Nel primo libro dell’Eneide Virgilio descrive la tempesta che travolge le navi dei Troiani in fuga dalla loro città, distrutta dalla guerra. Scampati miracolosamente alla furia delle onde, alcuni naufraghi approdano sulle coste di Cartagine, nei pressi dell’odierna Tunisi, sul canale di Sicilia. Vi regna Didone, in fuga da Tiro per sfuggire alla tirannia del fratello, e la città da lei fondata, Cartagine appunto, è ancora in costruzione. Ilioneo, uno dei naufraghi troiani, rivela alla regina la meta verso cui i fuggiaschi erano diretti prima del disastro: l’Italia. E lo fa in questo modo:
V’è un luogo – con il nome di “Esperia” lo chiamano i Greci –
terra antica, potente di armi e di campi felici;
l’ebbero gli uomini Enotri; adesso è fama che i posteri
abbian chiamato quel popolo “Italia” dal nome di un capo.
Qui facevamo rotta1.
Ricordo bene le lezioni durante le quali (ero ancora all’università) il mio professore, Marino Barchiesi, ci spiegava che questo genere di descrizione corrisponde a una precisa figura poetica, la topothesia: letteralmente “porre il luogo”, quasi che il poeta “disponesse” sotto gli occhi del lettore l’immagine di una determinata terra o regione2. La topothesia comincia quasi sempre con la formula «C’è un luogo… / est locus…» e l’aveva già usata Ennio, diceva Barchiesi, la userà piú volte anche Ovidio, la userà Dante quando scriverà: «Luogo è in Inferno detto Malebolge | tutto di pietra di color ferrigno…» Era bello ascoltare quelle spiegazioni. Eppure ricordarle adesso suscita in me solo tenerezza mista a rimpianto, come se appartenessero a un’età aurea, della letteratura e della vita, che oggi si è perduta. Allora pareva ovvio, normale, che di fronte al racconto virgiliano di un naufrago che tentava di approdare sulle coste italiane, ci si soffermasse ad analizzare la formula usata dal poeta per descrivere la meta del suo viaggio. Oggi non è piú cosí. Inevitabilmente leggendo le parole di Ilioneo il pensiero corre ai nuovi profughi che, come i Troiani dell’Eneide, cercano di varcare il canale di Sicilia per raggiungere (come allora) l’Italia, fuggendo da morte e distruzione; e come i Troiani sono vittime di un naufragio. Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca. Gli orrori del Mediterraneo hanno tolto all’Eneide ogni innocenza letteraria. Adesso che centinaia di disperati tentano quotidianamente di varcare lo stretto braccio di mare che potrebbe finalmente allontanarli dalle terre in cui non si è persone, ma solo corpi da vendere e torturare; adesso che la morte in mare si è ridotta a un protocollo ordinario, la topothesia – l’atto di “porre il luogo”: l’Italia – non è piú una figura poetica, ma il sogno, il fantasma di una meta che migliaia di fuggiaschi si “pongono” davanti agli occhi, ben sapendo che non tutti ce la faranno. «C’è un luogo, lo chiamano Italia…» Ripenso con dolcezza e nostalgia al tempo, ormai lontano, in cui l’Eneide era fatta di figure poetiche; ma so che se mi ostinassi a perpetuare quel tempo, nonostante ciò che accade intorno a noi, mi sentirei colpevole.