rigattiere su quell’ultimo scaffale che da anni non spolvera.

Il collezionismo, anche minore, anche di “modernariato”, è spesso un atto di pietà, vorrei dire di sollecitudine ecologica, perché non abbiamo soltanto da salvare le balene, la foca monaca, l’orso dell’Abruzzo, ma anche i libri.

3. Da che cosa dobbiamo salvare i libri? Quelli antichi, dall’incuria, dalla sepoltura in luoghi umidi e impervi, dal vento e dalla pioggia che battono le bancarelle. Ma quelli più recenti, anche da un male maligno che si annida nelle loro cellule.

I libri invecchiano. Alcuni invecchiano bene, altri meno. Dipende dalle condizioni in cui sono stati conservati, certo, ma anche dal materiale con cui sono stati prodotti. In ogni caso sappiamo che verso la metà del secolo scorso si è verificato un fenomeno tragico. Non si sono più prodotti libri con la carta di stracci, e si è iniziato a fare la carta col legno. Come potete controllare in ogni biblioteca, la carta di stracci sopravvive ai secoli. Ci sono libri quattrocenteschi che sembrano usciti oggi dal tipografo, la carta è ancora bianca, fresca, crocchiante sotto le dita. Ma a partire dal secondo Ottocento la vita media di un libro non potrà superare, si dice, i settanta anni. Di alcuni libri che hanno ormai più di cento anni, nonostante la precoce ingiallitura, si può dire che erano stati prodotti con carta di pregio, e robusta. Ma le edizioni scientifiche o i romanzi degli anni Cinquanta, specie quelli francesi, durano molto meno di settant’anni. Già oggi si sbriciolano, come ostie, solo a riprenderli in mano. Abbiamo la certezza che un tascabile prodotto oggi avrà venti o trent’anni di vita, e basta che andiamo a ricercare nelle nostre librerie i tascabili prodotti dieci anni fa per capire come siano già sull’orlo della senescenza precoce.

Il dramma è terribile: prodotti come testimonianza, raccolta di memoria, sul modello dei manoscritti o delle costruzioni architettoniche che dovevano sfidare i secoli, i libri non riusciranno più ad assolvere il loro compito. Ciascun autore che non lavorasse solo per denaro ma per amore della propria opera sapeva di affidare al libro un messaggio che sarebbe durato nei secoli. Ora sa che il suo libro potrà sopravvivergli solo di poco. Naturalmente il messaggio è affidato alle ristampe, ma le ristampe seguono il gusto dei contemporanei, e non sempre i contemporanei sono i migliori giudici del valore di un’opera. E poi, noi siamo in grado ora di accorgerci che è venuto il momento di rileggere un libro uscito nel Settecento e caduto ingiustamente nell’oblio perché le sue copie sopravvivono nelle biblioteche. Ma cosa accadrebbe di un libro importante, sottovalutato oggi, e che potrebbe essere apprezzato tra un secolo? Tra un secolo non ne sussisterà più nemmeno una copia.

Abbiamo visto che la politica delle ristampe, se affidata al mercato non dà garanzie. Ma peggio sarebbe se una commissione di saggi dovesse decidere quali libri salvare ristampandoli e quali condannare alla definitiva scomparsa. Quando si dice che i contemporanei spesso sbagliano nel giudicare il valore di un libro si mette nel conto anche l’errore dei saggi, e cioè della critica. Se avessimo dato ascolto a Saverio Bettinelli, nel Settecento si sarebbe mandato Dante al macero.

Per i libri futuri sono già in corso avvedute politiche per esempio da parte di molte case editrici universitarie americane, per la produzione di opere in acid free paper, e cioè, detto alla buona, in carta speciale che resiste più a lungo alla dissoluzione. Ma a parte il fatto che questo accadrà per opere scientifiche ma non per l’opera del giovane poeta, che cosa fare per i milioni di libri già prodotti dalla fine del secolo scorso sino a ieri?

Esistono dei mezzi chimici per proteggere i libri delle biblioteche, pagina per pagina. Sono possibili, ma costosissimi. Biblioteche con milioni di volumi (e sono quelle che contano) non potranno operare su tutti i libri. Anche qui sarà fatta una scelta. Chi sceglierà? Esiste naturalmente la possibilità di microfilmare tutto, ma tutti noi sappiamo che al microfilm possono accedere solo ricercatori motivati, e con buoni occhi. Non ci sarà più possibilità di frugare tra vecchi scaffali, affascinati da scoperte casuali. Col microfilm si va a cercare ciò di cui si conosce già almeno l’esistenza. Coi moderni mezzi elettronici è possibile registrare via scanner, immagazzinare nella memoria del computer centrale, e stampare le pagine che ci servono. Ottimo per la consultazione di annate di giornali (considerate che la carta da giornale deperisce in dieci anni circa), ma non certo per farsi stampare un romanzo dimenticato di ottocento pagine. In ogni caso queste possibilità valgono per gli studiosi, non per il lettore curioso. Per quanto se ne sappia, oggi non c’è mezzo per salvare in modo indolore tutti i libri moderni raccolti nelle biblioteche pubbliche, e quelli delle biblioteche private sono inesorabilmente condannati: entro un secolo non ci saranno più.

Eppure l’amore del collezionista, difendendo un vecchio libretto dalla polvere, dalla luce, dal calore, dall’umidità, dai tarli, dallo smog, dallo sfasciamento casuale, potrebbe prolungare anche la vita di una edizione da buon prezzo degli anni Venti. Almeno sino a che qualcuno la riscoprisse, rivalutasse l’opera, e desse inizio a un processo di ristampa. Vedete dunque come anche un collezionismo modesto e non miliardario può contribuire alla conservazione di un immenso patrimonio di memoria vegetale. Prendete esempio dai collezionisti di fumetti che salvano in custodie di plastica vecchi albi stampati su cartaccia, costituendo un archivio di una letteratura spesso minore, sovente anche pessima, ma che deve rimanere almeno come documento di costume. Ed è dovuto al collezionismo se si sono riesumate le tavole originali di molti grandi artisti del fumetto (ormai in vendita a prezzi astronomici – una delle prime tavole di Flash Gordon di Raymond vale almeno cinquantamila dollari) tavole che altrimenti, forse, le redazioni avrebbero mandato al macero o lasciato ammuffire nelle cantine.

I libri non muoiono solo per conto proprio. Talora vengono distrutti. Nei primi decenni del nostro secolo si è assistito al rogo dei libri “degenerati” fatto dai nazisti a Norimberga. Era un gesto simbolico, certo, perché neppure i nazisti avrebbero voluto distruggere tutto il patrimonio librario del loro paese. Ma sono simboli che contano. Temete chi distrugge, censura, proibisce i libri: vuole distruggere o censurare la nostra memoria. Quando si accorge che i libri sono troppi, e imprendibili, e la memoria vegetale rimane minacciosa, allora distrugge memorie animali, cervelli, corpi umani. Si incomincia sempre dal libro, poi si aprono le camere a gas.

Una annotazione per lo meno curiosa: il gas Zyklon che serviva per massacrare gli ebrei nei campi di sterminio è ancora in commercio: viene consigliato per camere di disinfestazione di mobili e libri minacciati dai tarli. Probabilmente funziona benissimo ed è giusto che sia usato per scopi così pacifici; però quando mi è stato proposto, il nome mi ha fatto paura, e ho rinunciato. D’altra parte mi hanno consigliato un altro modo per tener lontani i tarli senza ucciderli. Una grossa sveglia, di quelle che avevano in cucina le nostre nonne e fanno un toc-toc infernale. Di notte, quando i tarli sono pronti a uscire allo scoperto, la sveglia fa vibrare la libreria su cui è posata e i tarli, spaventati, non escono. Non è che la soluzione sia pietosamente ecologica: non potendo più uscire, i tarli muoiono di fame. Occorrerà pur sempre scegliere, o loro o noi.

Ci sono altri nemici dei libri. Coloro che li nascondono. Ci sono molti modi per nascondere i libri. Siccome al postutto costano, non facendo una rete sufficiente di biblioteche circolanti, si nascondono i libri a coloro che non potrebbero comperarli. Rendendo difficili gli accessi alle biblioteche, in modo che per chiedere due libri occorra riempire dieci schede e attendere un’ora, si sottraggono i libri ai loro normali consumatori. Si nascondono i libri abbandonando le nostre grandi biblioteche storiche alla degradazione. Occorre combattere coloro che nascondono i libri, perché sono tanto pericolosi quanto i tarli. Non useremo il Zyklon bensì le armi politiche e civili più adeguate. Ma dobbiamo sapere che sono nemici della nostra memoria collettiva.

4. Si dice che i nuovi mezzi d’informazione uccideranno il libro. Si è detto che il libro avrebbe ucciso mezzi di informazione più antichi. Nel Fedro di Platone si racconta come avrebbe reagito il faraone Thamus quando il dio Theuth, o Ermete, gli aveva presentato la sua nuovissima invenzione, la scrittura:

Ma quando si venne alla scrittura: “Questa scienza o re, disse Theuth, renderà gli egiziani più sapienti e più atti a ricordare, perché questo ritrovato è un rimedio giovevole e alla memoria e alla dottrina”. E il re disse: “O artificiosissimo Theuth, altri è abile a generare le arti, altri a giudicare qual vantaggio o qual danno può derivarne a chi sarà per servirsene. E ora tu, come padre delle lettere, nella tua benevolenza per loro hai affermato il contrario di ciò che possono. Esse infatti, col dispensare dall’esercizio della memoria, produrranno l’oblio nell’animo di coloro che le abbiano apprese, come quelli che, confidando nella scrittura, ricorderanno per via di questi segni esteriori, non da sé, per un loro sforzo interiore...”

Ora noi sappiamo che Thamus aveva torto. Non solo la scrittura non ha eliminato la memoria, ma l’ha potenziata. È nata una scrittura della memoria ed è nata la memoria delle scritture. La nostra memoria si fortifica ricordando i libri e facendoli parlare tra loro. Un libro non è una macchina per bloccare, registrandoli, i pensieri. È una macchina per produrre interpretazioni e quindi per produrre nuovi pensieri.

C’è un’altra pagina, scritta nel secolo scorso, ma che ricorda quali possano essere stati i sentimenti di chi vedeva nascere il nuovo strumento, il libro a stampa, nel secondo Quattrocento. Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, racconta di una scena che si svolge tra l’arcidiacono Frollo e il medico del re di Francia.

Frollo

aprendo la finestra della cella mostrò col dito l’immensa chiesa di Notre-Dame, che stagliandosi nel cielo stellato con la sagoma nera delle sue due torri (...) sembrava una enorme sfinge a due teste seduta in mezzo alla città. L’arcidiacono considerò per qualche istante il gigantesco edificio in silenzio, poi stendendo con un sospiro la sua mano destra verso il libro a stampa aperto sul suo tavolo e la mano sinistra verso Notre-Dame, facendo scorrere uno sguardo triste dal libro alla chiesa: “Aimè, disse, questo ucciderà quello”.

Dopo questa scena Hugo, con la sua retorica consueta – quella che aveva fatto dire a Gide che Hugo era il massimo scrittore francese, purtroppo (hélas) – dedica alcune pagine al glorioso passato dell’architettura sacra, a quel tempio di Salomone sulle cui cerchia concentriche i sacerdoti potevano leggere il verbo tradotto per gli occhi, ricordando come durante i primi seimila anni del mondo, dalla più immemoriale delle pagode dell’Indostan sino alla cattedrale di Colonia, l’architettura era stata la grande scrittura del genere umano. Ora, nel momento in cui Frollo parla, il modo d’espressione dell’umanità si sta trasformando radicalmente e si ha il definitivo cambiamento di pelle di quel serpente che, dai giorni di Adamo, rappresenta l’intelligenza.

In forma stampata il pensiero diviene più imperituro che mai; si fa volatile, imprendibile, indistruttibile. Si mescola all’aria. Al tempo dell’architettura, il pensiero si faceva montagna e s’impadroniva possentemente di un secolo e di un luogo. Ora si fa stormo d’uccelli, si sparge ai quattro venti, e occupa a un tempo tutti i punti dell’aria e dello spazio.

L’architettura, dice Hugo (che aveva davanti agli occhi molta pessima architettura del primo Ottocento) è destinata al declino, si dissecca, si atrofizza, si denuda, il vetro rimpiazza la vetrata. E invece la stampa s’ingrandisce, compone l’edificio più colossale dei secoli moderni, un formicaio d’intelligenze procede a erigere una costruzione che si amplifica in spirali senza fine: “È la seconda torre di Babele del genere umano.”

Nel suo orgoglio luciferino Hugo non prevedeva che questa torre avrebbe potuto un giorno crollare. Intravede bene il ruolo che la stampa avrà nel mondo moderno, sbaglia a rappresentarne il duello mortale con l’architettura. Certamente, l’architettura perde la funzione enciclopedica che aveva prima, non trasmette più nozioni, diventa simbolo, funzione, macchina, ma non per questo diventa meno bella e meno fondamentale per la cultura umana.

Credo che coloro che piangono sul declino dell’alfabetizzazione di fronte ai nuovi mezzi visivi e all’informazione elettronica risulteranno un giorno patetici come Hugo ci appare oggi in gran parte. Certamente la stampa perderà alcune funzioni che ha avuto in passato. Già i giornali stanno diventando qualche cosa di diverso dalle vecchie gazzette, perché quello che le gazzette facevano, dare informazioni fresche, ora viene fatto con anticipo di dodici ore dalla televisione. Forse non dovremo più stampare orari ferroviari, così difficili da consultare, se potremo acquistare all’edicola piccoli aggeggi elettronici da usare per una stagione, dove scrivendo Milano-Battipaglia vedremo con un solo colpo d’occhio tutte le possibilità che abbiamo di compiere quel tragitto.

Ma nessuno può usare un computer se non ha una stampante che trasformi i dati immessi o elaborati in pagina scritta. Sullo schermo del computer possiamo leggere solo dati brevi e per un tempo breve. Se è breve, e se abbiamo il modem adatto, possiamo anche ricevere e leggere una lettera d’amore, perché non conta il mezzo ma le cose che dice e lo stato d’animo in cui le leggiamo. Ma se la lettera d’amore è lunga dovremo stamparla, per potercela rileggere in un angolo segreto.

Sono alcune migliaia di anni che la specie si è adattata alla lettura. L’occhio legge e tutto il corpo entra in azione. Leggere significa anche trovare una posizione giusta, è un atto che interessa il collo, la colonna vertebrale, i glutei. E la forma del libro, studiata per secoli e assestatasi sui formati ergonomicamente più adatti, è la forma che deve avere quest’oggetto per essere afferrato dalla mano e portato alla giusta distanza dall’occhio. Leggere ha a che fare con la nostra fisiologia.

Permettetemi di terminare con un’ultima pagina da un altro grande libro: è la fine del capitolo quarto dell’Ulysses di Joyce. A qualcuno la pagina potrà parere volgare. In tal caso consulti il proprio psicoanalista, perché la pagina è invece sublime.

Leopold Bloom, di prima mattina, va al gabinetto e defeca. Mentre defeca, legge:

Lesse tranquillamente, trattenendosi, la prima colonna, e cedendo ma resistendo, attaccò la seconda. A mezza strada, la sua ultima resistenza cedendo, permise ai suoi intestini di liberarsi comodamente mentre leggeva ancora pazientemente, quella leggera stitichezza di ieri sparita del tutto. Spero non sia troppo grosso fa rispuntar le emorroidi. No, giusto giusto. Così. Ah! Stitico, una pillola di cascara sagrada. La vita potrebbe essere così. Non lo aveva commosso o toccato ma era una cosa svelta e pulita. Ora stampano qualsiasi cosa. Stagione morta. Continuava a leggere, seduto calmo sul suo odore ascendente. Pulita certamente. Matcham pensa spesso al colpo da maestro con il quale conquistò la piccola strega ridente che ora. Comincia e finisce moralmente. La mano nella mano. In gamba. Ripercorse con lo sguardo quel che aveva letto e, mentre sentiva la sua acqua scorrere tranquillamente, invidiava senza cattiveria quel bravo Mr Beaufoy che l’aveva scritta e aveva avuto in pagamento tre sterline tredici scellini e sei pence.

Il ritmo della lettura segue quello del corpo, il ritmo del corpo segue quello della lettura. Non si legge solo con il cervello, si legge con il nostro corpo tutto intero, e per questo su un libro si piange, si ride, e leggendo un libro del terrore ci si rizzano i capelli sul capo. Perché, anche quando sembra parlare solo di idee, un libro ci parla sempre di altre emozioni, e di esperienze di altri corpi. E, se non è soltanto un libro pornografico, quando parla di corpi suggerisce idee. Né siamo insensibili alle sensazioni che i polpastrelli provano nel toccarlo e certi sfortunati esperimenti fatti con rilegature o addirittura fogli di plastica ci dicono quanto la lettura sia anche una esperienza tattile.

Se l’esperienza del libro ancora v’intimidisce, incominciate, senza timori, a leggere libri al gabinetto. Scoprirete che anche voi avete un’anima.

* Conferenza tenuta a Milano il 23 novembre 1991 nella Sala Teresiana della Biblioteca Nazionale Braidense. Poi pubblicata come volumetto in edizione numerata dalle Edizioni Rovello, 1992.

Riflessioni sulla bibliofilia *

Un conto è parlare di bibliofilia a bibliofili, e un conto parlarne a persone, per così dire, normali. Il vero cruccio di un collezionista di libri di pregio è che se collezionasse quadri del Rinascimento o porcellane cinesi li terrebbe nel soggiorno e tutti i visitatori ne rimarrebbero estasiati. Invece il bibliofilo non sa mai a chi far vedere i propri tesori: i non bibliofili vi gettano un’occhiata distratta e non capiscono perché un libercolo secentesco in dodicesimo, dai fogli arrossati, possa rappresentare l’orgoglio di chi è l’unico ad averne acquisito l’ultima copia ancora in circolazione; e spesso gli altri bibliofili manifestano sindromi d’invidia (anch’essi vorrebbero avere quel libro e si irritano) o di disprezzo (essi pensano di avere nella loro biblioteca cose molto più rare, oppure collezionano un soggetto diverso dal vostro – vale a dire che un collezionista di libri d’architettura rinascimentali può restare insensibile di fronte alla più preziosa raccolta esistente di pamphlets rosacroce del diciassettesimo secolo).

La maggiore ragione di disinteresse da parte delle persone normali è che la bibliofilia viene ritenuta una passione costosa, che può essere coltivata solo da persone molto ricche. Ora è vero che vi sono libri antichi che costano centinaia di milioni, e che l’ultima copia circolante della prima edizione incunabolo della Divina Commedia è stata battuta all’asta per un miliardo e mezzo, ma l’amore per il libro può manifestarsi anche attraverso raccolte di prime edizioni moderne, che spesso si scovano a prezzi accessibilissimi sulle bancarelle: andando per bancarelle un mio studente collezionava solo guide turistiche di ogni epoca e paese, e sempre andando per bancarelle un giovane di modesta condizione economica può incontrare delle piccole edizioni del Cinquecento che costano ancora come una cena in pizzeria più cinema. L’amore per il libro raro può iniziare anche a questi livelli così come molti di noi da ragazzi facevan la collezione di francobolli, non si potevano certo permettere dei pezzi rari, ma fantasticavano di terre lontane guardando nel loro albo francobolli del Madagascar o delle Isole Figi acquistati – come si usava a quei tempi – dal cartolaio, in bustine da dieci o trenta pezzi a sorpresa.

Narra la leggenda che Gerberto d’Aurillac, ossia papa Silvestro II, il papa dell’anno mille, divorato dal suo amore per i libri abbia un giorno acquistato un introvabile codice della Farsaglia di Lucano, dando in cambio una sfera armillare. Gerberto non sapeva che Lucano non aveva potuto terminare il suo poema, perché nel frattempo Nerone lo aveva invitato a tagliarsi le vene. Cosicché ricevette il prezioso manoscritto ma lo trovò incompleto. Ogni buon amatore di libri, dopo aver collazionato il volume appena acquistato, se lo trova incompleto lo restituisce al libraio. Gerberto, per non privarsi almeno di metà del suo tesoro, decise di inviare al suo corrispondente non la sfera intera, ma solo mezza.

Trovo questa storia mirabile, perché ci dice che cosa sia la bibliofilia. Gerberto voleva certamente leggere il poema di Lucano – e questo ci dice molto sull’amore per la cultura classica in quei secoli che ci ostiniamo a ritenere oscuri – ma se fosse stato solo così avrebbe richiesto il manoscritto in prestito. No, lui voleva possedere quei fogli, toccarli, forse annusarli ogni giorno, e sentirli cosa propria. E un biliofilo che, dopo aver toccato e annusato, trova che il libro è monco, che ne manca anche solo il colophon o un foglio di errata, prova la sensazione di un coitus interruptus. Che il libraio gli rimandi i soldi (o accetti solo mezza sfera armillare), non guarisce il bibliofilo dal suo dolore. Poteva avere del libro amato la prima edizione, e con margini ampi e senza arrossature né fori di tarli, e il suo sogno sfuma: si ritrova un libro mutilato, e nessuna indulgenza al politically correct potrà convincerlo ad amare quella sventurata creatura.

Cosa è la bibliofilia?

La bibliofilia è certamente l’amore per i libri, ma non necessariamente per il loro contenuto. Certo ci sono bibliofili che collezionano a soggetto e persino leggono i libri che accumulano. Ma per leggere tanti libri basta essere topo di biblioteca. No, il bibliofilo, anche se attento al contenuto, vuole l’oggetto, e che possibilmente sia il primo uscito dai torchi dello stampatore. A tal segno che ci sono bibliofili, che io non approvo ma capisco, i quali – avuto un libro intonso – non ne tagliano le pagine per non violare l’oggetto che hanno conquistato. Per essi tagliare le pagine al libro raro sarebbe come, per un collezionista di orologi, spaccare la cassa per vedere il meccanismo.

L’amatore della lettura, o lo studioso, ama sottolineare i libri contemporanei, anche perché a distanza di anni un certo tipo di sottolineatura, un segno a margine, una variazione tra pennarello nero e pennarello rosso, gli ricorda una esperienza di lettura. Io possiedo una Philosophie au Moyen Age di Gilson degli anni Cinquanta, che mi ha accompagnato dai giorni della tesi di laurea a oggi. La carta di quel periodo era infame, ormai il libro va in briciole appena lo si tocca o si tenta di voltarne le pagine. Se esso fosse per me soltanto strumento di lavoro, non avrei che a comperare una nuova edizione, che si trova a buon mercato. Potrei persino impiegare due giorni a risottolineare tutte le parti annotate, riproducendo colori e stile delle mie note, che cambiavano durante gli anni e le rilettura. Ma non posso rassegnarmi a perdere quella copia, che con la sua fragile vetustà mi ricorda i miei anni di formazione, e i seguenti, e che è dunque parte dei miei ricordi.

Si debbono sottolineare, anche solo a margine, i libri rari? In teoria una copia perfetta, se non intonsa, deve essere a grandi margini, bianca, con le pagine che crocchiano sotto le dita. Ma una volta ho acquistato un Paracelso, di scarso valore dal punto di vista antiquario, perché si trattava di un solo volume della 1a edizione dell’opera omnia compilata da Huser, 1589-1591. Se l’opera non è completa, che gusto c’è? Ma, rilegato in mezza pelle coeva, con nervi al dorso, uniforme media arrossatura, firma manoscritta sul frontespizio, tutto il volume è intessuto di sottolineature in rosso e nero e di note marginali coeve, con titoli maiuscoletti in rosso, e silloge latina del testo tedesco. L’oggetto è bellissimo a vedersi, le note si confondono col testo stampato, e spesso lo sfoglio col piacere di rivevere l’avventura intellettuale di chi lo ha segnato con la propria testimonianza manuale.

Segno dunque che la bibliofilia è amore dell’oggetto libro ma anche della sua storia, come testimoniano i prezzi dei cataloghi che prediligono copie, ancorché non perfette, che rechino segni di possesso. Chiunque desidera una copia del più bel libro mai stampato, la Hypnerotomachia Poliphili, e la desidera perfetta, senza gore e senza tarli, a larghi margini e, se mai fosse possibile, in fogli stesi non ancora rilegati. Ma che faremmo noi e gli antiquari se circolasse una copia con fitte note a margine di James Joyce, e in gaelico?

Non sono agitato da tale hybris forsennata da bruttare a biro la mia copia dell’Hypnerotomachia, fidando nell’accrescersi del suo valore nei secoli a venire, ma ammetto che, se sul libro raro debbo studiare, ardisco fare segni a matita in margine, abbastanza leggeri che un giorno si possano cancellare con una gomma, e questo mi aiuta a sentire il libro come cosa mia. Sono pertanto un bibliofilo, e non un bibliomane.

Bibliomania

Qual è la differenza tra bibliofilia e bibliomania? La letteratura in merito è enorme, e per strane ragioni, se ne hanno scritto cose egregie i francesi nel secolo scorso, in questo secolo la bibliografia dei “Books on Books” è caratteristica anglosassone. Visto che in questa mia conversazione non intendo fare lavoro erudito, mi limiterò a citare, per la bibliomania, A Gentle Madness di Nicholas A. Basbanes (New York, Holt, 1995) e per un pacato arguto discorso sulla bibliofilia il recente Collezionare libri di Hans Tuzzi (Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2000).

Per stabilire una linea di confine tra bibliofilia e bibliomania farò un esempio. Il libro più raro del mondo, nel senso che probabilmente non ne esistono più copie in libera circolazione, sul mercato, è anche il primo, ossia la Bibbia di Gutenberg. L’ultima copia circolante è stata venduta nel 1987 ad acquirenti giapponesi per qualcosa come sette miliardi – al cambio di allora. Se ne venisse fuori una prossima copia, non varrebbe sette miliardi, bensì settanta, o mille.

Dunque ogni collezionista ha un sogno ricorrente. Trovare una vecchietta novantenne che ha in casa un libro che cerca di vendere, senza sapere di che si tratti, contare le linee, vedere che sono 42 e scoprire che è una Bibbia di Gutenberg, calcolare che alla poveretta restano solo pochi anni di vita e ha bisogno di cure mediche, decidere di sottrarla all’avidità di un libraio disonesto che probabilmente le darebbe qualche milione (lei felicissima), offrirle duecento milioni con cui essa si rimpannuccerebbe estasiata sino alla morte, e mettersi in casa un tesoro.

Dopo di che, cosa accadrebbe? Un bibliomane, terrebbe la copia segretamente per sé, e guai a mostrarla perché solo a parlarne si mobiliterebbero i ladri di mezzo mondo, e dunque dovrebbe sfogliarsela da solo alla sera, come Paperone che fa il bagno nei suoi dollari. Un bibliofilo, invece, vorrebbe che tutti vedessero questa meraviglia, e sapessero che è la sua. Allora scriverebbe al sindaco della sua città, gli chiederebbe di ospitarla nel salone principale della biblioteca comunale, pagando con fondi pubblici tutte le enormi spese di assicurazione e sorveglianza, e concedendogli il privilegio di andarla a vedere, insieme ai suoi amici bibliofili, ogni volta che desidera, e senza fare la coda. Ma che piacere sarebbe quello di possedere l’oggetto più raro del mondo senza potersi alzare alle tre di notte e andarlo a sfogliare? Ecco il dramma: avere la Bibbia di Gutenberg sarebbe come non averla. E allora perché sognare quella utopica vecchietta? Ebbene, il bibliofilo la sogna sempre, come se fosse un bibliomane.

Rubar libri

Il bibliomane ruba libri. Potrebbe rubarli anche il bibliofilo, spinto dall’indigenza, ma di solito il bibliofilo ritiene che, se per avere un libro non ha compiuto un sacrificio, non c’è piacere della conquista (la differenza è tra avere una donna perché l’hai affascinata e averla stuprandola). D’altra parte si racconta di un grande antiquario che avrebbe detto: “Se non riesci a vendere un libro, sul prossimo catalogo raddoppiane il prezzo”.

Il bibliomane ruba libri con mossa disinvolta mentre parla col libraio: gli addita una edizione rara sullo scaffale alto e ne fa scomparire una altrettanto rara sotto la giacca; oppure ruba parti di libri andando per biblioteche dove taglia con una lametta da barba le pagine più appetibili. Io sono fiero di avere una Cronaca di Norimberga con la agognata tavola tredici dei mostri, mentre in una biblioteca di Cambridge ne ho vista una copia senza quella tavola, tagliata via da un bibliomane assatanato.

Ci sono persone di buona cultura, soddisfacente condizione economica, fama pubblica e reputazione quasi immacolata, che rubano libri. Li rubano per incontenibile passione, e gusto del brivido, come i ladri gentiluomini che rubano solo gioielli famosi. Il ladro bibliomane si vergognerebbe di rubare una pera dal banco del fruttivendolo, ma giudica eccitante e cavalleresco rubare libri, come se la dignità dell’oggetto ne scusasse il furto. Se potesse, ruberebbe tanti libri da non avere neppure più il tempo di guardarseli. È roso dalla frenesia del possesso.

Il più grande ladro di libri che la storia della bibliomania ricordi è un signore che, nomen omen, si chiamava Guglielmo Libri. Era un insigne matematico italiano del secolo scorso divenuto eminente cittadino francese (Legion d’Onore, Collège de France, Membro dell’Accademia, Ispettore Generale delle Biblioteche). È certo che Libri si rese benemerito nel visitare tutte le più abbandonate biblioteche di Francia, ritrovando e classificando opere rarissime che giacevano abbandonate: ma forse si era comportato come quei grandi archeologi che spendono la vita a riportare alla luce tesori perduti dei paesi del terzo mondo, e giudicano onesto compenso alla propria fatica portarsi a casa una parte di quel che trovano. Libri deve aver esagerato: fatto sta che ne era seguito un pubblico scandalo, e ci aveva perduto tutte le sue cariche e la reputazione, finendo la sua vita in esilio, inseguito da mandati di cattura. È vero che, per l’innocenza di un uomo così celebre e stimato, si erano battuti alcuni dei più bei nomi della cultura francese e italiana, come Guizot, Merimée, Lacroix, Guerrazzi, Mamiani e Gioberti, tutti pronti a giurare che Libri era stato vittima di una persecuzione politica. Non so proprio quanto Libri fosse veramente colpevole, ma sta di fatto che aveva accumulato quarantamila testi antichi, tra libri e manoscritti rarissimi, e certo la quantità induce al sospetto.

Libri era certamente un bibliofilo: ha pensato che quei libri stavano meglio a casa sua, coccolati e amati, che in qualche biblioteca di provincia dove nessuno li avrebbe mai cercati. Ma per averne amati troppi non avrà certo potuto amarli uno per uno. Seppelliti all’origine, ritornavano seppelliti alla meta. Per questo era anche un bibliomane. Inoltre seppellire i libri coincide con la biblioclastia.

Biblioclastia

Ci sono tre forme di biblioclastia, la biblioclastia fondamentalista, quella per incuria e quella per interesse. Il biblioclasta fondamentalista non odia i libri come oggetto, ne teme il contenuto e non vuole che altri li legga. Oltre che un criminale è anche un folle, per il fanatismo che lo anima, ma la storia registra solo casi eccezionali di biblioclastia, come i roghi dei nazisti o l’incendio della biblioteca di Alessandria che (secondo una leggenda che ormai è considerata falsa) fu messa fuoco da un califfo seguendo il principio che o tutti quei libri dicevano la stessa cosa del Corano e allora erano inutili, o dicevano cose diverse e allora erano dannosi.

La biblioclastia per incuria è quella di tante biblioteche italiane, così povere e così poco curate, che non di rado diventano luoghi di distruzione del libro; perché c’è un modo di distruggere i libri lasciandoli deperire o facendoli scomparire in penetrali inaccessibili.

Il biblioclasta per interesse distrugge i libri perché vendendoli a pezzi ne ricava molto più che vendendoli interi.

Leggo il catalogo recente di una casa d’aste, e trovo: “Sebastian Münster, Civitella... Xilografia, l’intero foglio mm. 325 x 221. Buoni margini. Al verso battaglia. Testo in tedesco al r. e al v. Non acquarellata. Veduta a volo d’uccello tratta da una delle prime ed. in tedesco della Cosmographia, Basilea ca. 1570.” Partenza, da 500-600 mila lire.

Se si trova l’amatore, il pezzo sarà anche battuto a una cifra superiore, chissà, le xilografie del Münster sono gradevoli, e anche le pagine sono tipograficamente interessanti. I margini dichiarati sono buoni (una copia più che accettabile può avere trentuno per venti e mezzo, e il collezionista ne è soddisfatto). La xilografia non è colorata, ma pazienza. L’edizione non è davvero tra le “prime”, perché si parte dal 1541, e tra quella data e il 1570 ce ne sono almeno due in tedesco, tre in italiano, una francese e una boema e non è che le mie informazioni siano complete. Comunque se la carta è fresca, marginosa quale è, non mancherà chi sia contento di incorniciarla.

C’era una volta Mister Salomon, un vecchio libraio a New York sull’angolo della 3d Avenue con la 9th Street (ora è morto, e la bottega viene tenuta in funzione dalla figlia, ma secondo me continua a campare sul fondo accumulato dal padre), da cui ho comperato per somme che andavano da uno a due dollari delle pagine bellissime di libri antichi, ottimi per arredare la casa di campagna, e per poche decine di dollari ho riempito due pareti con immagini di cavalieri, frati e monache del Bonanni, colorati au pochoir. Mi diceva: “io faccio del vandalismo democratico, a chi non potrà mai permettersi di avere la Cronaca di Norimberga io per non molti dollari gliene dò una pagina. Ma sia chiaro: io acquisto solo libri ormai condannati al macero.”

Sarà. Ma quanto conviene sfasciare un libro completo? Facciamo una botta di conti. Che cosa possa valere un Münster 1570 non so. So che le copie di altre date apparse recentemente su cataloghi danno indicazioni del genere: Kistner 1554, scrofa d’epoca con fermagli, complessivamente fresca e marginosa, venticinque milioni; Hünerdorff 1559, trentaquattro milioni; Martayan Lan 1559, sessanta milioni; Reiss, 1564, composita, ventotto milioni. Un’altra Intersigne, P.a.R. (il che vuol dire molto). All’ingrosso, la copia scomparsa da cui proviene la pagina all’asta, considerando gli ampi margini, la si sarebbe potuta valutare sui trenta milioni.

Ora la Cosmographia conta più di un migliaio di pagine e ha una quarantina di vedute di città a doppia pagina, di cui di solito tre più volte ripiegate, in genere 14 carte geografiche a doppia pagina, più una novantina di legni nel testo. Sulla mia Basel 1554 non sono riuscito a identificare un’immagine di Civitella con una battaglia al verso, ma non c’è nulla di strano, perché il libro si arricchiva di nuove parti del mondo a mano a mano che si andava avanti. In ogni caso deve trattarsi di legno nel testo, e non di una delle mappe doppie o triple, altrimenti non si parlerebbe di singolo foglio.

Dunque, se si sfasciasse oggi una Cosmographia 1570, calcolando che almeno quattrocento carte contengono belle xilografie o in recto o in verso, a seicentomila a carta si potrebbero realizzare duecentoquaranta milioni. Ma per le sessantaquattro doppie pagine (e non considero le tavole più volte ripiegate), azzardando in proporzione almeno due milioni a carta o veduta, se ne farebbero altri centoventotto. In tutto, male che vada, intorno ai trecento milioni. Trecento incassati per trenta investiti è un bel rendimento.

Naturalmente la copia completa che apparirà successivamente sul mercato, diventata più rara, costerà il doppio, e il doppio costeranno le tavole sciolte. Così in un colpo solo si distruggono opere di incommensurabile valore, si costringono i collezionisti a sacrifici insostenibili, e si accresce il prezzo delle tavole singole. So di non raccontare storie ignote ai collezionisti. È la ragione per cui un Ortelius completo, tanto per dire, costa quello che costa: perché conservare il libro, se conviene di più smembrarlo?

Non credo che ci siano mezzi per arrestare questa forma progressiva di vandalismo assai poco democratico. Qualcuno aveva proposto tempo fa di fare una sorta di resistenza passiva: nessun collezionista comperi più carte sciolte. Ma il mercato della carte sciolte è infinitamente più vasto di quello dei collezionisti, tocca persino il pubblico che fa acquistare dall’arredatore volumi a metraggio. Una legge che prescrivesse di provare, per ogni carta sciolta, che viene da una copia irrimediabilmente incompleta? Ma chi può controllare da dove viene una carta isolata che entra nel mercato? E che cosa significa “irrimediabilmente incompleta” per certe opere? Se ben ricordo, la Pierpont Morgan Library ha due bibbie di Gutenberg, e una è incompleta, ma se la tiene ben cara, e chi oggi sfasciasse una 42 linee solo perché è incompleta sarebbe come qualcuno che abbattesse il Partenone per poi venderne le pietre al minuto.

Non vedo quindi soluzioni, né mi sento di criticare coloro che, essendo pervenuti in possesso di una pagina della Cosmographia, senza sentirsi colpevoli di averla separata con accetta e coltello da un volume originale, la mettono in vendita.

Non resterebbe che diffondere dei criteri di gusto: colui che incornicia in casa una pagina di volume antico è un cafone, e dimostra perciò stesso la sua incultura. Per sostenere questa campagna sarei pronto a disfarmi delle belle carte colorate che durante gli anni ho appeso alle mie pareti, trovandole ora qua ora là. Non sarebbe impossibile creare uno snobismo di massa per cui chi ha una carta di libro al muro è come se avesse una scimmietta sul lunotto posteriore dell’utilitaria. Ma anche questo criterio snobistico oggi vale per chi ha almeno una grossa cilindrata, non per chi sull’utilitaria incolla anche gli adesivi di una squadra di calcio. E poi, come chiedere ai librai di non vendere le migliaia di carte sciolte che hanno in stock, e su cui campano nell’imminenza delle vacanze natalizie?

Insomma, non c’è soluzione, tranne un appello all’onestà. I libri troppo bene illustrati sono destinati a sparire (tranne che quelli custoditi nelle biblioteche – e anche per quelli c’è sempre il rischio della lametta da barba), o a costare oltre le umane possibilità del collezionista.

È difficile fare a pezzi una cattedrale, o la Cappella Sistina, ma i libri sono minacciati persino da chi li ama tanto (o così poco) da volerli possedere anche all’uno per mille.

Un bene a esaurimento

Il problema è che, indipendentemente dalla biblioclastia, il libro antico è un oggetto destinato sempre più a scomparire dal mercato. Facciamo un esempio. Se voi ereditate a babbo morto un mobile Luigi XV, una tela di scuola ferrarese, un diamante, potete decidere di rivenderli. Così si alimenta il mercato dell’antiquariato. E lo stesso fate se il babbo ha messo insieme una qualche decina di libri del Settecento, il che spiega perché gli arredatori possono acquistare sulle bancarelle Les Aventures de Télémaque nelle loro varie edizioni, così che il bibliofilo accorto sa che, se visitando la casa di un signore di buona condizione economica, vede negli scaffali Les Aventures de Télémaque e qualche trattatello di filosofia del periodo illuminista, il suo ospite è un parvenu che si è fatto scegliere i libri a metro dall’architetto.

Ma se il babbo era un collezionista vero, non avrà acquistato libri a caso, bensì avrà messo insieme una collezione a soggetto, e quando era ancora in vita non avrà voluto che scomparisse, e l’avrà lasciata per testamento a qualche istituzione pubblica. Oppure gli eredi, trovandosi di fronte a una collezione completa, non saranno così sciocchi da svenderla al bancarellaro e la affideranno a Christie’s o a Sotheby’s. Dopo di che la collezione verrà acquistata da una biblioteca americana o da una banca giapponese, e da quei penetrali non uscirà più. Questo spiega perché il prezzo dei libri antichi, specie se fanno collezione, cresce a un ritmo superiore a quello dei mobili o dei gioielli. Verrà un giorno che di gioielli, mobili barocchi, tele rinascimentali, vi sarà ancora mercato, mentre i libri saranno diventati oggetti inalienabili.

La biblioteca

Il bibliofilo raccoglie libri per avere una biblioteca. Sembra ovvio, ma la biblioteca non è una somma di libri, è un organismo vivente con una vita autonoma. Una biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si raccolgono libri: è anche un luogo che li legge per conto nostro. Mi spiego. Credo che sia capitato a tutti coloro che hanno in casa un numero abbastanza alto di libri di vivere per anni con il rimorso di non averne letti alcuni, che per anni ci hanno fissato dagli scaffali come a ricordarci il nostro peccato di omissione. A maggior ragione accade con una biblioteca di libri rari, che talora sono scritti in latino o addirittura in lingue ignote (ricordo che ci sono i bibliofili che collezionano rilegature, e per avere una bella rilegatura possono acquistare un libro in copto). Inoltre un bel libro antico può essere anche noiosissimo. Credo che ogni amatore vorrebbe avere i quattro volumi dell’Oedipus Aegyptiacus di Kircher, le cui illustrazioni sono affascinanti, ma non riuscirebbe a leggere il testo, straziantemente complesso.

Però ogni tanto accade che un giorno prendiamo in mano uno di questi libri trascurati, incominciamo a leggiucchiarlo, e ci accorgiamo che sapevamo già tutto quel che diceva. Questo singolare fenomeno, di cui molti potranno testimoniare, ha solo tre spiegazioni ragionevoli. La prima è che, avendo nel corso degli anni toccato varie volte quel libro, per spostarlo, spolverarlo, anche soltanto per scostarlo onde poterne afferrare un altro, qualcosa del suo sapere si è trasmesso, attraverso i nostri polpastrelli, al nostro cervello, e noi lo abbiamo letto tattilmente, come se fosse in alfabeto Braille. Io sono seguace del CICAP e non credo ai fenomeni paranormali, ma in questo caso sì, anche perché non ritengo che il fenomeno sia paranormale: è normalissimo, certificato dall’esperienza quotidiana.

La seconda spiegazione è che non è vero che quel libro non lo abbiamo letto: ogni volta che lo si spostava o spolverava vi si gettava uno sguardo, si apriva qualche pagina a caso, qualcosa nella grafica, nella consistenza della carta, nei colori, parlava di un’epoca, di un ambiente. E così, poco per volta, di quel libro se ne è assorbita gran parte.

La terza spiegazione è che, mentre gli anni passavano, leggevamo altri libri in cui si parlava anche di quello, così che senza rendercene conto abbiamo appreso che cosa dicesse (sia che si trattasse di un libro celebre, di cui tutti parlavano, sia che fosse un libro banale, dalle idee così comuni che le ritrovavamo continuamente altrove).

In verità credo che siano vere tutte e tre le spiegazioni. Tutti questi elementi messi insieme “quagliano” miracolosamente e concorrono tutti insieme a renderci familiari quelle pagine che, legalmente parlando, non abbiamo mai letto.

Naturalmente il bibliofilo, anche e specie colui che colleziona libri contemporanei, è esposto all’insidia dell’imbecille che ti entra in casa, vede tutti quegli scaffali, e pronuncia: “Quanti libri! Li ha letti tutti?” L’esperienza quotidiana ci dice che questa domanda viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più che soddisfacente. Di fronte a questo oltraggio esistono, a mia scienza, tre risposte standard. La prima blocca il visitatore e interrompe ogni rapporto, ed è: “Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui?” Essa però gratifica l’importuno solleticando il suo senso di superiorità e non vedo perché si debba rendergli questo favore.

La seconda risposta piomba l’importuno in uno stato d’inferiorità, e suona: “Di più, signore, molti di più!”

La terza è una variazione della seconda e la uso quando voglio che il visitatore cada in preda a doloroso stupore. “No,” gli dico, “quelli che ho già letto li tengo all’università, questi sono quelli che debbo leggere entro la settimana prossima”. Visto che la mia biblioteca milanese conta trentamila volumi, l’infelice cerca soltanto di anticipare il momento del commiato, adducendo improvvisi impegni.

Quello che l’infelice non sa è che la biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te.

Un repositorio dove al limite tutto si confonde e genera una vertigine, un cocktail della memoria dotta, ma che importa? Ecco il contenuto virtuale di una biblioteca: Monsieurs les anglais, je me suis couché de bonne heure. Tu quoque, alea! Licht, mehr Licht über alles. Qui si fa l’Italia o si uccide un uomo morto. Soldato che scappa, arrestati sei bello. Fratelli d’Italia, ancora uno sforzo. L’aratro che traccia il solco è buono per un’altra volta. L’Italia è fatta ma non s’arrende. Ben venga maggio, combatteremo all’ombra. Tre donne intorno al cor e senza vento. L’albero a cui tendevi la nebbia agli irti colli. Dall’Alpi alle Piramidi andò in guerra e mise l’elmo. Fresche le mie parole nella sera pei quattro scherzucci da dozzina. Sempre libera sull’ali dorate. Guido io vorrei che al ciel si scoloraro. Conobbi il tremolar, l’arme, gli amori. Fresca e chiara è la notte, e il capitano. M’illumino, pio bove. Alle cinque della sera mi ritrovai per una selva oscura. Settembre, andiamo dove fioriscono i limoni. Sparse le trecce morbide, una spronata, uno sfaglio: questi sono i cadetti di Guascogna. Tintarella di luna, dimmi che fai. Contessa, cos’è mai la vita: tre civette sul comò.

Bibliofilia e collezionismo

Questa specie di fiducia in un repositorio universale del sapere, che rimane a tua disposizione, spiega perché il bibliofilo non si affanni tanto a leggere quanto ad accumulare. In tal senso il bibliofilo rischia di diventare un collezionista. Vorrei sottolineare la differenza tra collezionisti e bibliofili. I collezionisti vogliono avere tutto quello che si può raccogliere su un certo tema e quello che gli interessa non è la natura dei singoli pezzi ma la completezza della collezione. Tendono ad accelerare i tempi. Il bibliofilo, anche se lavora su un tema, spera che la collezione non finisca mai, che ci sia sempre e ancora qualcosa da cercare. E talora può innamorarsi di un bel libro che non ha nulla a che fare col suo tema.

Il collezionismo è passione forse millenaria, i patrizi romani collezionavano antichità greche (anche false) e i ragazzini d’oggi collezionano figurine. Collezionare è un modo di riappropriarci di un passato che ci sfugge. Ma quale passato? Se si consulta il mensile di Christie’s si vede che vengono fatte aste in cui si vendono a colpi di centinaia di milioni non solo tele, gioielli, mobili, ma “memorabilia” come un paio di calzini appartenuti al duca di Windsor. E va bene, i ricchi sono matti. Ma i poveri no?

Su un solo numero della rivista Collezionare ho scoperto una volta quante mostre o mercatini di oggetti da collezione ci siano in giro. Sono richiesti e proposti (insieme a libri, stampe, francobolli, auto d’epoca, bambole, orologi, oggettistica massonica, cartoline o bronzi) adesivi e biglietti, banconote e miniassegni, chiavi, bottiglie di Coca Cola, lamette da barba, tessere e diplomi. Una sezione riguarda solo “mignonettes”, ovvero bottiglini di liquore o di profumi, anche vuoti. Un tizio scambia 150 profumi mignon con francobolli italiani nuovi – voi direte dell’Ottocento, del Regno Pontificio, ma no, dal 1978 al 1988. Infine, nella sezione dedicata a Incarti e Bustine, ecco un bell’annuncio: “Avete degli incarti di frutta? Cerco anche bustine di zucchero piene”. Un altro cerca di incarti di arance Moro Tarocco, un altro salviette di bar. Sono tutte passioni rispettabili, per carità, ma mi coglie l’angoscia di quel passato futuro che si consuma intorno a noi, la scatoletta con le noccioline che lascio (magari piena) sull’Eurostar, la bustina usata di Nescafé che va a finire nella spazzatura, con mozziconi e scatole di sigarette e le bustine di Minerva (quelle vere) vuote e slabbrate. Mi sento un vandalo, un califfo che brucia la biblioteca di Alessandria. Come si fa a dissipare così l’archeologia di domani?

Talora il bibliofilo e il collezionista coincidono. Ho conosciuto il dottor Morris Young, ora un delizioso novantenne che, guadagnando bene come oculista, ha passato la vita, insieme a sua moglie, a collezionare. Ha collezionato molte cose, da materiale per prestidigitatori a libri sui codici militari. Quando la collezione era completa, perdeva ogni gusto per quel tema, e vendeva tutto, iniziando una nuova collezione. La sua collezione di maggior entità e successo è stata quella sulla memoria. L’ho incontrato per questo, perché la neonata università di San Marino voleva arricchire la propria biblioteca con qualche fondo di insigne rarità e avevo saputo da un libraio di New York che Young voleva vendere la sua raccolta di libri antichi sulle mnemotecniche. Ne conoscevo l’esistenza, perché chi colleziona artes memoriae conosce il catalogo Young, una miniera di notizie su tutti i libri di quel genere. Ho incontrato Young, ho scoperto che aveva un fondo rispettabile di arti della memoria, un manoscritto, molti incunaboli, e le opere maggiori del Cinque, Sei e Settecento. Ma contemporaneamente ho capito perché voleva vendere: non sapeva più dove tenere, pur disponendo di un secondo appartamento che assomigliava al magazzino di un rigattiere, tutto quello che sulla memoria aveva raccolto insieme ai libri rari.

Aveva tutti i libri pubblicati nell’Ottocento e nel Novecento, da psicologi, esperti di intelligenza artificiale, neurologi e filosofi. Aveva un immenso repertorio di giochi ispirati alla memoria, e altri memorabilia, che andavano sino a tazzine con dipinto sopra “Remember me”, più un fondo di manoscritti e lettere di studiosi della memoria. Vero e proprio Funes el Memorioso della Memoria, egli aveva collezionato tutto quello che in qualche modo poteva ricordare la memoria. Ormai non gli mancava più nulla, e vendeva. Come ogni buon bibliofilo vendeva a un ente culturale, così che il suo patrimonio non si disperdesse e diventasse inalienabile. Era così poco un bibliomane, però, che era ormai pronto a disfarsene.

Il bibliofilo e la fine del libro

Il bibliofilo non è spaventato né da Internet, né dai cd-rom né dagli e-book. Su Internet trova ormai i cataloghi antiquari, su cd-rom quelle opere che un privato potrebbe difficilmente tenere in casa, come i 221 volumi in-folio della Patrologia Latina del Migne, su un e-book sarebbe dispostissimo portarsi in giro bibliografie e cataloghi, avendo un repertorio prezioso sempre con sé, specie se e quando visita una mostra mercato del libro antico. Per il resto confida che, anche se i libri scomparissero, la sua collezione semplicemente raddoppierebbe, ma che dico, decuplicherebbe il suo valore. Quindi, pereat mundus!

Però il bibliofilo sa anche che il libro avrà lunga vita, e se ne accorge proprio guardando con occhio amoroso i propri scaffali. Se tutta quella informazione che egli ha accumulato fosse stata registrata, sin dai tempi di Gutenberg, su supporto magnetico, sarebbe riuscita a sopravvivere per duecento, trecento, quattrocento, cinquecento, cinquecentocinquant’anni? E si sarebbe trasmessa, coi contenuti delle opere, la traccia di chi le ha toccate, compulsate, annotate, tormentate e sovente sporcate con segni di pollice, prima di noi? E ci si potrebbe innamorare di un dischetto come ci si innamora di una pagina bianca e dura, che fa crack crack sotto le dita come se fosse uscita ora dal torchio?

Che bello un libro, che è stato pensato per essere preso in mano, anche a letto, anche in barca, anche là dove non ci sono spine elettriche, anche dove e quando qualsiasi batteria si è scaricata, e sopporta segnacci e orecchie, può essere lasciato cadere per terra o abbandonato aperto sul petto o sulle ginocchia quando ci prende il sonno, sta in tasca, si sciupa, registra l’intensità, l’assiduità o la regolarità delle nostre letture, ci ricorda (se appare troppo fresco o intonso) che non l’abbiamo ancora letto...

La forma-libro è determinata dalla nostra anatomia. Ce ne possono essere di grandissimi, ma per lo più hanno funzione di documento o di decorazione; il libro standard non deve essere più piccolo di un pacchetto di sigarette o più grande di un tabloid. Dipende dalle dimensioni della nostra mano, e quelle – almeno per ora – non sono cambiate, con buona pace di Bill Gates.

Funzione del bibliofilo è anche quella, al di là della soddisfazione personale del suo privato desiderio, di testimoniare del passato e dell’avvenire del libro. Ricordo al primo salone del libro di Torino quando avevano riservato una grande corsia al libro antico (dopo mi pare che quella bella abitudine sia andata perduta). Visitavano la mostra i ragazzi delle scuole, e ne ho visti incollati davanti alle vetrinette a scoprire per la prima volta che cosa fosse un vero libro, non un fascicoletto da stazione, un libro con tutti i suoi attributi al posto giusto. Mi avevano ricordato il barbaro di Borges, quando vede per la prima volta quel capolavoro dell’arte umana che è una città. Quello era caduto in ginocchio davanti a Ravenna, e si era fatto romano. Mi accontenterei che i ragazzi di Torino avessero portato a casa almeno una emozione, forse un tarlo benefico.

Ah, dimenticavo, fanno parte della passione del bibliofilo anche i tarli. Non tutti deprezzano il libro. Alcuni, quando non affettano il testo, sembrano un delicato merletto. Io, lo confesso oggi, amo anche quelli. Naturalmente al libraio che mi vende il libro manifesto sdegno e disgusto, per abbassare il prezzo. Ma ve l’ho detto, per amore di un bel libro si è pronti a qualsiasi bassezza.

* Pubblicato come volumetto in edizione numerata dalle Edizioni Rovello, 2001.

Collazioni di un collezionista *

Permettetemi di iniziare con alcune osservazioni di un grande bibliografo e bibliofilo, che io ho il singolare privilegio di citare liberamente e impunemente – per diretta seppur implicita investitura, ricevuta il giorno in cui presi un aereo per andare a incontrarlo. Mi riferisco alla prefazione scritta da Mario Praz per il Catalogo 15 della Libreria della Fiera Letteraria nel 1931, pochi mesi prima della mia nascita, e benemeritamente ristampata nel volume Bibliofobia, con dotta Introduzione di Roberto Palazzi, Pierre Marteau Editore in Roma, dicembre 1988, in duecentosettanta esemplari numerati da 1 a 270, più alcune copie fuori commercio punzonate HC, 2417, 10 ccnn, 21-125 pp. (1p bianca) (3 ccnn), numerose riproduzioni di incisioni nel testo; brossura, carta acqueforti di gr. 160, mia copia punzonata HC, barbe, numerose annotazioni manoscritte coeve a matita, rara Association Copy con dedica a matita del prefatore. Leggero alone di whisky al margine superiore sinistro del fts, altrimenti fresco. Opera d’insigne rarità, assente in Hain e Goff, inspiegabilmente ignoto a Graesse, Cicognara e Sommervogel. Ancora nessuna copia NUC, 270 copie alla Narrenschift Bibliothek dell’Hortus Palatinus.

Praz rilevava quale piacere fosse per il bibliofilo leggere cataloghi d’antiquariato librario così come si leggono libri gialli. “State sicuri – diceva – che nessuna lettura ha mai generato azione così rapida e commossa, come la lettura di un catalogo interessante”. Egli però subito dopo lasciava intravedere come si possano dare letture rapide e commosse anche di cataloghi ininteressanti.

Ci affascina veder premiati gli autori oscuri e scoprire deprezzati coloro che, baciati dal successo, hanno consegnato ai posteri tirature volgarmente altissime; ma soddisfano il nostro sadismo intellettuale quegli autori “di poco merito, e di nessun conto oggi, che puntualmente si ripresentano a ogni catalogo... con lo stesso muso lungo di gente fallita o di possessori d’azioni non più quotate in borsa”. Praz esemplificava con il Rimario del Ruscelli e con le Immagini degli Dei Antichi di Cartari (che lui considerava opera d’emblematica in senso spurio); ma io – senza far questioni di merito scientifico o letterario, ma solo di eccesso editoriale – aggiungerei le Aventures de Télémaque, prima risorsa di ogni arredatore che metta in scena la cultura a metro quadro, ogni Sfera del Sacrobosco, ogni Comte de Gabalis che non siano la prima edizione, tutti i Grand e Petit Albert dei fratelli Beringos, il dizionario biblico del Calmet, i dodicesimi e sedicesimi cinquecenteschi dei Misteri di Giamblico e, per i devoti del XIX secolo, tutte le opere di Lacroix e di Figuier. E mi è grato ricordare l’ironia che un critico della bibliofilia riservava all’intellettuale rampante che stupisce i borghesi asserendo di avere a casa numerose cinquecentine. Le cinquecentine sono ancora più numerose delle lattine di Coca Cola, e spessissimo valgono meno di una scatoletta di caviale, anche se sulle bancarelle di piazza Fontanella Borghese ve le mostrano sussurrando lascivi come se si trattasse di un Kamasutra illustrato.

Ma leggere i cataloghi significa anche scoprire le presenze inattese, e allora dal giallo in cui l’assassino è il maggiordomo Ruscelli si passa al giallo inedito in cui la vittima è il narratore, e il lettore è il ladro gentiluomo. È accaduto che nel catalogo di un’asta Zisska abbia trovato citata la prima edizione dei Manifesti rosacroce del 1614. Neppure il massimo collezionista in merito, il Rittman della Bibliotheca Hermetica di Amsterdam, l’aveva ancora. La cifra di partenza era ragionevole e ho scritto a un amico di Monaco perché tentasse: ma se avesse visto aggirarsi per quelle sale un certo signor Jannssen, lasciasse pur perdere. Jannssen agisce per conto del signor Rittman, il quale sarebbe stato disposto a cedere, per avere quell’opera, i diritti che percepisce su tutte le posate di plastica che noi usiamo sugli aerei di qualsiasi linea. Infatti è avvenuto che Jannssen ci fosse (e figuriamoci se no), e abbia comperato il libro per alcune tonnellate di forchette di plastica.

Ma nei giorni precedenti l’asta, sfogliando ancora lo stesso immenso catalogo, nella sezione “teologia” ho trovato un libro, dal frontespizio anonimo e dal titolo teologicamente inoffensivo di Offenbarung göttlicher Mayestat, Hanau 1619. Prezzo di partenza, 200 miserabili marchi. Praz lo ha detto, occorre leggere i cataloghi cercando “parolette magiche” e per fortuna ciascuno ha le proprie. Quell’Offenbarung ha sollecitato alcuni dei miei neuroni ormai in liquidazione. Dove ne avevo sentito parlare? Perdiana, era l’opera di Aegydius Guttman, leggendariamente considerato come ispiratore dei manifesti rosacrociani. L’opera circolava manoscritta sin dal secolo precedente, ma era stata pubblicata per la prima volta proprio nel 1619. Gottfried Arnold, sin dal 1740, nella sua Unpartheyische Kirchen-und-Ketzer Historien, la dava come introvabile e citava non so più quale langravio che aveva pagato una fortuna in talleri o fiorini per averne uno dei pochi esemplari ancora in circolazione.

Ho telefonato all’amico di Monaco, consigliandogli di fare piccole e svogliate offerte, per non insospettire Jannssen, nel caso che quel diavolo d’uomo non avesse guardato nel settore di teologia. Ho avuto il libro per 300 marchi, duecentosessantacinquemila lire, solidamente rilegato in pelle coeva, blandamente, quasi teneramente arrossato in modo uniforme, con meravigliose annotazioni manoscritte dell’epoca, in due colori. Sono stato tentato di scrivere a Jannssen per sbertucciarlo, in nome della nostra conflittuale amicizia, ma poi ho soprasseduto: meglio non mettergli pericolose idee in testa. Lasciamo che i rosacrociani non esplorino le sezioni di teologia e rimangano confinati ai cataloghi di occulta, che tanto hanno da passarci gran tempo, visto che molti antiquari mettono ormai sotto quella voce tutte le opere con titoli appetibili, come Sidereus Nuncius, Selenographia o Novum Organum.

Il catalogo commerciale spesso enfatizza ma talora, come l’Oracolo di Delfi di cui parla Eraclito, non dice né nasconde, bensì soltanto accenna. Per renderlo esplicito il collezionista si rifà alle bibliografie più vulnerabili e ai cataloghi commerciali ormai storici.

Ma chiunque li consulti, anche bibliografie e cataloghi storici sono fonte di sapere e al tempo stesso sentieri di perdizione. C’è infatti una radicale differenza tra una bibliografia come repertorio di testi da consultare e una bibliografia come descrizione di oggetti da possedere. La prima non descrive copie, ma classi di copie, designate da autore, titolo, luogo e data. Che lo studioso reperisca l’una o l’altra copia è indifferente, come è indifferente che un libro all’indice sia posseduto, letto o ascoltato per telefono: è il contenuto che conta, non il veicolo. Invece il paradosso di ogni Trésor de Livres Rares et Precieux è che esso parla di oggetti individuali in cui il veicolo fisico è più o altrettanto prezioso del contenuto.

Quando un libro appare, ogni sua copia è per definizione fungibile con ogni altra copia, ma quando incomincia a scomparire è la copia singola che viene ricercata per il suo carattere di unicità, o di rarità. In questo processo di rarefazione, ciascun esemplare diventa unico per le alterazioni che l’opera del legatore, del possessore, del tempo e degli agenti atmosferici gli ha imposto come suggello; ma al tempo stesso ogni esemplare acquista valore nella misura in cui si avvicina alle condizioni della copia ideale.

Ora per gli amatori di oggetti prodotti industrialmente in serie (collezionisti di automobili d’epoca o di lampade Tiffany) esiste un criterio di idealità: l’esemplare deve adeguarsi alle istruzioni fornite dal suo progetto originario, sovente conservato, e tanto più diventa appetibile quanto meno presenti segni d’usura. Per gli oggetti d’artigianato, e si pensi al mobile antico, non esiste il tipo che ha determinato una serie di esemplari tutti uguali, ma si estrapola dalla tradizione un modello generico, per esempio, di fratina rinascimentale. In entrambi i casi l’amatore, una volta stabilita la aderenza dell’esemplare al tipo, e valutato il suo stato apparente di conservazione, deve solo chiedersi se esso sia autenticamente antico. È una impresa non da poco, e proprio per questo in tali settori prosperano le fratine di Cantù e i Vuitton degli extracomunitari.

Che cosa accade con il libro antico? Per il libro non esiste un tipo astratto a cui comparare le varie occorrenze. Ogni pezzo uscito dalla tipografia è in linea di principio il tipo di tutti gli altri. Ma visto che una volta si vendevano segnature sfuse da rilegare a capriccio del committente, che i processi ancora artigianali permettevano di correggere la composizione anche in corso di stampa, e visto che la copia arriva a noi variamente segnata dal tempo e dal possesso, di una edizione tirata in mille copie, in teoria nessun esemplare è uguale all’altro.

Né possiamo dire che il problema centrale sia di accertare l’effettiva antichità dell’esemplare. Il giudizio di autenticità è essenziale ma non drammatico. Anche un semplice amatore può riconoscere la copia composita, restaurata, lavata, rappezzata con fogli in anastatica. Inoltre il falso perfetto è improbabile perché sarebbe assolutamente rovinoso per qualsiasi falsario. Se è conveniente per un buon artigiano (che abbia a disposizione legno vecchio e un fucile da caccia per creare i buchi dei tarli) falsificare una madia secentesca, produrre ex novo un incunabolo, rifabbricarne la carta, stamparvi sopra una copia fotografica della pagina originale ma conferendo alla carta i debiti segni d’invecchiamento, sarebbe talmente dispendioso che appare più conveniente applicare lo stesso ingegno a falsificare banconote. Varrebbe forse la pena per un libro immensamente caro, come per esempio la Bibbia di Gutenberg, ma in tal caso lo stesso suo prezzo consiglierebbe all’eventuale cliente tali e tante prove scientifiche, che il falso verrebbe in ogni caso scoperto.

Il vero problema consiste nell’appurare la rarità degli esemplari di una data edizione (il che è abbastanza fattibile in base a buoni repertori) e nel decidere se la copia in esame risponda ai requisiti di una copia ideale. Sfortunatamente non solo la copia tipo non esiste, ma il concetto di copia ideale cambia con la vicenda stessa degli esemplari sopravvissuti. Se una Hypnerotomachia Poliphili mancante dell’errata si degrada quasi a copia di studio, un libro di negromanzia incorso nei rigori dell’Inquisizione è considerato eccellente anche se una mano timorosa ha rimosso il nome dell’editore.

Molti cataloghi annotano per libri del Seicento: “con le forti consuete bruniture, dovute alla qualità della carta”. Ora, quasi tutte le copie della Historia Utriusque Cosmi di Fludd sono normalmente arrossate, e fortemente, e molte più o meno arrossate nelle stesse segnature (interessante spia del fatto che certe partite di carta rispondessero alla stessa composizione chimica per tutti gli esemplari di una stessa tiratura), ma ho visto almeno un Fludd di gran freschezza. Se qualcuno mi facesse la gentilezza di distruggerlo, il Fludd ideale diventerebbe il mio, capolavoro alchemico di opera al rosso.

Quale è lo standard di conservazione di una copia? Per saperlo occorrerebbe conoscere intus et in cute tutte le copie sopravvissute, e cara grazia se riusciamo a farlo per la Bibbia a 42 linee. Di conseguenza ci si rifà alle descrizioni pubblicate, i cui autori però di solito descrivono come ideale la copia che hanno avuto sottomano.

Ma se per caso Hain es Goff hanno avuto tra le mani una copia imperfetta, il tipo ideale a cui si attengono i librai è la descrizione di un esemplare imperfetto, o perfetto ma in modo anomalo. In quel mio libretto che alcuni di voi conoscono, sulle vicissitudini della Hanau 1609,1 si mostra come i criteri ideali di successione delle tavole dipendono dall’esemplare che il bibliografo ha visto o dice di aver visto. Mi è accaduto recentemente di vedere tre esemplari della Cronaca di Norimberga. Uno non conta, sta alla Library del Queens College di Cambridge, me l’hanno mostrato con commozione, ma non vale neppure come copia di studio, perché è stato mutilato di alcune tra le tavole più belle, tra cui ovviamente quella dei mostri. L’altro, in Italia, sembrava non corrispondere alla descrizione dello Hain. Ma una ispezione più accurata ha permesso di concludere che la descrizione di Hain si adattava alla copia in questione, purché si assumesse che il legatore aveva posto in altra posizione cinque carte non numerate che presumibilmente si possono collocare con una certa libertà. La terza copia l’avevo vista in vendita a New York ed era leggermente più marginosa della copia italiana. Siccome la copia americana ha una rilegatura del XVIII secolo, si tratta forse di un esemplare rilegato per la prima volta solo posteriormente; ma la copia italiana ha una rilegatura pressoché coeva, e quindi coeva appare la sua rifilatura. Quale tra tutte dovrà essere definita come copia ideale?

Si obietterà che catalogo autorevole è quello che non riferisce su di un solo esemplare ma riassume un lavoro pluridecennale di pazienti confronti, e di esso ci fidiamo, se non per conoscere un ideale stato di conservazione, almeno per quanto riguarda la collazione. Ma esiste il catalogo pienamente autorevole? Anche i migliori sono come le migliori enciclopedie, che possono esibire una ottima voce “membranacee” e una pessima voce “monocotiledoni”. L’autore di tesori di libri rari e preziosi ha visto troppi libri, e troppi ne vuol descrivere, perché li possa descrivere tutti con ugual acribia. Non di rado esso descrive come copia tipo una copia che non ha visto, la cui descrizione trae da un catalogo precedente, il quale a sua volta trae da un catalogo più antico. Senza parlare di spettegolatori come Dorbon o Caillet, che raccolgono anche le chiacchiere della portinaia, quante volte Graesse copia da Brunet e Brunet parla per sentito dire... Così un errore originario si trasmette di catalogo in catalogo, e tutti si riferiscono a una copia tipo che non è mai esistita, neppure come occorrenza individuale.

Mesi fa ho trovato, rilegati in un volume, e per un prezzo abbastanza modesto, l’Opus Mago Cabbalisticum et Theosophicum e il Tractatus Mago-cabbalistico chymicus et Theosophicus di Georg von Welling. Il catalogo dell’antiquario diceva che l’Opus, del 1735, era solo la prima edizione della prima parte di un’opera di cui il Tractatus, del 1729, era la seconda parte, e in seconda edizione. Infatti, come ho subito appreso da cataloghi autorevoli, questa seconda parte del 1729 riproduceva una edizione 1719, la quale disgraziatamente non si intitolava Tractatus, come tutti avremmo sperato, ma Opus, come la prima edizione della prima parte (ometto il fatto che i tre titoli per intero, lunghi una pagina come si conviene, sono apparentemente uguali ma in realtà parzialmente diversi l’uno dall’altro). Come vedete, un bel pasticcio, che spiega come i bibliografi abbiano cominciato a perder la testa, ammesso che qualcuno abbia mai esaminato tutte e tre le edizioni insieme. Ma non è tutto.

Come ho appurato con duro lavoro, e provando più difficoltà nel decifrare i cataloghi che la prosa dell’autore, Welling, sotto lo pseudonimo di Sallwigt, pubblica un primo libro sulla chimica del sale nel 1719 e lo chiama Opus. Poi nel 1729 lo ripubblica anonimo salvo piccole differenze e lo chiama Tractatus. Quindi nel 1735 sotto il nome di Welling pubblica un Opus che comprende come prima parte il testo dell’Opus 1719 e del Tractatus 1729 (e i tre testi sono sostanzialmente identici nel contenuto e riguardano senza ombra di dubbio la chimica del sale), più una seconda parte consistente e inedita.

L’Opus del 1735 è la prima edizione dell’opera completa. Ma i due volumi precedenti non ne costituiscono la seconda parte, bensì la prima, riproposta anche nell’Opus del 1735. Quindi io avevo acquistato non la prima e la seconda parte di una stessa opera, ma due opere diverse, e al prezzo di una, perché l’antiquario si era fidato dei cataloghi.

Si badi che Duveen, nel suo Bibliotheca Alchemica et Chimica, aveva capito tutto, e criticava appunto una svista del Ferguson di Bibliotheca Chemica. Anche Ferguson sapeva come stavano le cose, e lo diceva, ma sfortunatamente in una annotazione in corpo minore (e voi sapete quante ne facesse e da ogni parte) si confondeva e chiamava seconda parte quella che precedentemente aveva chiamato prima. Ignorando Duveen e leggendo male Ferguson, l’autore del catalogo della Collezione Mellon, autorevolissimo, riprende l’annotazione sbagliata e la enfatizza, subito imitato dall’autore del catalogo della Hall Collection. Tutti coloro che vengono dopo seguono a ruota.

Ora per capire chi avesse ragione, io ho confrontato pagina per pagina le edizioni 1729 e 1735, e anche senza avere la 1719, ho verificato che il testo della 1729 corrisponde alla prima parte della 1735.2 Semplicissimo. Ma occorreva partire da un principio: che i libri, anche quelli antichi, si debbono leggere, almeno un po’.

E questa non è una idea universalmente accettata tra gli amatori di libri rari e preziosi, compresi i loro bibliografi. I quali erano tutti e certamente bibliofili, ma spesso anche bibliomani, quando non erano bibliocleptomani come Guglielmo Libri. Un bibliomane si distingue dal bibliofilo perché, pur di avere un libro raro e intonso, e di conservarlo tale, rinuncia a leggerlo. Credo che non ci sia alcuna differenza tra un bibliomane e un bibliofobo, e cioè tra conservare libri senza leggerli, e distruggerli. I libri sono fatti per essere letti.

Permettetemi dunque di concludere queste mie considerazioni, iniziate sotto l’egida della bibliofobia, sotto l’egida di quella saggia e sana bibliofilia testimoniata nel 1345 da Richard De Bury nel suo Philobiblon:

I libri ci dilettano quando la prosperità ci sorride, confortano durante i fortunali della vita. Irrobustiscono gli umani propositi, sostengono ogni severo giudizio. Le arti e le scienze, le cui virtù sono a stento concepibili, si basano sui libri. Quanto alto possiamo stimare il mirabile potere dei libri, dappoiché attraverso di essi noi possiamo considerare gli estremi limiti del mondo e del tempo, le cose che sono e quelle che non sono, quasi figgendo lo sguardo nello specchio dell’eternità. Nei libri scaliamo le vette e penetriamo gli abissi, conosciamo le specie dei pesci più numerose di quelle degli uccelli, distinguiamo le proprietà delle correnti, delle sorgenti e delle varie terre; dai libri traiamo gemme e ogni altro minerale, impariamo le virtù delle erbe e delle piante e apprendiamo dell’intera progenie di Nettuno, di Cerere e Plutone. E se ci piace conoscere gli abitanti del cielo, ecco che sorvoliamo l’Olimpo, il Tauro e il Caucaso e i regni di Giunone e i sette pianeti e le linee e i circoli dell’equatore celeste. Attingiamo il firmamento supremo, adornato di segni, gradi e immagini, sappiamo del polo antartico e di ciò che l’occhio non ha mai visto e l’orecchio mai udito. Ammiriamo la luminosa via Lattea e lo zodiaco, giocondamente adorno di animali iperurani. Coi libri ci appressiamo alle sostanze separate e alle intelligenze superiori e con l’occhio della mente discerniamo la Causa Prima e il Motore Immobile dall’infinita virtù, e in esso ci immergiamo in un atto d’amore senza fine... Coi libri comunichiamo con l’amico e col nemico... Il libro ha accesso alle camere de potenti, dove altrimenti la voce del suo autore non sarebbe udita... Quando siamo messi in catene e privati della libertà corporale, usiamo i libri come messaggeri presso i nostri amici, per chieder loro aiuto e metterli in guardia... Che altro dire? Abbiamo letto in Seneca che l’ozio senza le lettere è morte e sepolcro per i viventi, e pertanto solo il commercio con i libri e con le lettere è vita per l’uomo. (cap. XV).

Ecco, De Bury ci dice che cosa fare dei libri dopo averli collezionati e collazionati.

* Conferenza tenuta alla Mostra del Libro Antico il 29 marzo 1990, poi pubblicata su L’Esopo (n. 46, giugno 1990).

1 Vedi in questo volume “Lo strano caso della Hanau 1609”.

2 Questo all’epoca in cui scrivevo queste mie note. Ora ho anche la 1719 e i conti tornano egualmente.

HISTORICA

Sul libro di Lindisfarne *

Come sfogliare le pagine miniate dei Vangeli di Lindisfarne? In modo ingenuo, godendole per quel che sono, oppure cercando di capire l’ambiente in cui nascono e il gusto a cui si riferiscono...

Tommaso d’Aquino aveva sintetizzato i principi dell’estetica medievale in una definizione famosa (tra l’altro, visto che parleremo dell’Irlanda, è quella che è stata ripresa dal primo Joyce per fondare la propria visione dell’arte in The Portrait of the Artist as a Young Man): Ad pulchritudinem tria requiruntur. Primo quidem integritas sive perfectio: quae enim diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt. Et debita proportio sive consonantia. Et iterum claritas: unde quae habent colorem nitidum pulchra esse dicuntur. Il che significa che alla bellezza concorrono tre condizioni o caratteristiche, l’integrità, perché diciamo brutte le cose incomplete, la proporzione, e la chiarezza o splendore del colore.

Tommaso riassumeva le definizioni che, provenendo dall’antichità classica, erano state riprese in modi diversi dai suoi predecessori lungo i secoli del Medioevo. La proporzione era criterio di origine pitagorica, anche se è interessante vedere come nel corso del tempo, pur usando sempre lo stesso termine artisti, filosofi e teologi avessero presente diversi tipi di proporzione. Per esempio basta osservare come, a proposito delle proporzioni musicali, nel IX secolo si riconoscesse ancora l’intervallo di quinta come esempio di proporzione imperfetta, mentre la si riconosce ormai perfetta nel XII secolo, e solo molto più tardi si ammetterà come perfetto anche l’intervallo di terza.

L’integrità sembra essere una condizione abbastanza intuitiva, e sovente nei testi medievali si ripete che l’uomo mutilato perde la propria bellezza: ma il concetto era in effetti molto più complesso. Per integrità si intendeva che ogni cosa naturale doveva adeguarsi ai limiti precisi fissati dalle leggi della specie, per cui non era bello ma mostruoso un cane delle dimensioni di un elefante, o una mela grande come una zucca – e il criterio veniva esteso anche alle opere d’arte. Quanto alla claritas, ne parleremo più avanti.

Ho citato i criteri della bellezza tipici del Medioevo per suggerire che i capolavori dell’arte irlandese e celtica in generale, fioriti nelle isole britanniche negli ultimi secoli del primo millennio, sembrano tradire ogni criterio di proporzione e di integrità.

Già nel mondo latino si era opposto lo stile detto asiano (e poi africano) allo stile attico, e qualcuno ha osservato che si trattava già allora di un dibattito tra una estetica classicistica e una estetica barocca. Per Quintiliano lo stile classico deve tendere al sublime ma non al temerario, alla grandezza ma non all’enfasi, e Vitruvio aveva lamentato che si stessero rappresentando sovente mostri invece che figure chiaramente definite. All’inizio della cultura cristiana San Gerolamo si era scagliato contro quello stile in cui “tutto si gonfia e si affloscia come un serpente malato che si spezzi mentre tenta le sue volute” e dove “tutto si avvolge in inestricabili nodi di parole”. E, secoli dopo, è nota l’invettiva di San Bernardo contro i mostri che adornavano i capitelli delle abbazie cluniacensi.

Bernardo sembrava opporsi (subendone il fascino) a quelle violazioni dei principi di proporzione e integrità che avevano popolato l’immaginario ellenistico e cristiano invadendo i testi dei bestiari, centinaia di miniature e di marginalia, e che apparivano persino sui portali delle cattedrali. Erano – e solo l’elenco può riprodurre il senso di “sproporzione” che animava il mondo della teratologia medievale – gli Acefali, con gli occhi sulle spalle e due buchi sul petto a modo di naso e bocca; gli Androgini, con una sola mammella ed entrambi gli organi genitali; gli Artabanti di Etiopia che vanno proni come pecore; gli Astomati che per bocca hanno un solo forellino e si nutrono con una cannuccia; gli Astomori senza bocca del tutto che si nutrono di soli odori; i Bicefali; i Blemmi senza testa e con occhi e bocca sul petto; i Centauri; gli Unicorni; le Chimere, bestie triformi con testa di leone, la parte posteriore di drago e quella mediana di capra; i Ciclopi; i Cinocefali dalla testa di cane, donne con denti di cinghiale, capelli sino ai piedi e coda di vacca; i Grifoni col corpo d’aquila davanti e di leone dietro; i Ponci con le gambe dritte senza ginocchio, lo zoccolo di cavallo e il fallo sul petto; altri esseri con il labbro inferiore così grande che quando dormono se ne coprono la testa; la Leucrocota dal corpo d’asino, il retro di cervo, petto e coda di leone, piedi di cavallo, un corno biforcuto, una bocca tagliata sino alle orecchie da cui esce una voce quasi umana, e in luogo di denti un solo osso; la Manticora, con tre file di denti, corpo di leone, coda di scorpione, occhi azzurri, carnagione color sangue, sibilo di serpente; i Panozi, con orecchie così grandi che scendono sino alle ginocchia; i Phiti, con colli lunghissimi e piedi lunghi e le braccia simili a seghe; i Pigmei, sempre in lotta con le gru, alti tre spanne, che vivono sette anni al massimo e si sposano e figliano a sei mesi; i Satiri dal naso adunco con le corna e la parte inferiore caprina. E ancora serpenti con la cresta sul capo che camminano sulle gambe, e tengono sempre la gola aperta dalla quale gocciola veleno, topi grandi come levrieri, catturati da mastini perché i gatti non riescono a prenderli, uomini che camminano con le mani, uomini che camminano sulle ginocchia e hanno otto dita per piede, uomini con due occhi davanti e due dietro, uomini dai testicoli così grandi che arrivano alle ginocchia, Sciapodi, da un’unica gamba con cui corrono velocissimi e che rizzano quando si riposano, per stare all’ombra del loro grandissimo e unico piede.

Dunque, celebrando proporzione e integrità, il Medioevo subiva il fascino dell’immenso e dello sporporzionato. E questo sentimento si impone proprio in quello stile che fiorisce, sia nelle arti che nella letteratura, nelle isole britanniche nella seconda metà del primo millennio, e che è stato definito come estetica isperica.

Il testo più celebre che rappresenta l’estetica isperica è la Hisperica Famina, una serie di composizioni poetiche (probabilmente prodotte come esercizio retorico in qualche scriptorium monastico), che contengono descrizioni di oggetti, eventi e fenomeni naturali. Nessun lettore abituato al latino classico, e persino a quello della decadenza e dei primi testi cristiani, poteva comprendere questo torrente impetuoso di neologismi nati da etimi ebraici, da radici celtiche e da chissà quali altre influenze barbariche. Basti solo qualche esempio, che mi pare possa evocare, se non immagini precise, l’affollarsi di immagini che si vedono nei Vangeli di Lindisfarne e in manoscritti irlandesi come il Book of Kells.

Si veda questa descrizione del mare:1

Gemellum neptunius collocat ritum fluctus:

protinus spumaticam pollet in littora adsisam

refluamque prisco plicat recessam utero.

Geminum solita flectit in orgium discurrimina:

afroniosa luteum uelicat mallina teminum,

marginosas tranat pullulamine metas

uastaque tumente dodrante inundat freta,

arboreos tellata flectit hornos in arua.

Assiduas littoreum glomerat algas in sinum,

patulas eruit a cautibus marinas,

illitas punicum euellit conchas,

belbecinas multiformi genimine harenosum euoluit effigies ad portum,

fluctivagaque scropheas uacillant aequora in termopilas

ac spumaticum fremet tumore bromum.

E, per arrivare ai Vangeli di Lindisfarne, ecco la descrizione di una tabella per scrittura:

De tabula

Haec arborea lectis plasmata est tabula fomentis,

quae ex altero climate caeream copulat lituram.

Defidas lignifero intercessu nectit colomellas,

in quis compta lusit c<a>el[l]atura.

Aliud iam latus arboreum maiusculo ductu stipat situm,

uaria scemicatur pictura,

ac comptas artat oras.2

Edgar De Bruyne, nella sua monumentale storia dell’estetica medievale,3 si sofferma a lungo sullo stile isperico nell’Alto Medioevo e riporta un verso della Hisperica Famina dove, per descrivere un empito di gioia, si dice Ampia pectoralem suscitat vernia cavernam, “un’ampia gioia solleva la caverna del mio petto”. Egli collega queste pagine al monito oraziano sui pericoli dell’unire a una testa umana una cervice equina e pone un parallelo tra questi esercizi verbali e gli entrelacs delle miniature irlandesi. Vede subito questa violazione di proporzione e integrità in uno stile in cui il dettaglio diventa essenziale e dove una ricchezza esuberante di linee decorative si impone non per mettere in rilievo il tema del testo che commentano, ma per amore di se stesse, e fa capire (anche se non dice) che qui ci troveremmo di fronte alla sola manifestazione medievale di quel principio dell’arte per l’arte, dell’arabesco fatto per amore dell’arabesco, che a noi sembra piuttosto criterio moderno.

Dobbiamo dire che De Bruyne, che ha evidenti preferenze per uno stile classico, rimane sconvolto e turbato, almeno quanto San Bernardo, da questi labirinti visivi dove ci si perde come in una foresta (forse la “selva oscura” in cui si perderà secoli dopo Dante Alighieri), e li paragona appunto ai labirinti verbali dei testi isperici, dove si moltiplicano gli epiteti come nella miniatura si accumulano le curve sinuose, gli avvolgimenti serpentini da cui emergono forme zoomorfe e umanoidi, uccelli, gatti quasi attoniti, code. “L’enigma verbale che si nasconde sotto la perifrasi è ricordato nelle miniature dall’enigma plastico che si sviluppa lungo curve interminabili”. E cita il giudizio di Angelo Mai che nell’introdurre l’Hisperica Famina nella Patrologia Latina (PL 90, col. 1188) parla di “stylus autem operis tumidus, abnormis, exorbitans, obscurus ac saepe inextricabilis”.

Infine, molti hanno visto nella miniatura delle isole britanniche non solo la sproporzione, ma anche la mancanza di integritas. Uno storico insigne come Richard Hamann4 annotava come al gusto della composizione organica nella miniatura irlandese si sostituisca quello di una ripetizione indefinita di segni geometrici, “invece di costruire un tutto coerente e organizzato”.

Quello che colpisce in questi giudizi è che paiono dimenticare come nelle miniature l’entrelac sia invece un capolavoro di proporzione. Al lettore curioso che rimarrà affascinato dai labirinti del libro di Lindisfarne consiglierei di andare a cercare su Internet la voce “entrelacs”: troverà diversi siti dove si forniscono istruzioni e modelli geometrici per la costruzione di entrelacs, e vedrà come al di sotto di quel fiorire di volute apparentemente senza regola si cela invece una serie di schemi matematici molto rigorosi, così che risulta possibile comporre entrelacs intricatissimi anche col computer. Questo non per ridurre l’immaginazione dei miniatori di Lindisfarne a pura informatica, ma per dire che (come si era suggerito) ogni epoca aveva il proprio criterio di proporzione e pertanto anche la miniatura d’Irlanda e di Northumbria non violava questo criterio, ma lo realizzava a modo proprio.

E d’altra parte anche De Bruyne, al di là del suo rifiuto dovuto a radicate preferenze di gusto, non riusciva a sottrarsi all’incantesimo di questo “beau chaos”, di questo “torrent capricieux”, di questo “desordre élementaire et pourtant rythmé comme les vagues de la mer, les souffles du vent, le fracas de la tempète”. Questo mare è fatto di cristalli di neve.

Perché De Bruyne vedeva bello il caos? Perché in queste miniature si realizza al massimo grado il terzo criterio della bellezza, la claritas ovvero la suavitas coloris.

Il Medioevo era innamorato dei colori semplici, nitidi, squillanti. Per Isidoro di Siviglia i marmi sono belli a causa della loro bianchezza, i metalli per la luce che riflettono, e l’aria stessa è bella ed è detta perché aes-aeris dallo splendore dell’aurum, e cioè dell’oro (e infatti come l’oro, non appena è colpita dalla luce, risplende). Le pietre preziose sono belle a causa del loro colore, dato che il colore altro non è che luce del sole imprigionata e materia purificata. Gli occhi sono belli se luminosi, e i più belli sono gli occhi glauchi. Una delle prime qualità di un corpo bello è la pelle rosata. Nei poeti questo senso del colore sfavillante è sempre presente, l’erba è verde, il sangue rosso, il latte candido, una bella donna ha per Guinizelli un “viso di neve colorato in grana” (per non dire, più tardi, delle chiare, fresche, dolci acque di Petrarca), le visioni mistiche di Hildegarde di Bingen ci mostrano fiamme rutilanti, e la stessa bellezza del primo angelo caduto è fatta di pietre rifulgenti a guisa di cielo stellato, così che l’innumerabile turba delle scintille, risplendendo nel fulgore di tutti i suoi ornamenti, rischiara di luce il mondo. La chiesa gotica, per far penetrare il divino nelle sue navate altrimenti oscure, è falciata da lame di luce che penetrano dalle vetrate, ed è per dar posto a questi corridoi di luce che lo spazio per le finestre e i rosoni si allarga, le mura quasi si annullano in un gioco di contrafforti e archi rampanti, e tutta la chiesa è costruita in funzione di un irrompere della luce attraverso un traforo di strutture.

Ora, le miniature di Lindisfarne sono un trionfo del colore dove le tinte sono allo stato elementare ma sfolgorante diventa il loro accostarsi, contrastarsi, comporsi in una sinfonia di rossi, azzurri, gialli, bianchi e verdi, dove lo splendore si genera dall’accordo d’insieme anziché farsi determinare da una luce che avvolga le cose dall’esterno o faccia stillare il colore oltre i limiti della figura. In queste pagine la luce sembra irradiarsi dalla pagina, e sfolgora come gemme che brillano su di un calice di bronzo, come le piastre un serpente mostruoso e terribile.

Io credo che chi sfoglia questo libro senza intenti filologici, potrebbe trovarsi ad avvertire le stesse emozioni di Des Esseintes, il protagonista di À rebours di Huysmans, quando pone su un sontuoso tappeto la sua tartaruga diventata monile artificiale. Per chi non la conosce, o non la ricorda, la storia è questa.

Des Esseintes si era chiuso nella sua dimora di campagna per isolarsi dal mondo e concedersi ogni voluttà decadente, in un universo puramente artificiale da cui la natura è stata esclusa e dominava solo il gusto dell’arte per l’arte. Dopo essersi inebriato sul sapore corrotto del latino della decadenza e dei primi secoli cristiani (ignorando, ahimé, lo stile isperico), si era appassionato a un tappeto orientale, e seguendo il luccichio dei suoi riflessi argentei che sorgevano dalla trama giallo e violetto della lana, si era detto che sarebbe stato bello porre su quella superficie qualche cosa che si muovesse e ravvivasse la vivacità delle sue tinte. Aveva dunque acquistato una grande tartaruga marina e ne aveva fatto dorare il dorso.

Dapprima si era compiaciuto di questo effetto, come se avesse visto un rutilante scudo visigoto dalle squame imbricate da un artista barbarico. Ma poi aveva deciso che bisognava ancora ravvivare quella corazza e, prendendo a modello uno sciame di fiori da un disegno giapponese, aveva deciso di incastonarvi delle pietre preziose. Aveva scartato subito il diamante, troppo comune e borghese, e per le stesse ragioni gli smeraldi e i rubini, il topazio, l’ametista e lo zaffiro. Si era dunque posto a cercare pietre più rare, e credo che il risultato finale debba venir lasciato in francese, perché i nomi preziosi di quei minerali (forse intraducibili) evocano le tinte che egli voleva realizzare:

Les feuilles furent sorties de pierreries d’un vert accentué et précis: de chrysobérils verts asperge; des péridots vert poireau; d’olivines vert olive; et elles se détachèrent de branches en almadine en ouwarovite d’un rouge violacé, jetant des paillettes d’un éclat sec de même que ces micas a tartre qui luisent dans l’intérieur des futailles. Pour les fleurs... il usa de la cendre bleue... Il choisit exclusivement des turquoises de l’Occident, des pierres qui ne sont, à proprement parler, qu’un ivoire fossile imprégné de substances cuivreuses et dont le bleu céladon est engorgé, opaque, sulfureux, comme jauni de bile. Ce fait, il pouvait maintenant encâsser les pétales de ces fleurs épanouies au milieu du bouquet, de ses fleurs les plus voisines, les plus rapprochés du tronct, avec des minéraux transparents, aux leurs vitreuses et morbides, aux jets fiévreux et aigres. Il les composa uniquement d’yeux de chat de Ceylan, de cymophanes et des saphirines. Ces trois pierres dardaient en effet, des scintillements mystérieux et pervers, douloureusement arrachés du fond glacé de leur eau trouble... Et la bordure de la carapace?... Il se décida enfin pour des minéraux dont les reflets devaient s’alterner: pour l’hyacinthe de Compostelle, rouge acajou; l’aigue marine, vert glauque, le rubis-balais, rose vinaigre, les rubis de Sudarmaine, ardoise pâle...

Arrestiamo la descrizione di questo raffinato lavoro d’oreficeria decadente. L’effetto finale era ormai soddisfacente per Des Esseintes, quando nel giro di qualche giorno la tartaruga, oppressa da tanta ricchezza minerale, era morta. Salutiamo Des Esseintes e non facciamoci prendere dai suoi languori da Basso Impero. Morta la tartaruga e scomparso il tappeto di Huysmans, ci rimangono le pagine dei Vangeli di Lindisfarne, e credo che potremmo sentirci autorizzati a sfogliarle con lo stesso gusto del meraviglioso, anche se non sono state immaginate da esteti malati d’estetica ma da monaci intesi soltanto a celebrare la parola divina.

D’altra parte (e lo scrivevo introducendo il facsimile del Book of Kells)5 si potrebbe fantasticare su queste miniature vedendole come se fossero la traduzione visiva del Finnegans Wake di Joyce (che da pagine del genere era stato ispirato).

Ma forse è meglio tornare nei paesi e nel clima in cui queste pagine sono state miniate e cercare di ritrovarne intatto il profumo, la gioia per la claritas, il senso avventuroso di una incontinente proporzione. Si scoprirà anche che in queste pergamene si realizza, nel modo proprio dell’immaginazione isperica, un principio di integritas: il libro miniato rappresenta un modo organico di alternare le immagini quasi realistiche degli evangelisti a un gioco solo apparentemente decorativo di motivi geometrici e fantastici che hanno la stessa funzione dei calici e delle patene tempestati di gemme, dei paramenti damascati, dei reliquiari d’avorio o d’argento, tutti modi molto medievali e monastici di cantare le lodi di Dio e del testo sacro. Organicamente perfetta è dunque questa cerimonia quasi liturgica fatta di parole mormorate in preghiera e di canti, di luci e di sacra messa in scena.

E avverrà forse che (mi si scusi se per mantenere intatta la citazione violo le regole della sintassi) ampia pectoralem suscitat vernia cavernam.

* Articolo scritto per l’edizione Faksimile Verlag del Book of Lindisfarne.

1 Un coraggioso esempio di traduzione (inglese) di questi testi si trova in Michael W. Herren, The Hisperica Famina. Toronto: Pontifical Institute of Medieval Studies 1974: “Neptune’s flood has a double movement: / continually it propels the foamy tide to the shore / and enfolds it within its ancient womb as it flows backwards. / It directs its customary double motion to a double purpose: / the foamy tide covers the muddy land, / crosses the shore’s boundaries in its burgeoning, / and floods vast channels in a swelling tidal wave. / It bends the white ash trees toward the earthen fields, / heaps up mounds of algae on the shore of the bay, / uproots open limpets from the rock, / tears away purple-coloured conchs, / spins the bodies of beasts toward the sandy harbour in great profusion; / the billowing waters undulate toward the canyons of rock, / and the foaming storm roars as it swells”. Non ritengo indispensabile tentare una versione italiana. Se il lettore non comprende nulla dell’inglese, tanto meglio, si trova nella stessa situazione di un lettore dell’epoca che fosse stato educato sul latino delle scuole.

2 “This wooden tablet was made from choice pieces; / it contains rubbing wax from another region; / a wooden median joins the little divided columns, / on which lovely carving has played. / The other side has a somewhat larger area of wood; / it is fashioned with various painted designs / and has decorated borders”.

3 Études d’estétique médiévale.Bruges: De Tempel, 1946 (ora Paris, Albin Michel, 1998, I, pp. 132-141).

4 Geschichte der Kunst. Berlin, 1932.

5 Foreword to P. Fox, Commentary to The Book of Kells. Luzern: Faksimile Verlag 1990, pp. 11-16.

Sulle Très Riches Heures *

Ho incontrato le Très Riches Heures du Duc de Berry quando avevo poco più di venti anni, in una piccola edizione cartonata che conteneva, naturalmente, le sole miniature dei mesi.

Dico “naturalmente” perché il destino dell’amatore non specializzato è quello di incontrare sempre questo manoscritto sotto forma di quelle dodici famose rappresentazioni. Talora accade di trovare in qualche libro d’arte anche altre immagini, ma si finisce per dimenticarle. Les Très Riches Heures si sono fissate in questo cliché, come è successo a Beethoven e a Chopin, noti ormai a tantissimi solo attraverso la Sonata al Chiaro di Luna, e il Preludio della Goccia. Il feticismo incoraggia la pigrizia, e la pigrizia incoraggia il feticismo. Da entrambe può nascere la sazietà. Solo potendo sfogliare la riproduzione dell’intero manoscritto nella splendida edizione della Faksimile Verlag di Lucerna – per chi non abbia la grazia ormai rarissima di toccare l’originale di Chantilly – si scopre quanto più ricche, inventive, talore enigmatiche siano le Très Riches Heures. E si capisce perché così, “très Riches”, le abbiano chiamate gli esecutori testamentari del Duca.

Per me ventenne queste miniature sono state in ogni caso una via di avvicinamento al Medioevo, che mi apprestavo a studiare. È vero che si tratta di tardo Medioevo, in cui fremono già molti presentimenti del Rinascimento: ma io guardavo le Très Riches Heures e leggevo contemporaneamente l’Autunno del Medioevo di Huizinga. Vivevo la grazia, il languore di quest’epoca al tramonto, e in essa rivivevo i secoli che aveva alle spalle. In fin dei conti tutti abbiamo conosciuto e forse capito la civiltà dei Romani attraverso delle rovine che risalivano solo al tardo Impero.

Ma la mia lettura di allora era certamente anche estetizzante, neogotica, decadente. E facevo torto alle Très Riches Heures, ne accentuavo il solo aspetto decorativo.

Di questo manoscritto si possono dare altre letture. È naturalmente quella del critico e dello storico dell’arte, che tenta la datazione delle immagini, cerca le influenze iconografiche, valuta la qualità delle esecuzioni... Ma non è questo che voglio suggerire al lettore appassionato ma non specializzato. Tenterò alcuni altri percorsi, che siano percorsi dell’immaginazione più che della filologia e del rigore storico.

Uno di questi percorsi l’ho scoperto più tardi, quando ho incontrato gli studi storici della scuola degli Annales. Le Très Riches Heures sono un documento insostituibile per comprendere la vita materiale, il costume, la società, i gusti dell’epoca. Per questo sono indubbiamente fondamentali le miniature dei mesi, ma dopo questo avvio si possono esplorare anche le altre immagini, alla ricerca di indizi minori, talora nascosti.

Le miniature dei mesi sono una grande riserva di informazione sugli abiti e le armature. Ci raccontano come si imbandiva la tavola, quali cibi e bevande vi apparivano; quale era il rapporto con gli animali domestici, come si svolgevano i lavori stagionali; ci dicono come erano fatti gli strumenti agricoli, come vivevano i contadini e i pastori, quali erano le tecniche di coltivazione dei campi e l’architettura dei giardini. Ci parlano della forma degli alveari, delle bardature dei cavalli, del traino dei carri. E poi ci offrono una rassegna di castelli, di architetture religiose, di cantieri edilizi in attività, ci raccontano di interni di chiese e di palazzi, di statue, di stendardi... I particolari sono così minuti e fedeli che è a partire da questi che alcuni storici dell’arte sono stati in grado di datare le varie immagini.

Le Très Riches Heures sono un documentario cinematografico, una macchina visiva che ci racconta la vita di un’epoca. Nessun film potrà mai eguagliare la fedeltà, il fulgore, la toccante bellezza di questa ricostruzione.

Secondo percorso, la caccia al meraviglioso. Questo manoscritto è povero di marginalia grotteschi, che invece sono così evidenti in altre opere. Solo di rado troviamo un cacciatore o un uccellatore, e quelle rappresentazioni del mondo alla rovescia che a suo tempo Baltrusaitis ci aveva invitato a scoprire sui margini di tanti manoscritti devoti. Come se i miniatori non avessero osato insistere su rappresentazioni “divertenti” per un libro destinato alla preghiera e agli occhi pudichi della famiglia del Duca. Ma si tratta di fare attenzione, perché il gusto medievale per i babouins o (babewyn che si chiamassero) si manifesta invece nelle lettere iniziali. Esse sono anzitutto una galleria di ritratti, ma a cercar bene ecco che qui individuiamo una creatura satiresca e pelosa, proprio all’inizio di un’Ave Maris Stella, lì un orso, là uno storpio, o un cane, o un coniglio, che sembrano volere sorprendere il duca in orazione, distrarlo dalla preghiera, o farlo riflettere su qualche devoto proverbio o parabola che l’immagine avrebbe potuto richiamargli alla mente.

La distrazione. È un terzo percorso. Il libro è destinato alla meditazione, alla orazione e alla concentrazione. Il Medioevo era stato ricco di invettive contro le immagini delle chiese e dei chiostri, che potevano distrarre gli occhi curiosi dal colloquio con Dio. Tutti conoscono la celebre invettiva di San Bernardo contro la scultura romanica: “quid facit illa ridicula monstruositas, mira quaedam de formis formositas ac formosa deformitas? Quid ibi immundae simiae? Quid feri leones? Quid monstruosi centauri? Quid semihomines? Quid maculosae tigrides?” (Apologia ad Guillelmum). E d’altra parte, aggiungeva Bernardo, perché persino quelle immagini di santi e santi troppo belli, quelle reliquie coperte d’oro?

Ma, anzitutto, dal tempo di San Bernardo a quello del duca di Berry sono passati almeno due secoli, e la tensione mistica, il rigorismo si sono attenuati; poi, dal duca, siamo a corte e non in convento; e infine il duca è un curioso, non solo un collezionista attratto dai libri splendidi e dagli oggetti di gran pregio artistico, ma anche un precursore delle Wunderkammern barocche: il suo tesoro conteneva meraviglie come corna di liocorno, denti di balena, noci di cocco, conchiglie dei sette mari e l’anello di fidanzamento di San Giuseppe. Quest’uomo raffinato aveva occhi curiosi e golosi, e della distrazione aveva fatto un’arte. Ed ecco che possiamo immaginarcelo, inginocchiato in orazione, mentre le sue labbra recitano meccanicamente un salmo, con gli occhi che indulgono non tanto sul soggetto sacro dell’immagine, ma sugli sfondi, sui giardini, sui colli, sui castelli, sulle vesti delle dame, sulle fioriture dei margini.

Non dimentichiamo che vi sono poi alcune sequenze, ad esempio quella della passione, che sono di un ritmo e di una drammaticità cinematografica, con bruschi cambi di scena, di ora del giorno, passaggi dalla luce alla tenebra. Non saremo irrispettosi se penseremo al duca di Berry che, nella penombra della chiesa segue avidamente le pagine del suo libro come noi oggi guardiamo la televisione. Splendido compromesso tra misticismo ed estetica, dovere e piacere, meditazione e libero gioco dell’immaginazione, le Très Riches Heures ci aiutano a capire molto del Medioevo, un’epoca in cui le manifestazioni di pubblica virtù si accompagnavano con molta disinvoltura alle manifestazioni di pubblica licenza. Un’epoca in cui forse non si peccava più che nella nostra, ma certamente con minor vergogna, e proprio nel momento stesso in cui si faceva professione di fervore religioso e austera moralità.

Questo oggetto apparentemente così delicato, prezioso, questo capolavoro di oreficeria, questa suprema manifestazione dell’artificio colto e raffinato, è anche un documento profondamente umano perché, a saperlo leggere, ci dice molto sulle debolezze dei nostri antenati tardo medievali – e su quelle dei loro antenati.

Ma l’uomo medievale trovava spesso difficoltà a distinguere il piacere dei sensi dal piacere dell’anima. Aveva un gusto, molto più sviluppato del nostro, per i colori nitidi, ben campiti, squillanti, amava lo splendore dell’oro, lo sfolgorio dei gioielli, l’irrompere della luce, e il suo gioco sul verde dei campi, sull’azzurro dell’acqua, sulle vesti di broccato... Eppure nel trionfo del colore, della luce, dell’oro (e tali sono le Très Riches Heures) vedeva anche una manifestazione della potenza divina. Per noi, il duca di Berry si distraeva seguendo la sinfonia dei rossi e degli azzurri, sfiorava forse con le sue dita l’oro che incrosta ogni pagina di questo libro. Ma nel farlo, lui, aveva la persuasione di celebrare, e in modo gradevolissimo, la presenza della divinità nel mondo. E con bellissima ipocrisia si sentiva virtuoso e umile nella distrazione sontuosa che si concedeva.

Quanto ai fratelli Limbourg, o a chi ha lavorato dopo di loro, non trascuravano di incoraggiare il loro committente: e si veda con quanto gusto per le soluzioni coloristiche quasi astratte riescono a comporre bande monocrome, cadute rosse di dannati, assemblee dorate di beati, cascate azzurre di angeli. C’è una miniatura dove, per ottenere un effetto decorativo di lorica, di dorso squamato di un pesce prezioso, il miniatore ha il coraggio di rappresentare una folla di santi tutti di schiena, in modo che appaiano solo, a tutto tondo, le loro aureole. Il duca fantasticava, e pensava che il paradiso è una teca splendida di gioielli, molto simile al suo tesoro.

Altre letture? Il libro è incompleto, ha delle pagine senza lettere miniate, alcune bianche, segnate solo dalle righe tirate per qualche miniatura a venire. È un libro disomogeneo che rivela mani diverse. Così esso racconta la storia della sua fabbricazione, allude agli anni di lavoro che è costato, lascia intravedere una storia di interruzioni, riprese, correzioni è insomma la rappresentazione (ancora una volta quasi cinematografica) del laboratorio in cui è stato concepito, del lungo tempo di preparazione, esecuzione, ripensamenti, interpolazioni, lungo il quale a poco a poco si è fatto. È il monumento celebrativo elevato al proprio atelier.

Ci sono altre letture possibili. Per esempio la ricerca di tutti i temi iconografici che il Medioevo ha elaborato, e che qui si ritrovano come in una enciclopedia. O la maliziosa identificazione di credenze e pratiche che la chiesa ufficialmente condannava ma che la cultura di corte ammetteva, e penso alla dovizia di riferimenti astrologici, assai precisi, che sottintendono una competenza elaborata, un discorso consueto, e non solo nei tondi che sovrastano i mesi, ma in quella pagina rivelatrice del folio 14, l’Uomo Anatomico, che già fa pensare alle rappresentazioni dei rapporti tra micro e macrocosmo che troveremo nei maghi del Rinascimento, in Robert Fludd o in Athanasius Kircher. Ma non dimentichiamo che il libro viene prodotto pochi decenni prima della nascita di Marsilio Ficino, mentre si stanno prefigurando nella Firenze umanistica le condizioni per una riaffermazione pubblica dell’astrologia e della magia.

Forse occorre arrestarci qui. Forse sarebbe irrispettoso per il lettore suggerire altre chiavi di lettura. Le Très Riches Heures sono un oggetto straordinario proprio perché, opera aperta, incoraggiano mille diversi itinerari dell’immaginazione. Il lettore lo apra a caso, scelga la propria porta di ingresso, e poi percorra da solo questo Hortus Deliciarum.

* Pubblicato come Introduzione a Illuminations of Heaven and Earth. The Glories of the Très Riches Heures du Duc de Berry.New York: Abrams 1988. Traduzione italiana I giorni del Medio Evo. Milano: Rizzoli 1988.

Perché Kircher?

Non ricordo quando ho incontrato il nome di Athanasius Kircher per la prima volta in vita mia, ma certamente ricordo quando ho incominciato a sfogliare i suoi libri per trarne alcuni dei suoi fantasiosi iconismi. Era verso la fine del 1959, quando incominciai a raccogliere materiale per una Storia figurata delle invenzioni che poi uscì presso Bompiani, e per la quale non avevo girato soltanto biblioteche ma anche archivi di musei della scienza, come quello (fornitissimo) del Deutsches Museum di Monaco.

Perché ricordo questo fatto, che di per sé interesserebbe solo una mia inauspicabile autobiografia? Per dire che all’epoca Kircher era ricordato solo come anticipatore di macchine futuribili, quali la fotografia o il cinema, come un Verne ante litteram, e per il resto i suoi testi giacevano appunto nelle biblioteche, consultati da qualche surrealista in ritardo e da qualche cacciatore di testi bizzarri e desueti come Baltrusaitis. Se guardo le bibliografie dello Athanasius Kircher S.J., Master of a Hundred Arts di P. Conor Relly (Wiesbaden, Edizioni del Mondo, 1974) e di Valerio Rivosecchi (Esotismo in Roma barocca, Roma, Bulzoni, 1982) trovo una lista di titoli, per la maggior parte articoli, che è inferiore a quella delle opere kircheriane. Da noi direi che il primo interesse seriamente manifestato su Kircher, che pure a Roma aveva lavorato e vissuto, sono gli atti del convegno su Kircher del 1985 (Enciclopedismo in Roma barocca, Venezia, Marsilio, 1986) dove non a caso appaiono tra i prefatori dei kircheriani “antemarcia” come Eugenio Battisti e Giulio Macchi.

Come elemento di curiosità, quando all’inizio degli anni ottanta ho iniziato a collezionare tutte le opere del fuldense, si poteva avere un Kircher per qualcosa come ottocentomila lire. Oggi, senza parlare dell’Oedipus completo, della China, del Mundus Subterraneus o della Musurgia, che stanno marciando verso il tetto delle varie decine di milioni ciascuno, costano qualche milione anche le cose minori, senza illustrazioni, come l’Archetypon Politicum, modestissimo dal punto di vista della bibliofilia.

Cito questi dati per dire che, al di là dell’attenzione dei dotti, negli ultimi venti anni si è scatenata su Kircher l’attenzione di amatori e bibliofili. Le ragioni non sarebbero strane, i libri di Kircher sono splendidamente illustrati, ma i vecchi cataloghi dell’Ottocento li davano come poco richiesti, e quindi anche il concetto di illustrazione apprezzabile varia nel corso degli anni

Il fascino di Kircher è dovuto anche alla difficoltà di classificarlo. Si può mettere insieme una lista di affermazioni sbagliate che Kircher ha fatto nel corso della sua vita e libro per libro, e ridurre il povero gesuita a un autodidatta privo di senso critico che non ne ha mai imbroccata una giusta. In questo senso Kircher apparterebbe a quella categoria detta in francese “les fous littéraires”, che comprende anche i folli scientifici, su cui esistono cataloghi e biblioteche specializzate. Triste vicenda per un uomo che, potentissimo nel suo Ordine, e stimatissimo dai contemporanei, comprese persone come Leibniz, si vederebbe relegato a item di quegli stessi musei di teratologie naturali di cui egli stesso era stato iniziatore, portento buono solo per una Wunderkammer.

D’altra parte nelle sue opere quello che oggi chiameremmo dato scientifico e la concessione al fascino dell’eccezionale, insieme con ipotesi avventurose e certamente avventate, si mescolano spesso in modo inestricabile. Si vedano per esempio i suoi studi di egittologia, dal Prodromus coptus sive aegyptiacus (1636) e l’Obeliscus Pamphilius (1650), attraverso il monumentale Oedypus Aegyptiacus (1652-54) sino alla Obelisci aegyptiaci interpretatio hieroglyphica (1666) e alla Sphynx mystagoga (1676). Kircher ha studiato gli obelischi romani e ogni altra testimonianza che poteva trovare a Roma, e ne ha tratto una teoria per la decifrazione del linguaggio geroglifico appassionante ma totalmente falsa. Eppure, senza i disegni dei suoi libri, Champollion non avrebbe potuto studiare a fondo lo stesso argomento e trovare (ma lui aveva tra le mani anche la stele trilingue di Rosetta) la chiave giusta per leggere tutte quelle immagini. Così che ancora oggi Kircher viene definito il padre dell’egittologia anche se ne è stato un padre troppo fantasioso.

Potremmo essere generosi e accreditargli solo le cose che ha azzeccato. In China (1667), grazie ai rapporti dei suoi confratelli gesuiti, raccoglie e documenta una straordinaria varietà di notizie su quel paese, interpretandole a modo suo molte ne sbaglia, tradito anche dalla fantasia (che peraltro egli sempre contribuiva ad accendere) degli incisori però aveva capito che gli ideogrammi cinesi avevano origini iconiche (pare strano, ma personaggi illustri come Bacone o Wilkins non lo avevano sospettato), e aveva intuito il futuro di una sorta di antropologia culturale fatta andando per continenti remoti e ignoti e raccogliendo ogni tipo di documento (Kircher è stato un bell’esempio di esploratore infaticabile che, senza muoversi da casa, faceva lavorare i propri confratelli).

Nell’Ars magna lucis et umbrae (1646), e specie nell’edizione 1671, tra invenzioni di teatri catottrici e studi sciaterici, arriva a un passo dall’inventare il cinema, nell’Ars magna sciendi (1669), di ispirazione lulliana e denso di analisi combinatorie, avanza suggestioni che impressionano ancora oggi gli studiosi d’informatica – anche se in fin dei conti su entrambi gli argomenti era un epigono, la camera oscura non l’aveva inventata lui e ne aveva già parlato Della Porta, alla lanterna magica aveva pensato Huygens, Thomas Rasmussen Walgenstein l’aveva già resa popolare, e sui prodigi della combinatoria lo aveva preceduto Raimundo Lullo.

Però certamente Kircher aveva capito che e come si doveva usare il microscopio, e che le pestilenze erano dovute a microrganismi; aveva avuto timore di essere galileiano ma aveva tentato quella soluzione terzaforzista proposta da Tycho Brahe che, per l’epoca, non era affatto disprezzabile – falsa ma ingegnosa. Per non dire delle osservazioni sui vulcani, dove tra l’altro era andato anche di persona – tanto che recentemente sono stati proprio i vulcanologi a ripubblicare una bella anastatica del Mundus Subterraneus.1

D’altra parte l’opera era stata presa molto sul serio anche ai suoi tempi, persino da coloro che non la condividevano che in piccola parte (Huygens diceva che Kircher “doveva essere apprezzato più per la sua pietà che per la sua abilità”). In ogni caso, ancora prima che il libro apparisse, Oldenburg ne scriveva a Boyle, Spinoza ne aveva inviato una copia a Huygens, ne fa cenno da qualche parte Stenone, lo stesso Oldenburg ne scrive una recensione nel primo volume di The Philosophical Transactions of the Royal Society e nel numero successivo stampa una sezione del libro (An experiment of a way of preparing a liquor that shall sink into a color the whoel body of marble...).2

Naturalmente anche in quest’opera Kircher non si smentisce: ingordo e insaziabile ci parla della luna e del sole, delle maree, delle correnti oceaniche, delle eclissi, di acque e fuochi sotterranei, di fiumi, laghi e sorgenti del Nilo, di saline e miniere, di fossili, metalli, insetti ed erbe, di distillazione, fuochi d’artificio, generazione spontanea e pansmermia, ma con la stessa disinvoltura ci racconta (e ci fa vedere) di draghi e di giganti (e d’altra parte naturalisti illustri, da Aldrovandi a Johnston, dei draghi non potevano fare a meno – e infine Kircher stesso mostra di sapere qualcosa dell’iguana, e un naturalista che abbia visto o sentito parlare dell’iguana può prendere sul serio anche i draghi).

Ma di tutti gli aspetti del Mundus, al di là del suo interesse geologico, ve n’è uno di enorme importanza per la storia della cultura e vorrei dire per l’affermazione di una mentalità scientifica contro il delirio occultistico.

Nell’undicesimo libro del Mundus Kircher decide di fare i conti con l’alchimia. Lo fa da storico e da studioso sperimentale: da un lato va a rileggersi tutta la tradizione alchemica, dalle fonti antiche (ovviamente si parte da Ermete Trismegisto, ma non si trascurano fonti copte ed ebraiche, nonché la tradizione araba) allo pseudo Lullo, ad Arnaldo di Villanova, a Ruggero Bacone, a Basilio Valentino e via dicendo; dall’altro allestisce nel suo laboratorio (e ci fa vedere per immagini) varie specie di forni, colleziona ricette secolari, le prova, ne critica la vaghezza o vanità, ed è chiaro che per provare (e riprovare) tutta una serie di precetti tradizionali, egli aveva accolto alla sua corte una pletora di gaglioffi per farsi insegnare i loro marchingegni, e comprenderne alla fine i fondamenti che oggi diremmo “razionali”, ovvero sperimentalmente spiegabili senza ricorrere ad alcuna ipotesi di Pietra Filosofale.

Così Kircher distingue tra chi crede la trasmutazione alchemica impossibile (o possibile solo per intervento divino o diabolico) ma persegue egualmente le ricerche chimiche per altri scopi e fa della metallurgia, da chi vende imitazioni di oro e argento e fa commercio della propria cialtroneria.

Non era cosa da poco per i suoi tempi, misurarsi criticamente con Paracelso, e soprattutto (ciò che fa nel capitolo settimo dell’undicesimo libro) scagliarsi contro autorità riconosciute come Sendivogio o Robert Fludd, e vibrare sciabolate quasi esorcistiche contro la tradizione rosacrociana che stava da circa quarant’anni seducendo mezza Europa. Va bene, era in corso una lotta della cultura controriformista contro la tradizione protestante da cui provenivano i primi libelli rosacroce, ma insomma, Kircher si batte per una visione più razionale e sperimentale della chimica a venire, in pieno Seicento, e quando la tradizione alchemica sarebbe continuata tranquillamente sino ai massoni dell’Ottocento e – a giudicare di tanti testi in circolazione ancor oggi, che celebrano la saggezza della Tradizione – non è ancora morta del tutto, almeno nei suoi aspetti mistico-ermetici.

Si potrebbe allora concludere che il libro mastro kircheriano (vorrei dire la sua Tariffa), rimane in pari: tante ne ha indovinate, tante ne ha sbagliate, e i maligni insinueranno che, essendosi occupato proprio di tutto, e per decine di migliaia di pagine, statisticamente non poteva che accadergli così, di imbroccarne un poco sì e un poco no, come se giocasse d’azzardo.

Però rimane aperta la domanda perché Kircher ci affascini. Io direi che ci affascina per la stessa ragione per cui tante ne ha sbagliate. Per la sua voracità, per la sua bulimia scientifica, per l’ansia enciclopedica, e per il fatto di aver servito la propria passione mentre si trovava, e non per colpa sua, a metà strada tra due epoche dell’enciclopedia. La prima, quella greco-romana (si pensi a Plinio) e medievale, per cui l’enciclopedista raccoglieva tutto quello che aveva sentito dire, senza preoccuparsi di verificarlo; la seconda, quella dell’Encyclopédie illuministica, in cui l’enciclopedista presiedeva al lavoro di una moltitudine di esperti e ciascuno parlava solo di ciò che conosceva per esperienza diretta. Kircher parla di tutto, anche per sentito dire, ma di tutto vuole dare la prova, l’immagine, il diagramma, le leggi di funzionamento, le cause e gli effetti. Arrivato in ritardo, o in anticipo, Kircher parla in tono scientifico di cose su cui s’inganna, e non rinuncia a parlare su tutto.

Certamente la ragione principale del suo fascino è ciò a cui non ha posto mano direttamente – ma ha certamente posto mente: gli iconismi.

Quest’uomo ha saputo mobilitare l’immaginazione dei suoi collaboratori spingendoli a inventare, insieme a lui, il più straordinario dei teatri barocchi. Quanto di Kircher ci sia dietro a questa impresa ci dice il fatto che, da libro a libro, sembra quasi che sempre la stessa mano abbia disegnato quelle immagini. Negli iconismi di Kircher la pretesa dell’esattezza scientifica produce il più dissennato delirio della fantasia, così che diventa veramente impossibile, più che nell’opera scritta, discernere il vero dal falso.

In fondo non è un caso se Kircher era stato amato da alcuni surrealisti. Surrealistico è il suo modo di affrontare lo scibile. Egli è un cacciatore di meraviglioso, e la sua poetica, e la giustificazione per tanti suoi errori, la si può trovare in quella dedica che faceva all’imperatore Ferdinando III all’inizio del terzo libro dell’Oedipus, dove le configurazioni geroglifiche diventano una sorta di dispositivo allucinatorio:

Svolgo davanti agli occhi tuoi, o Sacratissimo Cesare il polimorfo regno del Morfeo Geroglifico: dico un teatro disposto in immensa varietà di mostri, e non nudi mostri di natura, ma così adornato delle Chimere enigmatiche di un’antichissima sapienza che qui confido gli ingegni sagaci possano rintracciare smisurati tesori di scienza, non senza vantaggio per le lettere. Qui il Cane di Bubasti, il Leone Saitico, il Capro Mendesio, il Coccodrillo spaventevole per l’orrendo spalancarsi delle fauci scoprono gli occulti significati della divinità, della natura, dello spirito della Sapienza Antica, sotto l’umbratile gioco delle immagini. Qui i sitibondi Dipsodi, gli Aspidi virulenti, gli astuti Icneumoni, i crudeli Ippopotami, i mostruosi Dragoni, il rospo dal ventre rigonfio, la lumaca dalla contorta conchiglia, il bruco irsuto e innumerevoli spettri mostrano la mirabile catena ordinata che si dispiega nei sacrari della natura. Si presentano qui mille esotiche specie di cose in altre e altre immagini trasformate dalla metamorfosi, convertite in figure umane e di nuovo restaurate in se stesse in mutuo intreccio, la ferinità con l’umanità, e questa con l’artificiosa divinità; e infine la divinità che, per dirla con Porfirio, scorre per l’intero universo, ordisce con tutti gli enti un mostruoso connubio; dove ora, sublime per il volto variegato, levando la cervice canina, si palesano il Cinocefalo, e il turpe Ibis, e lo Sparviero avvolto da maschera rostrata... e dove ancora allettando con virgineo aspetto, sotto l’involucro dello Scarabeo, si cela l’aculeo dello Scorpione... [Questo e altro, elencato per quattro pagine] in questo pantomorfo teatro di Natura contempliamo, dispiegato davanti al nostro sguardo, sotto il velame allegorico di una occulta significazione.

È difficile classificare Kircher, che ha vissuto tutta la sua esistenza con un piede nel suo “pantomorfo” teatro, e un altro nel controllo de visu dei dati che raccoglieva. Personaggio barocco se mai ve ne furono, Arcimboldo della storia della scienza, ha finito ai giorni nostri con l’incantare più i sognatori che gli scienziati.

Ma in fondo quello che dobbiamo a Kircher è l’idea che sulla scienza e sulla tecnica si possa sognare. Cosa che ciascuno scienziato sa, salvo che oltre un certo limite si trattiene, e cosa che sa ciascun autore di fantascienza, salvo che si pone per progetto di andare al di là del limite. Anche qui Kircher viaggia a metà strada, tra la preoccupazione di esattezza dello scienziato (oltre la quale cerca però sempre di andare) e la fantasia dell’affabulatore (che però cerca sempre di limitare).

Forse noi rileggiamo (e soprattutto ri-guardiamo) Kircher proprio per questa tensione che egli è stato felicemente incapace di comporre.

1 Mundus Subterraneus in XII Libros digestus. Editio Tertia, a cura di Gian Battista Vai. Bologna: Forni 2004.

2 Cfr. P. Conor Reilly, Athanasius Kircher S.J., Master of Hundred Arts. Wiesbaden-Rom: Edizioni del Mondo 1974.

Il mio Migne, e l’altro *

La mia storia con l’Abate Migne incomincia così. Come succede in ogni classe liceale si fanno giochini insensati, tanto per far passare il tempo e garantire la coesione sociale. Noi, per ragioni ormai imponderabili, negli anni di liceo, ci eravamo divisi in due gruppi, ciascuno dei quali aveva scelto una parola magica, e il gioco consisteva nel vedere ogni mattina chi entrava per primo in classe e scriveva sulla lavagna il motto, lo shibboleth, il mantra, la parola d’ordine della sua cosca. Anche la scelta della parola magica era stata casuale, chi sa mai come nascono queste cose...

Il primo gruppo era stato affascinato dal termine boletus satanas un fungo velenoso) ascoltato durante la lezione di scienze, il secondo (il mio, e chissà perché) aveva colto come strano, misterioso, evocativo il nome Migne, pronunciato dal professore di filosofia che (evidentemente eravamo al primo anno) parlandoci della filosofia patristica e medievale ci aveva citato, come monumenti imprescindibili, le due raccolte della Patrologia Greca e della Patrologia Latina del Migne. Forse ci aveva impresssionato il numero dei volumi, 247 per le due serie della Patrologia Greca e 221 per la Patrologia Latina – e dire che non li avevo ancora visti dal vivo, nel loro maestoso formato in-folio, capaci di occupare tutta una parete di biblioteca, o l’intera sala, a seconda della grandezza del locale.

In ogni caso, ci si precipitava alla lavagna e si scriveva o Migne o Boletus. Non ricordo quale gruppo abbia realizzato il maggior punteggio (alla fine, di questi giochi ci si stanca), ma certamente – e ripeto, per ragioni imponderabili – l’Abate Migne era entrato nella mia vita. A differenza di quello che è accaduto agli altri miei compagni di classe, ci è restato. Forse era un segno del cielo: ho poi dato la tesi sulla filosofia medievale, di medioevo ho continuato a occuparmi nel corso della mia vita, e la consultazione del Migne è diventata abitudine frequente. E si fa presto a dire che ormai molti dei testi pubblicati da Migne sono riapparsi negli anni seguenti (anzi, possiamo parlare ormai di un secolo e mezzo) in edizioni critiche più sicure. Anche per quei testi, per una prima presa di visione, il Migne rimane fondamentale, perché li si trova tutti insieme, e non parliamo di quelli che ancora sono reperibili soltanto nelle sue pagine. Tanto è vero che l’editore Brepols continua a ristampare il Migne, e le biblioteche lo comperano.

Come collezionista di libri antichi mi sarebbe piaciuto avere un giorno tutto Migne, almeno la Patrologia Latina. Difficile trovarne una collezione completa da qualche antiquario, ma a mettersi a cercare, un volume qui e uno là, senza badare che siano tutti della stessa covata, si potrebbe mettere insieme, e la cifra finale non sarebbe del tutto astronomica. Quella che è siderale è la cifra del nuovo appartamento, almeno tricamere, che il collezionista dovrebbe comperare o affittare per metterci i volumi.

Ormai il sogno è realizzabile per via digitale: a una cifra che anni fa era già di cinquantamila dollari si può acquistare tutto il Migne latino in cinque dischetti (oppure abbonarsi alla consultazione via Internet), con il testo originale, prefazioni, apparato critico e indici. Con due tocchi di tastiera si possono trovare tutte le occorrenze di un dato termine e stampare i testi. Favoloso.

La mia storia con Migne non finisce qui. Ero già stupefatto di come un sol uomo, lavorando su manoscritti o antiche edizioni preottocentesche, trascrivendo a mano, poi consegnando quei fogli al tipografo, e infine correggendo le bozze, potesse aver portato a termine quella impresa. Che si fosse avvalso di qualche collaboratore non dubitavo (non sapevo che fossero centinaia), e tuttavia ammiravo questo umile prete, nato all’inizio del XIX secolo, e morto settantacinque anni dopo, e mi commuovevo nel pensare agli occhi suoi ormai consunti, chino sulle sue sudate carte a consumare la vita nell’ombra di qualche chiostro (anche perché alle nostre orecchie italiane l’Abbé francese, che alla fin fine vuole dire don, prete secolare, reverendo, mi suonava come abate, e quindi al Migne attribuivo monacali virtù, come all’ancor più venerabile Mabillon).

Salvo che, crescendo in età e sapienza (nonché in abilità collezionistica) ho scoperto che le due Patrologie, nel curriculum del Migne, erano solo la punta dell’iceberg. Sotto ci stavano, tanto per citare qualcosa, uno Scripturae Sacrae Cursus Completus di 28 volumi, un Theologiae Cursus Completus sempre di 28 volumi, le Démonstrations Évangéliques di 20 volumi, la 1 Intégrale et Universelle des Orateurs Sacrés in due serie, di ben 102 volumi, la Summa Aurea de Laudibus Beatae Mariae Virginis, di 13 volumi, la Encyclopédie Théologique, di 171 volumi, per non dire di altre raccolte di scritti di San Tommaso, Santa Teresa, e altri. Avevo infine scoperto che il Migne, che evidentemente nulla si negava, aveva anche pubblicato – come tomo 48 della Encyclopédie Théologique – un Dictionnaire des Sciences Occultes (e questo ce l’ho), che contiene in appendice un Traité Historique des Dieux et des Démons du Paganisme, di Benjamin Binet e una Réponse à l’Histoire des Oracles de M. de Fontenelle, del Reverendo Padre Baltus. È vero che avevo chiarito che si trattava di una riedizione del Dictionnaire Infernal di Collin de Plancy, arricchito quasi a collage di articoli presi da altre pubblicazioni dell’autore, ma anche solo ripubblicare opere altrui corrette e aggiornate era pur sempre un bel tour de force.

Sino a che non ho incontrato Howard Bloch, proprio quando aveva appena pubblicato il libro che vi accingete a leggere in traduzione italiana, e di cui mi ha subito fatto grazioso omaggio. Una rivelazione. Migne non era solo un genio dell’organizzazione editoriale e della finanza, era anche uno sfruttatore di manodopera intellettuale e – diciamolo pure – un uomo di pochissimi scrupoli, per non dire un avventuriero – e chissà che cosa non sarebbe diventato se, invece di trafficare con testi sacri e pergamene vetuste, avesse potuto lavorare con catene televisive e reti Internet.

Cosicché il libro di Bloch si presenta di incredibile e avvincente lettura anche per chi non abbia mai preso in mano un volume della Patrologia, e sia insensibile alle bellezze di quel latino medievale, corrotto e fatiscente, che si scioglieva sulla lingua decadente del Des Esseintes di À rebours.

Spero proprio che questa straordinaria figura di cialtrone geniale, benefattore delle umane lettere e di se stesso, possa affascinare il lettore quanto ha affascinato (anche se un poco deluso, perché quando i miti crollano lasciano un poco d’amaro in bocca) me.

* Pubblicato come introduzione a R. Howard Bloch, Il Plagiario di Dio.Milano: Sylvestre Bonnard 2002.

Lo strano caso della Hanau 1609 *

Quando il collezionista ha tra le mani la copia di un libro raro, a lungo desiderato, e si appresta a una qualche forma di collazione, freme di solito al pensiero di una semplice alternativa: o la sua copia corrisponde alla descrizione dei cataloghi più accreditati – ed è il trionfo – o appare mancante di qualcosa – ed è la disperazione. In rari casi lo sconforto si colora di una tenue speranza, se la mancanza, per esempio di una tavola, consente una ricerca per arrivare a una made-up copy che soddisfi almeno ai criteri della completezza, se non a quelli della perfezione.

Ma c’è una terza possibilità: che la copia sappia di incompiuto, ma che i cataloghi discordino sui criteri di completezza, e anche le più avventurose collazioni diano risultati diversi. In tali casi la ricerca diventa duplice, da un lato mira a ritrovare l’elemento o gli elementi mancanti, dall’altro a mettere d’accordo le apparenti discrepanze dei cataloghi. Doppia vicenda poliziesca, che potrebbe persino concludersi vittoriosamente in ogni caso, quando si scoprisse che del libro non esiste copia standard perché, per varie vicende, tutte le sue copie sono per definizione composite.

È questo il caso dell’Amphitheatrum Sapientiae Aeternae di Heinrich Khunrath, noto in genere nella edizione Hanau 1609. Forse la mia indagine non apporta nulla di nuovo per quanto riguarda l’Amphitheatrum in quanto “tipo”, ma probabilmente dice qualcosa circa alcune delle sue “occorrenze” (o copie fisiche) – e certamente costituisce una riflessione sul modo in cui i bibliografi e gli storici ne parlano: si ha l’impressione che la maggior parte di essi abbiano girato intorno, come falene impazzite, alla pallida luce di alcune descrizioni precedenti, alcuni avendo positivamente visto una sola copia, altri nessuna. La storia di molte dotte collazioni è spesso una pura storia di citazioni intertestuali a catena: i cataloghi non parlano dei libri ma di altri cataloghi. Come diceva Dennis Duveen nel presentare la seconda edizione della sua Bibliotheca Alchemica et Chemica, spesso espressioni come “Not in Duveen” e “Not in Ferguson” significano soltanto che il collezionista non aveva né la voglia né i soldi per procurarsi quel libro, e che dunque l’assenza di una edizione non significa che, come dicono altri cataloghi, si tratti di un’opera “de la plus insigne rareté”.

Khunrath

Brunet (III, 658) dice che l’Amphitheathrum è “opera singolare ma poco ricercata”. Ma nel secolo precedente Lenglet du Fresnoy in bibliografia avverte che “malgré plusieures éditions, ce libre ne laisse pas d’être assez rare”. Direi che l’opera è certo singolare, ora è ricercata, ma non si può dire che sia rarissima, almeno nell’edizione Hanau 1609 che appare in varie collezioni e biblioteche.1 Il problema, lo vedremo, è come vi appare.

Ammettendo comunque che non sia stata molto ricercata sino a tempi più recenti, procedo con alcune informazioni essenziali.

Heinrich Khunrath, talora Kunrath, altre volte Kuhrath, Kunraht, Cunrath, Cunrad, Conrad (così da essere scambiato con suo fratello Conrad Khunrath, vedi Ferguson I, 462-464) nasce a Lipsia nel 1560, studia medicina a Lipsia e a Basilea, dove segue corsi di spagirica insieme al mistico protestante Johannes Arndt (cfr. BPH, 33). Alchimista ma, specialmente nell’Amphitheatrum, più sul versante simbolico che su quello operativo.2 Muore a quarantacinque anni nel 1605. Nel ritratto che appare nell’Amphitheatrum Sapientiae Aeternae, Khunrath sembra assai più vecchio, ma a quei tempi si inseniliva in fretta, specie se si usavano i farmaci consigliati da Paracelso.

Per l’Amphitheatrum riporto la scheda che descrive la mia copia, che è da ritenersi completa.

Amphitheatrvm Sapientia Aeternae, Solivs Verae, Christiano-Kabalisticvm, Divino-Magicvm, nec non Physico-Chymicvm, Tertrivnvm, Catholicon: instructore Henrico Khvnrath Lips: Theosophiae amatore fideli et Medicinae utriusq. Doct: Hallelu-Iah, Hallelu-Iah! Hallelu-Iah. Phy diabolo! E Millibvs Vix Vni...

Anno MDCII. Cvm Privilegio Caesareae Majest: Ad Decennivm; A Prima Impressione Die. (Colophon: Hanoviae Excudebat Guilielmus Antonius MDCIX. Cum S.ae Caesareae Majestatis Privilegio ad decennium à prima impressionis die.)

Folio (3019,5). ∏2, A-G4, H2, A-2E4; pp. 60 + 222, + (2), 1 cnn. Errori numerazione nella seconda parte: 62 come 42, 147 come 145, 148 come 146, 149 come 147, 150 come 148, 191 come 192, 192 come 193, 217 come 127.

Frontespizio inciso, ritratto, 9 tavole doppie ft, 1 tav. ft con ossifraga, due tabelle doppie ft (di cui una incisa). Le tavole, nell’ordine di rilegatura a inizio volume, sono: Fts anonimo, Ritratto di Johan Diricks; cinque tavole doppie rettangolari senza nome dell’incisore e con varie espressioni attribuite alla ispirazione di K., (Adumbratio Gymnasii, Designatio Piramidum o Tabula Smaragdina, Ypothyposis Arcis o Cittadella, Porta Amphitheatri, L’Autore e i suoi nemici); quattro tavole doppie circolari firmate da Khunrath come “inventor”, da van der Doort come sculptor, e l’ultima anche da H. F. Vriese come pictor (Cristo, Adamo Androgino, Rebis, Laboratorio di K.); sigillo con ossifraga, anonimo. Capilettera e fregi.

Le tavole sono elencate nell’ordine in cui appaiono nella mia copia. Come vedremo, non ho trovato due copie che seguano lo stesso ordine e l’opinione di chi ha descritto successioni “ideali” discorda. Siccome inoltre i vari autori danno a queste tavole nomi fantasiosi, mi sono attenuto, per le tavole rettangolari, alla espressione che appare all’inizio della didascalia (tranne per la tavola ormai universalmente nota come tavola dei Nemici) e, per le tavole circolari, a quella che mi sembra la vulgata più corrente. Talora la tavola col Cristo (che pure essendo a braccia allargate, non è in croce), viene interpretata come tavola della rosacroce, dato che qualsiasi struttura circolare con una parvenza di simmetria raggiata viene sempre vista dagli occultisti come una rosa. Mentre non ci sono dubbi nell’identificare la tavola del Laboratorio, per le altre due si va sul vago. La seconda rappresenta una figura con due volti inserita in una struttura triangolare, e viene comunemente intesa come la tavola di Adamo ed Eva o dell’Adamo androgino. La terza tavola rappresenta indubbiamente il Rebis, raffigura in basso il caos primigenio, parla della Pietra Filosofale.

D’altra parte è difficile riconoscere le tavole dalla descrizione che ne dà Khunrath alla fine del volume. In effetti, come si vedrà più avanti, le tavole circolari si identificano solo a partire dalla edizione 1595. E su questa base si potrà affermare che la successione che appare nella mia copia è quella autorizzata dal testo.

In verità tutto il tono dell’opera è estremamente ermetico. Si tratta di un discorso ad alta temperatura mistica, corredato di invocazioni, esortazioni, interiezioni esorcistiche, spesso in elaborata composizione tipografica, che descrive sette gradi di ascesi e di scoperta della sapienza. Il testo procede commentando 365 versetti biblici (dai Proverbi e dalla Sapienza), uno per ogni giorno dell’anno, dati in due versioni parallele (Vulgata e nuova traduzione dal greco o dall’ebraico), e si conclude con una Isagoge o commento alle quattro tavole circolari. Abbondano riferimenti all’alchimia, alla Cabbala, alla dottrina delle segnature e ad altri temi correnti dell’ermetismo rinascimentale e barocco; in particolare l’armamentario alchemico è usato come metafora mistico-ascetica (rapporto di analogia tra Lapis e Cristo).

Sullo stile di quest’opera ci sono stati giudizi severi sin dall’inizio. Johann Anton Söldner in Fegfeuer der Chymisten dice che lo Amphitheatrum dimostra l’arroganza e l’ignoranza del suo autore, che non è ispirato dallo spirito divino ma dal demone dell’orgoglio. Se Fictuld (Probier-Stein) lo tiene in grande onore, Carbonarius, l’autore pseudonimo di Beytrag zur Geschichte de höhern Chemie, lo attacca con ferocia. Per Lenglet du Fresnoy il libro è molto allegorico e fuor della portata della maggioranza dei lettori (Histoire de la philosphie hermétique III, p. 198), perché Khunrath “par une obscurité affectée, a pretendu se faire passer pour un grand homme”. È vero, aveva anche annotato Lenglet, che presso questi scrittori l’eccessiva chiarezza è ritenuta nociva (I, p. 382).

Waite (1924, 61) lamenta che Kurath tendesse alla “disastrous literary fashion” diffusa da Paracelso, mescolando il latino col tedesco e viceversa, così che la sua lettura diventa una croce per il lettore che conosce una sola di queste lingue.

Se il testo è oscuro, altrettanto oscure ma decisamente affascinanti sono le tavole. Sono complesse costruzioni verbo-visive, dove cartigli, didascalie, composizioni a rebus si fondono con rappresentazioni simboliche. Le tavole rettangolari rappresentano paesaggi surreali, itinerari iniziatici, e culminano nell’accesso alla Porta Amphitheatri, una sorta di ascesa dantesca verso un varco magico che, come vedremo, ricorda a molti la tomba di Christian Rosenkreutz come viene descritta nella Fama rosacrociana. Tre delle tavole circolari sono allegorie alchemiche, la quarta rappresenta il celeberrimo oratorio-laboratorio dove l’alchimista sta inginocchiato in adorazione, in un ambiente carico di simboli matematici, musicali, architettonici e chimici. Almeno tre volte (Frontespizio, Ipotiposi, Nemici) ritorna il simbolo della Monas Hyerogliphica di John Dee.3

Facile immaginare le illazioni, le congetture, le decostruzioni interpretative che questo materiale illustrativo ha incoraggiato nel corso dei secoli, e in particolare in riferimento all’influenza che può aver avuto sui presunti estensori dei manifesti rosacrociani e (tra questi) su Johann Valentin Andreae come autore delle Nozze Chimiche di Christian Rosenkreutz.

Da un lato i testi rosacrociani sembrano attaccare Khunrath: la Confessio (1615), contiene un invito a rifiutare i “Pseudoschymicorum... libellos quibus vel SS. Triade ad futilia abuti lusus: vel monstruosis figuris atque aenigmatibus homines decipere jocus: vel credulorum curiositas lucrum est: quales aetas nostra plurimum produxit: unum ex iis praecipuum Amphitheatralem histrionem...” (XII)

Andreae (in Mythologia Christiana, V, p. 45) racconta l’apologo di un ciarlatano che viene sulla pubblica piazza ad attirar la gente con suono di tromba per vendergli medicine miracolose, e quando la gente subodora la truffa lui risponde: “Questo è il segreto più segreto di tutti segreti, la mia cosa è invisibile per tutti salvo che per gli adepti di quest’arte, e neppure uno tra mille è in grado di concepirla.” Andreae cita in latino “ex millibus uni”. E il frontespizio dell’Amphitheatrum reca il motto “e millibus vix uni”.

Inoltre Andreae commenta il discorso del ciarlatano con espressioni come “Chaos Magnesiae, Pyramis Triumphalis, bonum Macrocosmicum, Arx primaterialis, Antrum Naturae, Gymnasium Universale, Porta Sapientiae, Speculum Legis, Oratoriolaboratorium, rejectio binarii und ähnliche Orbimperipottendificuncta, undiquo-quoversum bombitaranta-rantia, verbocinatoria und so fort...”. L’allusione allo Amphitheatrum sembra esplicita. È curioso che lo stesso episodio venga quasi letteralmente riportato da Comenio ne Il labirinto del mondo (scritto nel 1623 e pubblicato, in ceco, nel 1631) e che Frances Yates (1972, p. 197 ed. it.), riportando per esteso il brano, ne ignori l’ascendenza e soprattutto non identifichi le palesi citazioni da Khunrath, ritenendo invece che siano riferimenti a Fludd.

Ma come conciliare quest’attacco con l’idea – fissa per i rosacrociani successivi – che Khunrath sia stato il loro ispiratore? Come conciliarlo con l’affermazione di Andreae (Mithologia Christiana, III, p. 23) che pone Khunrath tra gli “insolitae eruditionis homines”?

Inoltre, l’ispiratore di Andreae è Arndt, e Arndt in vari scritti si esprime con entusiasmo nei confronti di Khunrath. Non solo, gli viene attribuito (cfr. BPH, 38-40) l’entusiastico commento alla prima versione dell’Amphitheatrum e alle tavole circolari (che Benedictus Figulus pubblica, anonimo, come appendice a Khunrath, De igne magorum et philosophorum, nel 1608).

Di fronte a queste ambiguità le spiegazioni si annullano tra loro. Se si considera che Andreae talora parla bene di Khunrath, questo dimostrerebbe che non è lui l’autore della Confessio. Ma come abbiamo visto, ne parla anche male, e quindi concorda con la Confessio. Per finire, l’attacco a Khunrath compare nella edizione latina 1615 della Confessio e scompare nelle successive traduzioni tedesche, tranne una – ed è curioso che scompaia anche nelle tre traduzioni che ho sott’occhio (Yates 1972, Gorceix 1970, Wehr 1980) evidentemente fatte su edizioni posteriori.

BPH (p. 40) suggerisce che Andreae non amasse Khunrath, rispettasse Arndt, ma credesse che il judicium attribuito ad Arndt fosse una manipolazione di Figulus. Spiegazione molto contorta, che non chiarisce perché Andreae altrove parli bene di Khunrath. Waite (1924, p. 63) confessa candidamente di aver avuto notizia da un certo dr. Cantor4 che nella Confessio ci sarebbe un attacco a Khunrath, ma tende a escluderlo per le seguenti ragioni: una persona per bene come Khunrath non poteva essere accusata di ciarlataneria, e all’epoca del presunto attacco egli era morto da dieci anni e non si vede perché lo si dovesse attaccare.5

Il dibattito potrebbe continuare a lungo se non si prendono in considerazione almeno tre fattori. Anzitutto il tono ironico e satirico che domina nella maggior parte delle opere di Andreae: si può essere stati influenzati da un autore e tuttavia intravederne gli eccessi, e l’uso eccessivo che altri ne fanno, da cui l’attacco, quasi sotto forma di in-joke. In secondo luogo il fatto che Andreae a un certo punto deve dimostrare a tutti che non è l’autore dei manifesti rosacrociani, e in ogni caso che non pensava che fossero usati da torme di alchimisti e avventurieri dell’occulto: per cui accentua le riserve che pure erano già contenute nella Confessio, come per dire che – sì – Khunrath gli aveva fornito immagini e metafore per le sue Nozze Chimiche, ma egli non era disposto a sottoscrivere la sua teosofia ultravioletta. Infine Andreae parla bene di Khunrath in generale, e poi appunta i suoi strali sull’Amphitheatrum. Perché? Forse perché non sa se sia autentico.

Le edizioni dell’Amphitheatrum

Quando gli si parla di una copia dell’Amphitheatrum, la prima cosa che il collezionista chiede è se ci sia la tavola con la civetta o ossifraga che dir si voglia. La seconda è se ci sia la tavola coi nemici.

Infatti aveva iniziato Guaita (1899) ad avvertire che “le plus grand nombre des exemplaires de l’Amphitheatrum n’ont que 4 ou 5 de ces gravures; et la planche qui represente K. entouré de ses ennemis (deguisés en oiseaux bridés et en insectes d’enfer) – cette planche étonnante qui est un véritable Callot par anticipation manque dans presque tous les exemplaires signalés. Il en est de même pour le 2 tableaux synoptiques de Kabbale synthétisée...”.6 Più o meno lo stesso dice peraltro Ferguson (I, p. 463).

L’ovvia domanda che ci si dovrebbe porre è: la civetta e la tavola dei nemici c’erano già nella prima edizione? Infatti qualcuno suggerisce che la civetta sia arrivata dopo, e quanto alla tavola dei nemici essa è nettamente diversa dalle altre quattro tavole rettangolari. Queste sono disseminate di didascalie e cartigli per lo più in latino, quella di didascalie e cartigli per lo più in tedesco; quella è dominata da figure umane e antropomorfe e può evocare Callot, queste da strutture architettoniche e paesaggi. Allora, che cosa c’era nella prima edizione?

Purtroppo i problemi iniziano quando si tratti di determinare quale sia stata la prima edizione. Se vogliamo trovare elenchi di edizioni, non abbiamo che da scegliere. Lenglet du Fresnoy citava Magdeburgo 1608, Amburgo 1611 e Francoforte 1653 (ignorando Hanau). Ferguson (I, p. 463) descrive solo Hanau 1609 ma elenca come “reported” Praga 1598, Magdeburgo 1602, Hanau 1604, Magdeburgo 1606, Francoforte 1608, Lipsia 1608, Lubecca 1608, Magdeburgo 1608, Amburgo 1611, 1648, 1651, Hanau 1653, Francoforte 1653, Amburgo 1710; tuttavia ragionevolmente ammette che possa trattarsi di falsi e, sulla scorta di De Bure (Bibliographie Instructive, ii, p. 248), suggerisce che Hanau 1609 sia la vera e propria prima edizione.

Come possano essere nate le vociferazioni, lo si capisce sfogliando Hanau 1609. Essa reca in frontespizio la data 1602 e in colophon la data 1609. E bastasse. Il privilegio è datato 1598 (p. 2), mentre a p. 8 appare una invocazione a Jehova che termina con “anno Masiach 1604”. Per complicare le cose le tavole rettangolari, che molti giudicano di gran lunga posteriori, portano la data 1602, mentre quelle circolari, che come vedremo dovrebbero esistere dal 1595, non hanno data. L’Epilogo reca la data 1602.

Khunrath muore nel 1605. Nel 1609 il discepolo Erasmus Wolfart pubblica l’opera su legato dell’autore, asserendo di averla completata per una piccola parte incompiuta “sed non magna” (p. 10). Confrontando, come faremo, con l’edizione 1595, si è indotti a dargli credito. Dal testo di Wolfart si evince che quella 1609 dovrebbe essere la prima edizione che vede la luce in questa forma completa. Ma quando è stato inciso il frontespizio, con il suo 1602?

La 1602 fantasma

Questa sola data (dice Hall) induce Brunet (iii, p. 658) ad affermare che le 10 figure di quest’opera fossero apparse separatamente sin dal 1602, con un frontespizio senza data, il privilegio, e il ritratto dell’autore. Anche Graesse (iv, p. 15) nota che una prima edizione delle sole tavole (ma di quali?), senza data e senza editore sarebbe apparsa nel 1602-1605.7 A parte il fatto che non si vede perché, il frontespizio 1602 essendo senza data, quello del 1609 debba portare inciso 1602, c’è un altro indizio che scoraggia questa ipotesi. Una Errata dell’ed. 1609 (p. 123) avverte il lettore che, per sbaglio, alla fine di ciascun Gradus si indica dove inserire ben sette figure, mentre queste figure non esistono. “Sed Amphitheatrum ipsum constat figuris, & suas habet Introductiones.” Ora esistono quattro Isagoge finali che chiaramente commentano solo le tavole doppie circolari. Nessuna menzione delle tavole rettangolari, per non dir della civetta. Questo ha indotto alcuni a pensare che esse siano state introdotte dopo, dai rilegatori.8

Mellon (1968), non avendo mai trovato copia dell’edizione 1602, ritiene si sia trattato di una copia mutila della 1609 che ha circolato con le tavole rettangolari, datate appunto 1602. Ma allora la 1602 non sarebbe senza data, come vogliono Brunet e Graesse, a meno che non avesse un altro frontespizio. In tal caso avremmo una edizione 1602 senza data e una edizione 1609 con frontespizio datato 1602, il che francamente sembra troppo romanzesco. Qualcuno sostiene di aver visto una 1602. La Bibliotheca Magica Pneumatica di Rosenthal registra (item 481) un in-folio di tale data in cui mancherebbero i ff. preliminari 36 e le pp. 147-50. Ma salta agli occhi che ci si sta riferendo all’errore di numerazione che caratterizza le Hanau 1609. L’inattendibilità della collazione è anche data dal fatto che vi si cita un ultimo folio con l’impressum (senza specificare la data) e un secondo titolo (?) Il catalogo Gilhofer 133 (Alchemie und Chemie, 1984, item 213), mentre registra una Hanau completa, per quanto riguarda la 1602 raccoglie la notizia di Ebert, ma non porta altre prove.

Nel 1898 Chacornac pubblica una traduzione francese di quest’opera, fatta da Grillot de Givry, e la ripropone nel 1900 con un commentario di Papus e Marc Haven.9

Papus e Haven asseriscono che esiste una edizione 1602 (“inconnue de Fictuld”) col testo tedesco, frontespizio e le sole quattro tavole circolari, incise da van der Doort sotto la direzione di Khunrath. L’ossifraga sarebbe stata aggiunta posteriormente. Ci sarebbe poi una prima edizione latina di Magdeburgo 1608, quella Hanau 1609, e Amburgo 1611 con le stesse immagini. Nel 1619 Wolfart pubblicherebbe la prima edizione con dodici tavole, aggiungendo il ritratto e le cinque tavole rettangolari. Si tratterebbe di immagini che forse esistevano nei manoscritti di Khunrath, ma in ogni caso aggiunte dopo la sua morte.

Queste notizie non sono sostenute dalla minima prova, anzi, le prove a disposizione le confutano. Papus e Haven evidentemente sbagliano dicendo che le tavole rettangolari arrivano solo nel 1619, perché tutte le copie descritte dai cataloghi identificano le tavole anche nell’edizione Hanau 1609 (cfr. per la stessa obiezione anche Dorbon e van Lennep). A pagina i/6, nel corso della citata invocazione datata 1604, Khunrath presenta il suo Anfiteatro come “recens revisum... instructum quattuor circularibus, aliisque hieroglyphicis figuris, in aes affabre scalptis”. Quindi, se non cinque, alcune tavole rettangolari esistono sin da quella data.

Come è accaduto che a Papus e Haven sia sfuggita questa frase, contenuta nell’edizione Hanau che essi riproducono? Non è il solo caso in cui i due noti occultisti mostrano di affabulare a ruota libera. Essi riconoscono che i quattro commentari (o Isagoge) posti alla fine del libro commentano solo le figure circolari, ma aggiungono che tali commenti appaiono solo nell’edizione 1653, senza rendersi conto di averli sotto gli occhi, nella loro edizione Hanau (da p. 185 a p. 214). Ma forse non hanno mai veramente visto Hanau, e hanno pubblicato la traduzione di Grillot de Givry senza neppure leggerla.10

Amburgo 1595

Il fatto è che il 1602 del frontespizio non retrodata abbastanza la prima fantomatica edizione del nostro libro. Thorndike (VII, p. 272 sgg.),11 dice che un “brief preliminary schetch or draught” dell’opera viene pubblicato ad Amburgo 1595. Dieci anni prima di Thorndike, su questa tesi si era impegnato Duveen. In “Notes on some alchemical books”, dopo aver ragionevolmente riconosciuto che “much confusion seems to exist as to the number of editions actually issued and as to which was the first”, egli asseriva di aver visto l’edizione in-folio oblungo del 1595: (1) 24 (1) e solo quattro tavole. Evidentemente in seguito Duveen ha potuto venire in possesso di una copia, che ora appartiene alla collezione Duveen dell’Università del Wisconsin, e che è descritta nel catalogo Duveen. Dell’edizione 1595 è nota solo un’altra copia, conservata nella Universitätsbibliothek di Basilea, di cui ho sott’occhio il microfilm.12 Neppure Duveen ha il coraggio di riportarne per intero il frontespizio, ben più verboso di quello della Hanau 1609, e in ogni caso chi volesse prenderne visione vada alla tavola X del catalogo Duveen.

L’in-folio oblungo di Basel corrisponde sostanzialmente alla descrizione della copia Duveen, tranne due particolari. Le pagine a stampa sono 25 e non 24 – come dice Duveen – e tra le illustrazioni appare un foglio con due incisioni circolari che rappresentano il Mundus Archetypus e il Mundus Intelligentiarum; dato che non è riscontrabile alcuna analogia stilistica con le quattro tavole circolari, tenderei a pensare che siano state inserite ad arbitrio del rilegatore. In effetti negli omissis del frontespizio c’è una esplicita indicazione di quattro (e non più) tavole incise.

Come dice anche Duveen, malgrado il numero di pagine inferiore, la 1595 sostanzialmente corrisponde alla 1609. Il Prologos reca in forma sinottica la versione antica e moderna dei testi biblici, anche se il numero dei versetti e il loro ordine è diverso (la 1595 è più succinta). Del pari, le note che circondano i testi biblici corrispondono (ancora una volta in forma più succinta ma sostanzialmente analoga) ai testi che nella 1609 occupano le molte pagine dei sette Gradus esplicativi.

A p. 24 appare un “Addo” che corrisponde in sostanza al testo delle pp. 82-83 della 1609, tranne che nella seconda edizione c’è una invocazione finale. Del pari, a p. 25 l’Epilogos corrisponde più o meno a quello della 1609, ma è datato 1602. A questo punto non c’è più da stupirsi per quest’ultima bizzarria: è probabile che, dopo una prima versione 1595, Khunrath abbia preparato una seconda versione dell’Epilogo sin dal 1602.

Le quattro tavole circolari sono le stesse di Hanau, con una differenza. Dato il formato più grande dell’edizione 1595, le incisioni sono – rispetto all’edizione Hanau – ulteriormente circondate da un’ampia fascia di testo inciso. La firma con la data è incisa ai bordi della circonferenza esterna. Nell’edizione Hanau, eliminato il cerchio esterno, è stata evidentemente eliminata anche la firma, che è stata reincisa lungo la circonferenza minore, ma senza la data.

L’esame delle tavole del 1595 permette anche di risolvere un altro problema. Nella Hanau 1609, dopo i sette Gradus di commento ai versetti biblici, appaiono quattro Isagoge che commentano le tavole circolari, e molti di questi commenti appaiono così oscuri da rendere difficile il riferimento alla tavola in questione. Basti fare un riscontro sulla prima Isagoge.

Essa si compone di una serie di versicoli, prima in ebraico e poi in latino, che dicono per esempio “Qui Erat; Qui Est; Qui Erit; Pleni Sunt Celi, Plena Est Omnis Terra, Majestatis Gloriae Eius.” Oppure: “Lavamini. Mundi Estote.” Chi congetturasse (a buona ragione) che queste spiegazioni si riferiscono alla tavola detta del Cristo, potrebbe lavorare solo a lume di buon senso, perché l’incisione del Cristo non presenta testi paragonabili con quelli dell’Isagoge corrispondente. Se si va invece a vedere l’incisione del 1595, si scopre che i testi riportati nella prima Isagoge 1609 sono esattamente quelli scritti nel cerchio esterno, poi eliminato, della figura 1595. E così accade negli altri tre casi. I testi a stampa delle quattro Isagoge 1609 sono quelli che nella 1595 appaiono incisi nel cerchio esterno delle figure – o almeno sono sostanzialmente gli stessi, tranne differenze minori.

Dunque l’editore della Hanau 1609, probabilmente Wolfart, avendo dovuto eliminare per ragioni tecniche i cerchi esterni delle figure della 1595, ha stampato questi stessi testi nel corso del volume sotto forma delle quattro Isagoge.

Altre edizioni fantasma

Se la 1595 è sicuramente la prima edizione parziale, e la esistenza della 1602 è dubbia, che cosa diremo di altre edizioni fantasma?

Un primo fantasma appare nel catalogo di Jouin e Descreux (1930). Non solo questo catalogo è edito sotto gli auspici di una misteriosa rivista che negli anni trenta condusse campagne antisemite e antimassoniche, ma descrive una collezione A. Peeters Baertsoen che è andata successivamente dispersa. E qui appare un Amphitheatrum sapientiae cum tabulis, Prag 1598. Il titolo farebbe pensare a una anticipazione sul genere della 1595, ma la descrizione del catalogo lascia pensare che si tratti né più né meno di una Hanau 1609, dovutamente mascherata.

La congettura è sostenuta da quanto si può dire di altre due edizioni fantasma, la Magdeburgo 1608 (che Waite, e altri con lui, menzionano ma dicono di non aver mai visto), e quella registrata nel catalogo a stampa della BN di Parigi come s.l., 1605. Tra tante edizioni fantasma, queste sono le meno fantasma di tutte, perché almeno esistono come oggetti identificabili.

Della Praga 1638 conosco almeno due copie. Una è nella Bibliotheca Philosophica Hermetica di Amsterdam e una alla Trivulziana (ma questa ultima copia ha il solo frontespizio e nessuna tavola).

Ora, se si apre l’edizione 1608 si trova un frontespizio nuovo, che reca lo stesso titolo di quello 1602, salvo che dopo E millibus uni reca: “Accessit, Jam noviter, diu desiderata Explicatio Singvlaris, ejusdem Autoris P.M. qua Novem tabulae in aes incisae dilucide explicantur, & ita tractantur ut singulis diebus, una saltem periodo observata, totum opus Amphitheatri unis anni spacio absolvi, & memoriter infigi possit.” Segue l’indicazione dell’editore-libraio: Magdaeburgi Apud Levinum Brauns Bibliopolam in aureo cornu venale exponitur, Anno MDCVIII. Dopo questa pagina, il resto dell’opera, sino al colophon incluso, è null’altro che l’edizione Hanau 1609, compresi i già citati errori di numerazione e le due tabelle.

Senza ombra di dubbio – e BPH concorda – Magdeburgo 1608 è un libro stampato ad Hanau nel 1609 a cui Levinus Brauns ha apposto un frontespizio datato 1608. L’Accessit del frontespizio, contro ogni farneticazione di Papus e Haven, precisa che le tavole sono ormai nove sin dalla stampa di Hanau.

Lo stesso si può dire della 1605 della Nazionale di Parigi. Registrata come 1605 nel catalogo a stampa (dove, chissà perché, si dice che la data è desunta dal titolo inciso), riappare nel catalogo manoscritto, consultabile alla biblioteca stessa, come stampata nel 1601. Si tratta di un duplice errore di catalogazione, che risale a chissà quando, dato che la copia è stata acquisita nel XVIII secolo. In realtà abbiamo di nuovo di fronte una Hanau 1609, mutila del colophon (e mancante della civetta). Inutile dire che gli errori di numerazione delle pagine sono gli stessi della Hanau 1609, e il frontespizio è come al solito quello 1602.

Del pari, la Francoforte, apud Tobiam Gundermannum, 1653, è ancora una volta Hanau 1609 con un nuovo frontespizio (vedi Graesse, Dorbon, Rosenthal).13

Affabulazioni

Perché non possiamo fidarci delle altre segnalazioni? Perché, lo ripeto, là dove la ricostruzione non era poi così difficile, almeno dopo Duveen, ogni volta che qualcuno parla dell’Amphitheatrum si invischia in imprecisioni drammatiche.

Abbiamo già visto che cosa combinino Papus e Haven. Prima di loro aveva dato bella prova di disinvoltura Eliphas Levi nella sua Histoire de la Magie del 1860. In poco meno di due pagine riesce a dire che Khunrath è nato nel 1502, che l’opera è del 1598 e che il testo commenta “gli oracoli di Salomone”. Visto che Levi aveva studiato in seminario e aveva collaborato col Migne, è curioso che non riesca a riconoscere i Proverbi e la Sapienza, anche perché il testo li nomina di continuo. Dalla descrizione che Levi dà del libro, sembra indubbio che lo abbia visto. Ma la descrizione delle nove tavole è così fantasiosa che è difficile riconoscerle. Nel 1913 Waite traduce la storia di Levi in inglese,14 corredandola di note critiche, e mette in luce tutti i suoi errori. Propone anche con sicumera un diverso ordine delle tavole, e accusa Levi di aver descritto la Porta come illuminata da sette raggi mentre i raggi – dice Waite – sono tre. Invece per una volta tanto aveva ragione Levi, i raggi sono sette e sono grandi come finestre. Waite aveva davvero visto il libro? Forse sì, ma citava a memoria.

Prendiamo ora un autore che ha scritto una storia dell’alchimia molto ricca di informazioni, e piena di sensatissimi rilievi, van Lennep (1985). A p. 170 ci dice che “oltre il frontespizio l’opera comprende dieci illustrazioni”, elenca le tavole rettangolari e circolari e la civetta, ma non menziona il ritratto. Quindi aggiunge che “Duveen ha descritto con precisione un esemplare oggi scomparso”. Non solo non è scomparso, ma – come abbiamo visto – ce ne sono due (in ogni caso, messo in sospetto da questa annotazione, ho scritto alla biblioteca dell’Università del Wisconsin e ho ricevuto una lettera del curatore, che mi assicura che l’esemplare c’è ed è in buona salute). Delle tavole dell’Amburgo 1595 dice che “come per l’edizione 1609 erano firmate da Paul van der Doort di Anversa... 1595”. Invece in Hanau le tavole non sono datate. Sempre per le tavole circolari, afferma che “l’editore Wolfart assicura che non erano mai state pubblicate prima del 1609”. Basta andarsi a leggere la prefazione di Wolfart, che sono due pagine, magari nell’edizione Chacornac, e si vede che non lo dice affatto. A p. 167 dà il judicium di Arndt come pubblicato nel 1747 in Chymischen Lust-Gärtlein, mentre sappiamo che appare nel 1608.15 A p. 168 traduce Hanau (in latino “Hanovia”) con Hanovre (Hannover), errore peraltro comune agli autori francesi, vedi Gorceix 1970 (p. xix). Infine raccoglie le vociferazioni di tale Wittemans,16 secondo cui Spinoza avrebbe fatto apparire ad Amburgo alcune sue opere sotto il nome di Khunrath. Oltre che incredibile, la notizia nasce da un qui-pro-quo che è stato già smontato da Paul Arnold (p. 307) e proprio riferendosi al Wittemans: nel 1670 Spinoza pubblica anonimo il suo Tractatus TheologicoPoliticus, ad Amburgo “apud Heinricum Khünraht”. Semplicissimo, si tratta del nome dell’editore. Wittemans, per ascriverlo alla tradizione ermetica, sarebbe pronto a dire che Gide pubblicava sotto il nome di Mercure de France, ovviamente Trimegiste.

Serge Hutin17 parla delle “dodici celebri tavole poste alla fine del libro”. Deve aver visto solo la riedizione Chacornac, perché non mi risulta che le tavole siano rilegate alla fine in nessuna copia, e in ogni caso almeno il ritratto e il frontespizio dovrebbero essere all’inizio (in Chacornac appaiono invece tutti alla fine).

La devozione ottunde anche il senso bibliografico. Il catalogo Hall (1986, e Manly Hall è autore di molti libri ermetici, uno persino di “anatomia occulta”) fa per esempio salti mortali per non dire che, con ogni probabilità, la sua copia dell’Amphitheatrum è priva di civetta. Il Dorbon deriva da Caillet e da Guaita, ma in modo disattento. La sua scheda di Hanau 1609 è corretta, ma i guai iniziano quando deve descrivere le varie edizioni Chacornac. A parte l’ingenuità del commento (“tout porte à faire croire qu’il possédait la Pierre Philosophale”), si dice che la seconda parte dell’edizione 1898-1900 “contiene su doppia pagina le 12 tavole straordinarie che sembrerebbero uscite dall’immaginazione di Callot”, quando ormai sappiamo che a doppia pagina si hanno solo 9 tavole, e che quella paragonata a Callot è solo una.

In A Christian Rosenkreutz Anthology18 si pubblicano undici tavole dell’edizione Hanau, annunciando pomposamente che sono pubblicate come serie completa per la prima volta, dalla loro prima apparizione nel 1609, secondo la copia già appartenuta alla biblioteca di Isaac Myer, “eminent american authority on the Cabala”. È falso che le tavole siano apparse per la prima volta nel 1609, è falso che non siano mai state ripubblicate prima, è falso che siano solo undici. In effetti manca la civetta, che appare a parte, ma dalla edizione 1616 del Von hylealischen Chaos, sempre di Khunrath. Dunque l’eminente autorità sulla Cabbala aveva una copia incompleta.

La Annotaded Bibliography che segue a p. 483 di nuovo crede che il commento di Arndt appaia per la prima volta nel 1747,19 cita – evidentemente di seconda mano – la Mythologia Christiana di Andreae per dire che contiene apprezzamenti nei confronti di Arndt (apprezzatore di Khunrath), ma sorvola sul fatto che, come abbiamo visto, contiene un feroce attacco a Khunrath.

Punti fermi e congetture

A questo punto la nostra inchiesta raggiunge alcuni punti fermi. Esiste una edizione 1595, probabilmente stampata ad Amburgo, che consiste di 25 pagine di testo e di quattro tavole circolari. Di questa edizione si conoscono due copie.

Non ci sono prove dell’esistenza di una edizione 1602, ma se ci fosse, potrebbe essere una raccolta come la 1595, con quattro tavole rettangolari in più e un nuovo frontespizio. Se fosse mai esistita, avrebbe avuto un epilogo datato 1602. Risulta che alla sua morte Khunrath aveva portato a termine il testo definitivo, e il massimo che sappiamo è che nel 1604 termina l’invocazione iniziale.

Tutte le altre edizioni citate qua e là sono, sino a prova contraria, travestimenti dell’edizione Hanau.

Una definitiva conferma del rapporto diretto tra edizione 1595 ed edizione 1609, senza altre edizioni intermedie, è data tra l’altro dal breve testo che Figulus apponeva in calce all’edizione del De igne magorumu (1608, pag. 125) 1608, dopo il Iudicium su l’Amphitheatrum attribuito ad Arndt. Cosa dice Figulus? Che gli era parso utile pubblicare questo testo sull’Amphitheatrum perché l’opera era apparsa soltanto in edizione molto limitata, destinata a pochi eletti, e che pertanto sino a quel momento (1608) non era stato possibile ai più poterne prendere visione; ma che però, fortunatamente, era ormai in corso di stampa (sub praelo) una edizione più accessibile e meno cara, con molte tavole in più. Egli parlava evidentemente, nel 1608, della Hanau 1609, à paraître, salvo che la citava come “Hanoviae bey Frankfurt”, e francamente non capisco cosa intendesse dire. In ogni caso l’indicazione mi pare chiara: solo dopo il 1608 il lettore può avere tra le mani una edizione più accessibile di quanto non fosse la 1595.

L’edizione Hanau 1609 è dunque la prima edizione dell’opera completa in tutte le sue parti, fatta dopo la morte dell’autore, e comprende le tavole rettangolari che probabilmente erano state fatte eseguire da Khunrath stesso in vista di una edizione 1602, che egli aveva iniziato a far stampare in vita, senza poterla terminare.

Proviamo a ricostruire romanzescamente la storia. Il buon Khunrath vuole coronare la sua carriera con l’Amphitheatrum. Nel 1595 fa eseguire le tavole circolari, e le pubblica corredandole di un primo commento. Poi si rimette al lavoro. Va di tale lena che nel 1598 si sente quasi pronto e si assicura il privilegio imperiale. Entro il 1602, per guadagnare tempo, riscrive e data l’Epilogo, e siccome il tempo stringe fa eseguire il frontespizio. Forse in quegli anni dà istruzioni per l’esecuzione delle tavole rettangolari. Poi, nel 1605, muore.

Entra in scena Wolfart, ormai padrone del campo, che mette al lavoro Guglielmo Antonio. Questi inizia a stampare e finisce nel 1609, data del colophon e della introduzione di Wolfart. A questo punto accade qualcosa.

Prima ipotesi: Guglielmo Antonio rilega la sua edizione con le tavole tutte, e vi mette il frontespizio del 1602, che c’è già, è bello, e inoltre garantisce una autenticità kunrathiana; forse pensa anche di inserire nuove tavole e stampa le istruzioni per porne sette in calce a ogni Gradus; poi Wolfart si accorge del tentativo di manomissione, litiga con Antonio, e lo costringe a mettere l’errata, all’ultimo minuto.

Frattanto guata nell’ombra il diabolico libraio di Magdeburgo, che da un anno mordeva il freno, aveva già fatto stampare il suo frontespizio 1608 e aveva prenotato da Antonio un certo numero di copie. Gli arrivano le copie Hanau, vi appone il suo frontespizio antedatato e le mette in circolazione. Non dimentichiamo che il privilegio imperiale vale per dieci anni dalla data di stampa (che è 1609). Forse chi mette in circolazione copie con data 1608 cerca rozzamente di eludere la legge, confidando che i controllori guardino il frontespizio ma non il colophon.20

Seconda ipotesi: Brauns è il vero committente, e il marpione è qualcun altro, che usa copie Hanau mandandole in giro col frontespizio 1602, preso chissà dove, o acquistato a fogli stesi da gran tempo, insieme alle tavole.

Forse Khunrath se lo sentiva che le cose sarebbero andate come sono andate. Preoccupatissimo, nel frontespizio 1595, confidava, se non nel privilegio imperiale, in quello divino: “Cum gratia et privilegio SSe tremendaque Maiestatis Divinae, ad perpetuum: Non Furtum Facias”.

Nessuno, neppure Dio, gli ha dato ascolto.

L’ordine delle tavole

In ogni caso, è chiaro che le tavole circolavano già prima del 1609. Questo spiegherebbe un altro problema con cui mi sono scontrato. Delle varie copie citate, nessuna rilega le tavole nello stesso ordine. Persino il ritratto in certi casi funziona da antiporta, in altri segue il frontespizio.

Stabiliamo di indicare le tavole come segue: F (Frontespizio), K (ritratto di K.), G (Adumbratio Gymnasii), D (Designatio Pyramidum), H (Hypothiposis Arcis), P (Porta Amphitheatri), N (nemici), C (Cristo), R (Rebis), A (Adamo androgino) L (laboratorio), O (ossifraga). Vediamo ora in che ordine esse appaiono nelle seguenti copie: Eco, Casanatense, Bologna, Trivulziana, Ambrosiana, Parigi Bibliothèque Nationale (pseudo 1605), Sorbona, Matton, Bailly 1 e Bailly 2, nonché le copie descritte nei cataloghi o nelle opere storiche di Guaita, Myer, Levi, Waite, Van Lennep, Chacornac (nel caso delle copie controllate direttamente l’assenza di una tavola significa effettiva mancanza, mentre nel caso delle copie descritte rimane il dubbio se si tratti di mancanza non denunciata esplicitamente o di collazione imperfetta).21

Ne risulta il seguente specchietto:

 

I

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

                         

Eco

F

K

G

D

H

P

N

C

A

R

L

O

Casanatense

F

K

D

H

P

R

A

C

L

G

O

Bologna

F

K

G

D

P

C

A

R

L

N

H

Trivulziana

K

F

G

D

P

H

C

A

R

L

O

Ambrosiana

F

K

P

C

A

G

H

R

L

D

N

O

B. N. Parigi

F

K

N

L

R

A

C

P

H

D

G

                         

Guaita

F

K

O

R

L

A

C

P

H

G

D

N

Myer

K

F

P

L

G

H

D

N

R

A

C

Levi

D

A

G

P

C

L

H

R

N

Waite

L

G

A

D

P

C

H

R

N

Van Lennep

K

F

O

P

G

H

D

N

C

A

R

L

Chacornac

F

K

D

G

P

H

C

A

R

O

L

N

Matton

F

K

H

D

P

G

A

L

R

C

N

O

Bailly 1

F

O

K

L

C

A

R

N

H

P

G

D

Bailly 2

F

K

H

L

A

R

C

N

P

D

G

Sorbona

F

K

G

D

H

P

A

C

R

L

O

N

Il test mi pare sufficiente per stabilire che, a causa dell’oscurità del testo, i cui riferimenti alle tavole sono molto vaghi, si rilegavano le tavole come venivano, o come piaceva al committente. Siccome le tavole erano state pubblicate e messe in circolazione prima, i vari rilegatori inserivano solo quelle disponibili.

Di conseguenza ogni copia della Hanau 1609 è una copia composita, e credo sia impossibile stabilire se sia esistita una copia tipo. Quand’anche si assumesse che deve essere esistita (e deve essere esistita) la prima copia uscita dai torchi di Guglielmo Antonio, e che essa sia stata immediatamente rilegata in loco, nulla ci dice che l’ordine delle tavole fosse quello pensato da Khunrath e voluto da Wolfart.

D’altra parte, che pretendere? Il 1° febbraio 1625 l’opera viene condannata dalla Sorbona come “piena di empietà, errori ed eresie e di una continua e sacrilega profanazione dei passaggi della Sacra Scrittura”, capace di portare i suoi lettori alla pratica di arti segrete e criminali.22 Questo spiega le vicissitudini delle varie edizioni e delle stesse copie singole, che probabilmente sopravvissero a stento.

* Una prima versione era stata pubblicata con lo stesso titolo su L’Esopo 40, 1988. Con lo stesso titolo e alcune aggiunte il testo è poi apparso in volume, edizione fuori commercio, Milano: Bompiani 1989. Questa terza versione reca alcune aggiunte per quanto riguarda la collazione finale.

1 Otto copie NUC.

2 Sulle varie opere di Khunrath cfr. Jung (che in Psicologia e Alchimia, nel Mysterium Conjunctionis e ne Gli archetipi e l’inconscio collettivo) cita di preferenza il Von hylealischen... Chaos, ed. 1597). Per i riferimenti di Jung allo Amphitheatrum cfr. Mellon I, 210. Nelle altre storie dell’alchimia, Khunrath appare di rado, tranne che nel recente van Lennep. Fa naturalmente eccezione Thorndike (VII), a cui nulla sfugge. Sulla vita di K. cfr. Moller, J., Cimbria Literata. Hannover, 1744; Kopp, H., Geschichte der Chemie. Brunswick, 1844 (cit. in van Lennep). Ampio spazio a Khunrath è riservato nelle varie opere sui rosacroce.

3 Una buona biografia di Dee come quella di French non nomina neppure Khunrath, che pure ha incontrato Dee a Praga. I rapporti con Dee sono invece sottolineati da Yates 1972 e da Edighoffer 1982, nonché da Evans 1973 (forse il più preciso tra gli storici nel fornire una bibliografia dell’Amphitheatrum).

4 Si tratta certamente del grande matematico Georg Cantor, che aveva notoriamente propensioni para-occultistiche, tanto da essere l’autore di un’operetta sulla Bacon-Shakespeare Controversy (Die Rawley’sche Sammlung von zweiunddreissig Trauergedichten auf Francis Bacon. Ein Zeugniss zu Gusten der Bacon-Shakespeare-Theorie mit einem Vorwort herausgegeben von Georg Cantor.Halle: Niemeyer 1897).

5 In questo genere di letteratura occorre distinguere tra devoti dell’ermetismo, sempre pasticcioni e inattendibili, con tendenza a falsificar le fonti o a sbagliare le citazioni (li menzionerò solo per dovere di cronaca scandalistica), e studiosi seri. Waite è un devoto rosacrociano ma è ancora il più prudente e il meno credulo tra tutti.

6 Cfr. il catalogo Guaita e S. de Guaita, Essais de sciences maudites, I. Au seuil du mystère, Paris, 1890, pp. 57-59, 99-147.

7 Graesse cita Adelung. Gesch. d. menschl. Narrheit t.V. p. 95 sg, Baumgarten, Hall Bibl. t. VII, p. 411 sg., e Ebert (Allg. Bibliogr. Lexicon, 11368).

8 D’altra parte rimane misteriosa la causa dell’errore (e dell’errata): a che cosa pensava l’editore immaginando di dover inserire sette figure, quando le figure o sono quattro (circolari), o cinque (rettangolari), o tutte insieme nove, anzi dieci se fosse calcolata anche la civetta, o otto se mancassero sia la tavola dei nemici che la civetta? Insomma, comunque si calcoli, non si arriva a sette.

9 Però Grillot de Givry (in Le Musée des Sorciers. Paris: Librairie de France 1929, p. 223) dice di averla fatta nel 1899. L’edizione Chacornac 1900 segue la disposizione tipografica dell’edizione 1609, e riproduce tutte le tavole incise. L’edizione è ora in anastatica, Milano: Arché, Coll. Sebastiani, 1975.

10 Quanto a de Givry, ne combina un’altra, anche se più scusabile. Dimostra infatti Secret 1985 (p. 250) che Khunrath a p. 2/6 cita dei versi dell’Olearius inviati a Elhanan ben Menahem, noto come Paolo di Praga, e Givry traduce “Quelques vers que le très illustre Jean Olearius... a écrit à Prague sur Saint Paul”.

11 Citando da Maggs, Catalogue of Strange Books and Curious Titles, 1932, item 91.

12 Ringrazio, all’occasione, il dr. Frank Hyeronimus per la sua collaborazione.

13 Nel 2004 ne ho visto finalmente una copia presso la Libreria Malavasi di Milano. Essa è in tutto e per tutto simile alla Hanau 1609 (benché manchi della tavola con l’ossifraga) e reca in colophon: “Hanoviae, excudebat Guilelmus Antonius, MDCIX”.

14 The History of Magic. Philadelphia: McKay 1913.

15 La notizia deriva probabilmente da Ferguson che infatti cita solo questa edizione.

16 Histoire de Rose-Croix. Paris 1979 (ma la prima edizione è Paris: Aydar 1925, cfr. pp. 59-60). Sulla lucidità di questo autore, si veda Edighofer 1982 (p. 210): “Wittemans... reproche à Andreae d’avoir volontairement sabordé la future Franc-Maçonnerie, d’avoir porté un coup mortel à l’enfant spirituel qu’il avait le plus aidé à voir le jour”.

17 Histoire des Rose-Croix. Paris: Le Courrier du Livre 1971, p. 34.

18 Ed. by Paul Alle. New York: Publications, Blauvelt 1968, pp. 329 sgg.

19 Vedi nota 15.

20 Ipotesi: il numero delle tavole stampate è inferiore alle copie del testo, e Brauns, con bella disinvoltura, mette in vendita copie senza tavole. Questo spiegherebbe la copia della 1608 conservata alla Trivulziana, che è appunto priva di tavole.

21 Nelle prime versioni di questo testo non erano citate quattro copie (Sorbona, Matton, Bailly 1 e Bailly 2), che sono state collazionate da Jean-Claude Bailly, curatore della versione francese (L’énigme de la Hanau 1609. Paris: J.-C. Bailly Éditeur 1990). L’esemplare descritto nel catalogo della collezione Verginelli Rota sembra corrispondere a quello descritto da Guaita. Hall cita “three engraved charts in text”, ma si tratta evidentemente di un errore. La Biblioteca Universitaria di Bologna possiede anche, catalogata come copia dell’Amph. (A v L III 27), un atlantico in cui le dieci tavole, senza frontespizio e ritratto, sono montate insieme ad altri excerpta da Fludd e da altre opere alchemiche e cabalistiche. Nell’edizione francese del mio testo Bailly cita in nota una tiratura della prima tavola ripiegata, con lo stesso testo, ma composto diversamente, che reca in recto il privilegio di Rodolfo II, data 1598.

22 Argentré, Collectio judiciorum de novis erroribus, II, ii, 162, citato anche con data errata da Mersenne, Correspondance II; cfr. Thorndike VII, 275.

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