I doveri umani degli antichi

Vediamo adesso di imboccare la terza via che ci eravamo proposti di percorrere, ossia quella che prevede un cammino attraverso categorie, termini e modi di pensiero interni alla cultura classica, che possano però richiamare i principî contenuti nella Dichiarazione del 1948: sia pure articolandoli in forme differenti. Si tratta in verità della prospettiva per noi piú interessante, quella che prima di ogni altra ci ha spinto a mettere insieme questo libro.

La riflessione antica aveva già cercato di individuare una forma di “diritto naturale” (ius naturale) che fosse comune a tutti gli uomini: come tale capace di andare al di là, e di venire prima, rispetto alle norme che disciplinano le diverse comunità. Si tratta di un impulso che, come ha scritto Mario Bretone, spinge a trovare «formulazioni ideali che dovrebbero valere oltre la storia» e che giustifichino in generale l’agire umano. «La ricerca di punti fermi, di certezze universali e rassicuranti, convive con l’inquietudine del possibile, del provvisorio, della morte, e del tempo». Come nota ancora Bretone il giusnaturalismo (la ricerca di un diritto naturale), sia antico che moderno, rientra in quest’ordine di problemi. Nasce insomma dalla spinta a trovare un fondamento della giustizia direttamente nella natura – una natura razionalmente ordinata e benefica, ora intesa come intrinsecamente divina, ora come voluta da Dio. Questo bisogno «riemerge ancora oggi, sotto varie forme»1. Inutile dire però che nella prospettiva da noi scelta avrebbe poco senso addentrarci nelle implicazioni giuridiche e filosofiche di un dibattito sul giusnaturalismo che, peraltro, non si è mai sopito. Per avanzare nella nostra riflessione preferiamo perciò prendere le mosse da un contesto assai piú limitato, marginale, certamente meno noto, ma piú produttivo in vista dello scopo che ci siamo prefissi. Si tratta di un nucleo di norme assai arcaiche, che individuano in alcuni obblighi elementari ciò che molti secoli dopo Seneca definirà efficacemente humanum officium, ossia «doveri degli uomini verso gli uomini»2.

Nelle tradizioni dell’Attica compariva la figura di Bouzýges, l’eroe che «per primo aveva aggiogato i buoi sotto l’aratro». Il suo nome era trasparente, significava infatti “colui che aggioga i buoi”, e il suo mitico aratro era conservato sull’Acropoli “a memoria” di tale evento. Bouzýges costituiva a sua volta il capostipite di una famiglia sacerdotale che portava il nome di Bouzýgai (“aggiogatori di buoi”) e alla quale apparteneva anche la sacerdotessa di Atena. A questi sacerdoti era demandata un’importante funzione religiosa: ogni anno infatti essi compivano un’aratura sacra. Si trattava di una cerimonia che costituiva l’introduzione ai lavori agricoli ordinari, simile alle molte che – presso altri popoli e in altre culture – segnano religiosamente l’avvio del lavoro nei campi. Gli inizi, si sa, sono sempre gravidi di tensione e di timori, per cui si comprende il motivo per cui, anche nel caso dei lavori agricoli, si riteneva opportuno ritualizzarli tramite un’aratura di carattere sacro3. La cosa interessante per noi, però, è che in questo contesto a carattere rituale – la sacra aratura compiuta da sacerdoti, il delicato inizio dei lavori agricoli – i Bouzýgai scagliavano anche una serie di maledizioni contro tre distinte categorie di persone, i cui comportamenti apparivano particolarmente riprovevoli: coloro che negavano fuoco o acqua a chi ne faceva richiesta; coloro che si rifiutavano di mostrare la strada agli erranti; e infine coloro che lasciavano insepolto un cadavere4. Come si vede si tratta di obblighi assai generali, tali da svelare immediatamente il proprio carattere consuetudinario. Torneremo piú avanti sulle maledizioni dei Bouzýgai, ma val la pena di mettere in evidenza fino da subito il fatto che il loro contenuto non corrisponde a interdizioni, come nel caso dei Dieci Comandamenti ebraici o dei cinque sila buddisti, ma a obbligazioni. Ad essere enunziate non sono le azioni che è vietato compiere (non uccidere, non rubare…), ma quelle da cui è impossibile esimersi. Ciò detto, continuiamo a seguire la scia che questo genere di norme ha lasciato nella cultura antica. Il dovere di osservarle, o di osservarne di simili, vi viene infatti ribadito piú volte in contesti e secondo prospettive fra loro differenti.

Nel De officiis, un’opera composta fra il settembre e il novembre del 44 a. C., Cicerone riprenderà questo tema nel quadro di ciò che chiama «la società piú estesa fra gli uomini, quella di tutti con tutti»5. Si tratta di una societas per appartenere alla quale è sufficiente essere uomini, al di là dell’essere membri o meno di una determinata civitas. Qual è il vincolo che tiene unita questa amplissima società? Per Cicerone esso è costituito da ratio et oratio, ossia la ragione e il linguaggio. Questa seconda prerogativa umana, in particolare, costituisce la facoltà che «attraverso l’insegnamento, l’apprendimento, la comunicazione, la discussione, il giudizio, concilia fra loro gli uomini e li congiunge in una forma naturale di società». Dunque per essere membri di questa amplissima societas – quella degli homines con gli homines – basta possedere la ragione e l’uso del linguaggio, ossia la funzione che, attraverso le sue molteplici forme comunicative, produce ciò che noi oggi definiremmo la “cultura”. Affinché questa societas piú latamente umana possa mantenersi salda, continua però Cicerone, è necessario «conservare la condivisione (communitas) di tutti quei beni che la natura ha generato per l’uso condiviso (communis) degli uomini». In altre parole, la società degli uomini con gli uomini fa tutt’uno con la condivisione dei beni messi a loro disposizione dalla natura. Non lasciamoci ingannare però dal sostantivo e dall’aggettivo usati da Cicerone in questo passaggio del suo ragionamento, attribuendo loro il significato delle parole italiane corrispondenti. Per un Romano espressioni come communis e communitas non implicano solo avere qualcosa “in comune”, ma anche reciproco impegno. La communitas presuppone infatti l’avere munia – “obblighi”, “impegni” – l’uno verso l’altro: ciò che è communis implica la presenza di un sistema di reciprocità, in cui il dare presuppone il ricevere, e viceversa6. La societas umana, dunque, sta insieme quando ci si comporta in modo tale da rispettare il principio secondo cui l’usufruire di beni condivisi da tutti – beni che la natura ha generato perché fossero a disposizione degli uomini in quanto tali – implica sia l’atto di profittarne sia quello di concederne l’uso ad altri uomini: tanto il ricevere quanto il dare. Da qui, continua Cicerone, derivano quelle prestazioni che vengono indicate appunto come communia. Ed eccoci di nuovo dentro la scia di quanto abbiamo già visto contenuto nelle maledizioni dei Bouzýgai. I communia indicati da Cicerone consistono infatti nell’obbligo di concedere l’accesso all’acqua (non prohibere aqua profluente), di permettere che si accenda fuoco da fuoco (pati ab igne ignem capere), di dare un consiglio onesto a chi deve prendere una decisione (consilium fidele deliberanti dare)7. L’obbligo di indicare la strada a chi erra (peraltro ricordato subito sopra nel testo) viene qui sostituito da quello di consigliare onestamente, ma lo scarto non è grande: ci troviamo ancora nel campo del dare indicazioni, suggerimenti, a chi si trova in una situazione di incertezza. Anche su questo testo ciceroniano, come sul comportamento rituale dei sacerdoti attici, torneremo fra un momento. Per intanto proseguiamo nella nostra rassegna di “umanità” antiche.

L’obbligo consuetudinario di concedere acqua a chi ne fa richiesta – presente sia nelle maledizioni dei Bouzýgai, sia nella riflessione ciceroniana – compare anche in un contesto che, a tutta prima, potrebbe risultare sorprendente: una commedia di Plauto. Il vedere in azione questo obbligo, invocato in un ambito di relazioni decisamente ordinario, quotidiano, testimonia però del suo radicamento nella cultura antica. Prima di vedere in che consiste la scena costruita da Plauto, però, occorre esporne brevemente l’antefatto.

Due ragazze, Palestra e Ampelisca, sono scampate al naufragio della nave su cui viaggiavano, dispersa fra le onde. Sbarcate fortunosamente sulle coste della Libia, a Cirene, ignorano però ciascuna la sorte dell’altra, finché, prossime ormai alla disperazione, si incontrano sulla spiaggia e si scoprono entrambe salve. A questo punto incontrano una vecchia, sacerdotessa di Venere, a cui si rivolgono come supplici, abbracciandole le ginocchia, perché dia loro accoglienza e ospitalità. La vecchia, generosa come lo era stata Didone con i naufraghi troiani, le fa alzare benignamente da terra, porgendo loro la mano, e dà loro ricovero nel tempio della dea. Le naufraghe insomma hanno ricevuto hospitium, come Enea a Cartagine. Ed ecco la scena che ci interessa. Una delle due, Ampelisca, si reca a chiedere acqua in una casa vicina. Accanto al pozzo però sta uno schiavo, Sceparnione, che non vuole permetterle di avvicinarsi a meno che lei non lo “preghi”. Questo pozzo, insiste lo schiavo, lo abbiamo scavato noi a nostro rischio e pericolo e con i nostri attrezzi. Il pozzo è nostro, insomma, la ragazza non potrà portar via neanche una goccia d’acqua se non lo prende ben bene dal verso giusto (multis blanditiis) – insomma, si capisce che cosa vorrebbe lo schiavo in cambio dell’acqua: l’amore. La ragazza, straniera e naufraga, non dimentichiamolo, reagisce però in questo modo: «perché mi neghi l’acqua, che lo straniero (hostis) fornisce allo straniero (hosti)?»8. In altre parole, come puoi pretendere che io ti paghi l’acqua addirittura concedendomi a te, quando si tratta di un bene libero, che sta a disposizione di chiunque? Sceparnione ha pronta la sua replica: «e perché tu mi neghi ciò che il concittadino (civis) concede al concittadino (civi)?» La scena plautina punta sulla comicità di tipo sessuale, e le avances dello schiavo risultano certo spiacevoli ai nostri occhi, soprattutto data la situazione di particolare debolezza in cui versa Ampelisca (straniera e naufraga, ripetiamolo). A dispetto di ciò, la schermaglia fra i due resta interessante perché mette a confronto, o meglio in contrasto, la figura dello straniero con quella del cittadino in materia di prestazioni dovute. L’accesso all’acqua è libero, sostiene Ampelisca, è aperto a tutti. Non lo si concede solo a chi appartiene alla “nostra” stessa comunità, ovvero al “concittadino” (civis), ma anche allo “straniero” (hostis) che venga a chiederne. La possibilità di attingere acqua è indipendente dall’appartenenza civica, dai diritti che promanano da tale status. Essa va riconosciuta a tutti, compresi gli stranieri e i naufraghi come Ampelisca.

Giunti a questo punto proviamo per un momento a rovesciare il punto di vista. Esistevano circostanze nelle quali l’obbligo di concedere acqua e fuoco cessava? O per meglio dire, si davano casi in cui si poteva, anzi si doveva rifiutarne l’uso a qualcuno? La cultura romana ce ne offre uno, oltretutto di grande rilevanza giuridica. Al cittadino romano che fosse stato bandito dalla sua terra, ricevendo la condanna all’exilium, veniva infatti comminata la aqua et igni interdictio, ossia la “interdizione dall’acqua e dal fuoco”9. Che cosa si intendeva con questa espressione? Ce lo spiega un grammatico antico, mettendola in relazione con un istituto sociale di grande importanza quale il matrimonio:

i condannati vengono esclusi dall’acqua e dal fuoco, tanto quanto ricevono [l’acqua e il fuoco] le spose novelle, evidentemente perché da queste due cose deriva piú che da ogni altra la vita umana10.

Era costume infatti che, in occasione delle nozze, sulla soglia di casa la sposa fosse accolta con questa offerta, a significare la “comunione dell’acqua e del fuoco” con il proprio marito11. L’esclusione del damnatus, del condannato, dall’acqua e dal fuoco indicava dunque il contrario di ciò che significava donarli alla sposa in occasione del matrimonio: la fine di una “comunione”, una radicale esclusione dalle «due sostanze da cui deriva piú che da ogni altra la vita umana». Dopo quanto abbiamo visto fin qui, però, appare chiaro che la aqua et igni interdictio inflitta all’esiliato, significava anche qualche cosa di piú e di peggio. Attraverso questa esclusione all’exul veniva infatti negato ciò che era concesso perfino al forestiero, a colui che era estraneo alla civitas: in una parola, ciò che veniva concesso all’essere umano semplicemente in quanto tale. L’esiliato dunque non perdeva solo la cittadinanza romana, pena che come sappiamo gli veniva comminata: agli occhi della civitas che lo aveva scacciato egli veniva retrocesso a un rango ancora inferiore a quello del forestiero. Negargli acqua e fuoco significava che, in qualche modo, lo si riteneva estraneo non solo alla propria città, ma addirittura al genere umano in generale.

Torniamo a seguire la pista che ci era stata aperta dalle maledizioni dei Bouzýgai. Anche Seneca riprenderà questo genere di precetti consuetudinari (quelli che Cicerone definisce communia), ma proiettandoli in un orizzonte piú vasto. Lo fa in una delle sue Lettere a Lucilio interamente dedicata a problemi di etica. Subito dopo aver affrontato la questione del modo in cui occorre venerare gli dèi, il filosofo si pone questo ulteriore problema.

Come ci si deve comportare nei confronti degli uomini?

Ciò detto prosegue con una serie di interrogativi.

Che cosa facciamo? Quali precetti diamo? Forse che si risparmi il sangue umano? Quanto piccola cosa è non nuocere a coloro ai quali dovresti giovare. Di sicuro è fonte di grande lode se l’uomo è benevolo verso un altro uomo. Gli prescriveremo di porger la mano al naufrago, di indicare la via a chi l’ha smarrita, di dividere il suo pane con chi ha fame? Ma quando mai riuscirò a esporre tutto ciò che si deve fare per gli altri e ciò che si deve evitare? Mentre posso brevemente impartire la norma seguente a cui deve attenersi l’uomo per compiere ciò che deve: tutto quello che tu vedi, in cui sono racchiusi il divino e l’umano, costituisce un’unità. Siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generati parenti (cognati), poiché siamo formati dagli stessi elementi e tendiamo allo stesso fine. Essa ha instillato dentro di noi un amore reciproco e ci ha fatto socievoli. Essa ha stabilito l’equità e la giustizia; secondo il suo ordinamento è piú degno di commiserazione colui che offende di colui che è offeso; secondo il suo imperativo le nostre mani siano sempre pronte a soccorrere i bisognosi. Sempre sia nel nostro cuore e sulle nostre labbra quel verso famoso12:

Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo.

Questo dobbiamo pensare: siamo nati nel vincolo di obblighi reciproci (in commune). La nostra società è come un arco fatto di pietre, che sta su perché esse si sostengono l’una con l’altra, altrimenti crollerebbe13.

Come si vede, nella riflessione di Seneca i communia ciceroniani sono divenuti una sorta di soglia minima, di grado zero, perché si possa veramente parlare di comportamento umano. Dividere il pane con chi ha fame, indicare la via a chi l’ha smarrita, stanno quasi sullo stesso piano dell’astenersi dall’uccidere, il piú elementare dei precetti che regolano il comportamento fra gli uomini. Nella visione stoica di Seneca gli obblighi dell’uomo verso l’uomo vanno ben al di là di queste norme elementari, devono prendere ispirazione dalla “parentela” che la natura ha stabilito fra gli homines, ispirando in loro l’amore reciproco. Il filosofo addita mete piú alte nel campo della “umanità”. Anche su questo testo dovremo ritornare meglio piú avanti. Per il momento limitiamoci a notare il fatto che, alla consueta lista di obblighi, Seneca aggiunge anche quello di salvare la vita ai naufraghi. Si tratta cioè dello stesso comandamento di umanità che abbiamo visto invocato anche dall’Ilioneo di Virgilio all’inizio di questo libro: e che oggi vediamo invece disatteso dalla politica dei respingimenti nel canale di Sicilia. Un dovere, che Seneca riteneva perfino troppo ovvio per dover essere insegnato, nel mondo occidentale contemporaneo – che si vuole cosí civile – viene apertamente ignorato: o per meglio dire, è l’atto di ignorarlo, quello di disattenderlo, che da molti è presentato come un dovere.

Proviamo adesso a spostare il nostro obiettivo verso la cultura ebraica. Nello stesso solco che abbiamo seguito finora, infatti, si inseriscono anche le regole di vita che, secondo Giuseppe Flavio, Mosè aveva impartito al suo popolo:

Altri precetti ci ha dato [Mosè] la cui comune osservanza è obbligatoria (hón hé metádosis anankáia): offrire fuoco, acqua e cibo a tutti coloro che ne hanno necessità, indicare la via, non lasciare un cadavere insepolto, trattare con moderazione quelli che sono ritenuti nostri nemici; non permettere che le loro terre vengano devastate col fuoco o gli alberi da frutto siano abbattuti; inoltre ha prescritto di non spogliare i caduti in guerra, e ha provveduto affinché non si eserciti violenza sui prigionieri, soprattutto sulle donne. In questo modo ci ha insegnato la mitezza (hemerótes) e il comportamento umano (philanthropía)14.

La lista degli obblighi è ancora piú ampia rispetto ai casi che abbiamo fin qui esaminato, ma in essa sono compresi anche i classici communia, quelli che già conosciamo. Come viene esplicitamente affermato, lo scopo che il Legislatore si è prefisso è quello di esortare non solo alla mitezza (hemerótes), ma anche alla philanthropía, ossia al comportamento umano, l’umanità. Ancora una volta viene messo in evidenza che simili obblighi non debbono essere adempiuti solo nei confronti di coloro che fanno parte della stessa comunità cui si appartiene – i membri dello stesso popolo, i concittadini, e cosí via – ma toccano gli “uomini” in generale. Della philanthropía e dell’orizzonte che questa nozione prefigura dovremo tornare a occuparci anche piú avanti, per intanto limitiamoci a osservare che fra le prescrizioni attribuite a Mosè un posto specifico viene riservato al trattamento dei prigionieri di guerra. Si prescrive infatti che essi non debbono subire hýbris, violenza, oltraggio. Leggendo queste affermazioni non si può fare a meno di pensare a quanto prescritto nella Convenzione di Ginevra relativamente al trattamento dei prigionieri di guerra: secondo la quale essi vanno in ogni caso «trattati con umanità»15.

Quanto abbiamo visto fin qui ci ha dunque messo di fronte a un nucleo di doveri – a cui fanno riscontro altrettante attese da parte di chi si trova nelle condizioni previste – che è costituito da obblighi riconosciuti anche al di là dell’appartenenza alla stessa comunità. Si tratta insomma di obblighi umani. Come avevamo avvertito all’inizio del capitolo, quello che ci accingevamo a fare era prendere in esame categorie, termini e concezioni, propri delle civiltà antiche, che in qualche modo potessero richiamare quelli che noi oggi chiamiamo diritti umani – pur venendo articolati, ovviamente, attraverso differenti paradigmi culturali. In questo senso la nostra esplorazione ci permette di raggiungere una prima conclusione: se noi oggi preferiamo parlare di diritti umani – tali cioè che promanano dall’interno stesso dell’uomo, dalla sua persona di uomo – gli antichi parlavano piuttosto di “doveri umani”. Su questo terreno la prospettiva, fra noi e gli antichi, appare in certo modo rovesciata. Là dove noi proponiamo diritti gli antichi propongono piuttosto doveri: per tornare ai nostri esempi, il naufrago si aggrappa alla mano che lo salva non perché ne abbia diritto, ma perché chi gliela porge ha il dovere di non farlo annegare. Si tratta di una distinzione importante «perché una teoria che considera fondamentali i diritti ha un carattere diverso da una teoria che ritiene fondamentali i doveri»16. In realtà, però, la nostra esplorazione interna alle categorie di pensiero che hanno guidato gli antichi in questo delicato territorio, è appena cominciata. Adesso infatti dobbiamo tornare ai Bouzýgai, per poi rivedere anche alcuni fra i testi che abbiamo già trattato.

1. BRETONE 1999, p. 323.

2. SENECA, Lettere a Lucilio, 95, 50-53.

3. FRAZER 1911, p. 108; NILSSON 1967, p. 709; BRELICH 1958, pp. 175-76.

4. ESICHIO, s. v. Bouzýges (β 889 Latte); Scholia ad Aeschinem, 2, 78 (Schultz); EUPOLI, fr. 103 e 113 Kassel-Austin; Appendix proverbiorum, 1, 61 (Leutsch-Schneidewin); Etymologicum Magnum, s. v. Bouzýgia 206, 47 sgg. Gaisford; Scholia ad Sophoclis Antigonem, 255 (Papageorgius); Anecdota Graeca, Bekker 1, 221.

5. CICERONE, De officiis (Picone e Marchese), 1, 50 sgg.

6. BENVENISTE 1976; cfr. il commento di G. Picone e R. R. Marchese a CICERONE, De officiis, p. 323.

7. Ibid., 1, 52.

8. PLAUTO, Rudens, 438.

9. BETTINI 2009.

10. PAOLO-FESTO, De verborum significatione, 3 Lindsay.

11. Ibid., 77 Lindsay.

12. TERENZIO, Il punitore di se stesso, 77. Su questo verso si veda infra, Humanitas e indiscrezione.

13. SENECA, Lettere a Lucilio, 95, 50-53.

14. GIUSEPPE FLAVIO, Contro Apione, 211-14.

15. Articolo 3 della Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra siglata a Ginevra il 12 agosto 1949.

16. Ronald Dworkin cit. da BURNYEAT 2012.