Le maledizioni dei Bouzýgai

Come sappiamo, in occasione della sacra aratura da essi celebrata in terra attica, questi antichi sacerdoti scagliavano maledizioni (arái) contro tre distinte categorie di persone: coloro che si rifiutavano di concedere fuoco o acqua a chi ne faceva richiesta; coloro che si rifiutavano di mostrare la strada agli erranti; e infine coloro che lasciavano insepolto un cadavere. Ma che cosa significava, nel mondo greco, scagliare una maledizione?

Questo atto non aveva certo lo stesso valore che ha per noi quando imprechiamo contro qualcuno o qualcosa. La “parola” di chi maledice, specie se si tratta di un personaggio autorevole, per i Greci è uno strumento efficace, carico di una forza soprannaturale. Due casi mitici possono aiutarci a comprendere meglio di che si tratta. Nell’omonima tragedia di Eschilo Prometeo, incatenato alla roccia del Caucaso, proferisce oscure profezie nei riguardi di Zeus:

verrà il giorno in cui egli sarà umiliato, per quanto sia superbo nell’animo, poiché vuol concludere un matrimonio che lo getterà giú dal trono, nell’oblio. Sarà cosí pienamente adempiuta la maledizione (ará) che il padre Kronos ha scagliato contro suo figlio quando lo ha detronizzato1.

Privato del regno, Kronos ha maledetto Zeus, ha scagliato una ará contro di lui: e questa maledizione si compirà, afferma Prometeo, andrà pienamente a effetto. La stessa cosa che accade allorché Altea, la madre di Meleagro, maledice il figlio perché ha ucciso il fratello di lei. Sconvolta dall’ira e dal dolore la donna scaglia una ará contro Meleagro, percuote la terra con i pugni, invoca Ade e Persefone, divinità degli inferi, perché diano la morte al figlio2:

ed ecco la udí l’Erinni che cammina nel buio, colei che ha il cuore inflessibile.

L’Erinni, dea della punizione, ascolta la maledizione di Altea: Meleagro morirà. Il fatto è che nella cultura greca la maledizione e la punizione sfumano l’una nell’altra. Basta pensare che Arái – cioè “maledizioni” scritto con la maiuscola – è anche uno dei nomi che designano le Erinni, le dee della punizione e della vendetta3. Le arái non sono banali imprecazioni, sono parole determinanti. Funzionano alla maniera di sentenze, ovvero di punizioni sospese ma che, prima o poi, andranno a effetto.

Non sappiamo quale fosse il contenuto delle arái pronunziate dai sacerdoti Bouzýgai contro coloro che si rifiutavano di concedere fuoco o acqua, di mostrare la strada e di seppellire un cadavere. Possiamo però immaginarlo: morte, sterilità, e cosí via. Questo aspetto della maledizione, e conseguente sventura, che colpisce chi viola i doveri umani – corrispettivo dei nostri diritti umani – oggi dovrebbe farci particolarmente riflettere. Non si pensa mai infatti alla Erinni che, invisibile, potrebbe udire i lamenti che si levano fra i torturati nei campi di Libia o fra i naufraghi che annegano di fronte a una costa che li respinge. Siamo laici, non crediamo piú alle punizioni divine, ci siamo dimenticati delle Erinni. Forse però la nostra fede nell’impunità, di fronte a certi comportamenti di rifiuto o indifferenza, potrebbe essere scossa se solo alle Erinni/Arái sostituissimo la storia: con i suoi ritorni, i suoi giudizi, le sue ripercussioni, che come la storia stessa ci insegna, nel corso del tempo (non sempre a distanza di molto tempo) hanno modo di farsi valere attraverso mille imprevedibili vie. Anche la storia a volte cammina nelle tenebre, e ascolta.

Soffermiamoci adesso, per un momento, sulla natura delle trasgressioni colpite dalle maledizioni dei Bouzýgai. Fra esse due presentano un carattere talmente elementare, cosí intuitivo, che non sembrano aver bisogno di particolari commenti. Negare cibo e acqua a colui che ha fame o sete ne mette in pericolo la vita, è quasi un omicidio; lasciare insepolto un cadavere significa ridurre il corpo di un altro uomo alla stregua di quello di un animale, trasformandolo a sua volta in una preda. Oltretutto, la mancata sepoltura contrastava con la credenza, ampiamente diffusa nel mondo antico, secondo cui l’anima del defunto non avrebbe potuto accedere all’Ade se non dopo le esequie4. Nella cultura romana la terrae iniectio, il “lancio della terra” per coprire un cadavere, era anzi considerata una cerimonia cosí importante che poteva essere simbolicamente operata persino nei confronti di corpi appartenenti a persone assenti5. La terza maledizione, però, quella scagliata contro chi rifiutava di mostrare la strada agli erranti (planoménois), risulta meno immediatamente comprensibile. In altre parole, l’obbligo umano cosí violato non sembrerebbe avere la stessa importanza degli altri due.

Cominciamo col dire che nella cultura greca la condizione dell’alétes, l’errante, era sentita come gravata di una speciale sofferenza. «Niente è piú doloroso per gli uomini che l’andare errando», sono queste le parole che Odisseo, vestito da mendicante, rivolge al pastore Eumeo6. Conosciamo casi di antichi erranti che, angosciati dal proprio vagare in terre sconosciute, chiedevano che si indicasse loro la via. Per ricorrere ancora al Prometeo di Eschilo, possiamo ricordare la condizione della povera Io che, perseguitata da Era, è giunta vagando fino al Caucaso7. «Quale terra è mai questa?» esclama, «fra quali genti mi trovo?» Poi, scorgendo Prometeo incatenato alla roccia, si rivolge a lui chiedendogli: «Dimmi in quale terra io sventurata sono giunta vagando (peplánamai)!» Allo stesso modo dei personaggi che i Bouzýgai intendevano proteggere con la loro maledizione, anche Io è vittima della pláne, come la chiamavano i Greci: l’erranza, la condizione di chi va senza sapere dove si trova e senza conoscere qual è la sua meta. E come gli erranti evocati dai sacerdoti attici, anche Io chiede a colui che incontra di indicarle la via. Si tratta del resto dello stesso gesto che Venere, sotto le sembianze di una sconosciuta fanciulla, compie spontaneamente nei confronti di Enea quando gli indica la strada per raggiungere Cartagine. Io si aspetta che Prometeo venga in soccorso della sua erranza, rispettando questo consuetudinario dovere umano, cosí come fa la Venere dell’Eneide.

Non credo però di aver mai davvero compreso l’importanza di questo particolare obbligo prima di aver letto alcune pagine di Agus Morales che parlano dell’oggi, non del remoto passato di cui ci stiamo occupando. A dimostrazione del fatto che certi principî – doveri, diritti, trasgressioni… – hanno un carattere genericamente umano, e come tali possono travalicare i secoli e le culture. Morales sta parlando della condizione degli odierni migranti che fuggono dalla guerra in Siria:

Perché mai hanno bisogno di aiuto? – si chiedono alcuni. – Hanno i soldi, pagano i trafficanti, non sono indifesi. Perché non vendono i loro cellulari, le loro proprietà? Ci sono persone piú bisognose. Come se in quel viaggio contasse di piú restare un giorno a digiuno piuttosto che orientarsi e comunicare con altri che si trovano piú a nord – quelli che sanno quali frontiere stanno chiudendo, quelli che possono avvisare dei pericoli –, come se la bussola non fosse ciò di cui si ha piú bisogno nel deserto.

E piú avanti, a proposito del fallimento della missione umanitaria in Serbia:

non si trattava di una crisi nutrizionale in Africa o di una guerra in Medio Oriente, bensí di una crisi dei diritti umani e della dignità. I bisogni erano altri: la comunicazione e l’orientamento erano per tutti i piú urgenti. Se domani bombardassero Barcellona [la città di Morales], l’ultima cosa che lascerei a casa sarebbe il cellulare8.

Ecco perché i Bouzýgai maledicevano coloro che rifiutavano di indicare la strada a chi l’aveva perduta. Quando si migra, si fugge, si vaga, orientarsi è quasi piú importante che nutrirsi. Lo sa bene la giovane Nausicaa che – allorché Odisseo, naufrago, sbarca sfinito sulla spiaggia di Scheria, l’isola dei Feaci – gli rivolge queste parole9:

Ora, poiché sei giunto nella nostra città e nella nostra terra

non ti saranno negate né vesti né nulla di quanto

si conviene offrire a un misero supplice.

Ti indicherò la città e ti dirò il nome dei suoi abitanti.

Dare pane a chi ha fame (o acqua a chi ha sete) è davvero la stessa cosa che indicare la via a chi l’ha perduta: ecco perché le maledizioni dei Bouzýgai colpivano indifferentemente coloro che rifiutavano questi obblighi in apparenza per noi cosí disparati.

Quanto abbiamo visto fin qui ci permette adesso di mettere a fuoco un ulteriore scarto, relativamente al tema dei diritti umani, fra la concezione propria dei moderni e quella che circolava nell’antichità. Se nella cultura antica incontriamo piuttosto doveri umani che non diritti umani, come già abbiamo visto, a questo va aggiunto anche che la fonte da cui tali doveri promanano – o meglio l’orizzonte culturale in cui essi si iscrivono – ha carattere prima di tutto religioso. Come dirà ancora Nausicaa a Odisseo, «vengono tutti da Zeus gli ospiti e i mendicanti». Dietro chi giunge da lontano, miserabile, c’è Zeus Xenios, lo “Zeus degli ospiti”, il dio che «protegge i supplici e gli stranieri» e «agli stranieri venerabili porge soccorso», scatenando sui trasgressori la sua «ira tremenda»10. Il fatto che le maledizioni dei Bouzýgai siano scagliate da sacerdoti, nel corso di una cerimonia sacra, e si realizzino in un contesto di inizio delle attività agricole, fa capire che, secondo la concezione greca, la trasgressione di tali doveri mette in pericolo il raccolto e la vita stessa della comunità, in quanto provoca l’ira degli dèi. In una cultura come questa, il contesto di relazioni in cui si colloca il rispetto per ciò che noi chiamiamo diritti umani è profondamente diverso rispetto al nostro: non norme giuridiche, argomentazioni filosofiche o risoluzioni politiche, ma produttività dei campi, timore degli dèi, sventure che fanno seguito alla maledizione. Ciò che per noi moderni è un diritto che promana dall’interno della persona, in quanto persona umana, per gli antichi è piuttosto un obbligo che viene imposto dall’esterno, sotto l’impulso della divinità che vigila sul buon ordine del mondo. Torniamo al tema degli stranieri. Come si sa, l’Articolo 13 della Dichiarazione del 1948 sancisce che «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato», riconoscendo cosí a tutti la libertà di spostarsi su territori diversi da quello della propria comunità di appartenenza. Ebbene, per gli antichi questo “diritto umano” alla migrazione suonava piuttosto come un dovere di protezione e rispetto, nei confronti di stranieri e migranti, sancito da Zeus Xenios: il dio che scatena la propria “ira tremenda” su chi non aiuta gli “stranieri venerabili”. Come dice a Didone l’Ilioneo di Virgilio, allorché teme di essere respinto dalle coste di Cartagine:

Se disprezzate il genere umano e le armi mortali

temete almeno gli dèi, memori di giustizia e iniquità11.

Chi viola queste leggi elementari commette empietà. Per illustrare ulteriormente il contesto religioso in cui si collocavano i doveri umani nel mondo classico, però, la cosa migliore è ricorrere ad altri due casi esemplari.

1. ESCHILO, Prometeo incatenato, 910 sgg.

2. OMERO, Iliade, 9, 568 sgg.

3. ESCHILO, Eumenidi, 306 sgg.; GIORDANO 1999, pp. 13 sgg. EIDINOW 2007, pp. 139 sgg. Quelle scagliate dai Bouzýgai saranno verisimilmente state maledizioni condizionali, del tipo: «qualora tu … allora possa tu (o sarai tu)…»

4. FABIANO in corso di pubblicazione, pp. 12 sgg.

5. SERVIO, Commento all’Eneide di Virgilio, 6, 366.

6. OMERO, Odissea, 15, 342; COZZO 2014, pp. 123-24.

7. ESCHILO, Prometeo incatenato, 561 sgg.

8. MORALES 2018, pp. 74, 195.

9. OMERO, Odissea, 6, 191 sgg.

10. Ibid., 9, 270-71; Iliade, 13, 625 sgg.; cfr. Eschilo, Agamennone, 61; 362.

11. Si veda supra, Lacrime delle cose.