Mentre noi esploravamo il mondo antico alla ricerca di diritti (e doveri) umani, da una pagina all’altra di questo libro, i profughi troiani hanno lasciato Cartagine e sono finalmente riusciti a raggiungere l’Italia: il luogo dunque è stato “posto”. Ma il racconto dell’Eneide continua, altre avventure, e disavventure, attendono infatti i fuggiaschi sul suolo del Lazio.
All’inizio le genti che abitano queste terre si sono mostrate ben disposte ad accogliere Enea e i suoi. Il loro re, Latino, offre subito hospitium agli stranieri in nome della “giustizia” che tradizionalmente caratterizza la natura del suo popolo, e giunge anzi a proporre il matrimonio fra sua figlia, Lavinia, ed Enea. Sarà questo il suggello che garantirà il “patto” stabilito fra i Latini e i Troiani1. Ma Giunone, da sempre ostile ai Troiani, fa in modo che fra i nativi e i nuovi venuti si scateni un conflitto violento, che porterà altre morti e altri lutti: finché Giove (che protegge i Troiani) e la sua sposa (che pur continua a non amarli) raggiungeranno un accordo cui farà seguito la pace e la fusione fra i due popoli2. Si conclude cosí l’Eneide, ma non le vicende che in Italia videro protagonisti i discendenti di Enea. Virgilio, nel suo racconto, non poteva che lasciarle intravedere, per via di allusioni o di anticipazioni, perché uscivano dai confini narrativi del suo poema; ma altre versioni del mito romano le hanno puntualmente registrate. Si tramandava infatti che, negli anni seguenti, i discendenti di Enea, fusi ormai con le genti latine, avevano fondato una città, Alba Longa; e che dopo altri drammatici eventi due gemelli, Romolo e Remo, anch’essi discendenti di Enea, abbandonata Alba avevano deciso di fondare una nuova città. Per popolarla era stato aperto un asylum, un luogo di accoglienza, in cui ciascuno sarebbe stato ben accetto: «in esso accoglievano tutti, senza consegnare gli schiavi ai padroni, i debitori ai creditori, né gli assassini ai magistrati, ma dicevano che a tutti garantivano asilo», racconta Plutarco3. Raccolti dunque questi uomini venne il momento di dar vita alla nuova città, ma fra i due gemelli scoppiò una disputa. La discordia culminò nell’uccisione di Remo da parte di Romolo e a questo punto toccò a lui il ruolo di fondatore. Seguiamo ancora il racconto di Plutarco perché gli dobbiamo la versione piú ampia, e piú interessante, di questa vicenda. La stessa che ci fornisce anche l’epilogo di questo libro.
Per prima cosa, dunque, Romolo fece venire dall’Etruria alcuni auguri, esperti nelle norme e nei testi, perché gli spiegassero che cosa era necessario fare:
Scavò una fossa di forma circolare nel luogo in cui sta ora il comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo i costumi e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione (móira) della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo (Ólympos), cioè mundus. In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini. Era compito di quelli che lo seguivano spostare all’interno rispetto al solco [cioè all’interno del cerchio] le zolle che l’aratro sollevava e badare che nessuna restasse all’esterno di esso. Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte (hóion) che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium4.
Dunque Romolo, istruito dagli auguri etruschi, scava una fossa destinata a costituire il cuore stesso della fondazione. Il perimetro della Città, infatti, dovrà prenderla come suo centro. Inutile dire che questa cavità è gravata di un grande significato. In essa vengono gettati sia prodotti della cultura («tutto ciò che è bello secondo i costumi») sia prodotti della natura («ciò che è necessario secondo la natura»), a significare la creazione di una nuova vita, di una nuova civiltà che sta sorgendo. Inoltre nella fossa – e questo costituisce per noi il momento piú rilevante della vicenda – vengono gettate anche zolle tratte dalle rispettive terre d’origine degli uomini che si sono uniti a Romolo. Che significato ha questo singolare segmento del mito? Di certo esso esprime un fortissimo messaggio simbolico: creare la propria terra, costruirla, è quasi un atto di carattere cosmogonico, che va ben al di là delle pratiche usuali di fondazione5. L’atto di rimescolare queste zolle portate da lontano rispecchia l’analogo rimescolamento di uomini venuti d’ogni luogo che Romolo raccoglie nell’asylum al momento di fondare la nuova città: accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo laziale diventa “terra di asylum” anche in modo molto concreto. Come si configura dunque, nella rappresentazione mitica, il suolo della città di Roma? Uno e insieme molteplice: uno perché le singole zolle vengono poi rimescolate fra loro; molteplice perché, in ogni caso, esso ha le proprie origini in altrettanti “suoli” differenti, a cui le singole porzioni di terra rimandano. Difficile non accorgersi che questa rappresentazione della nascita di Roma, e del terreno su cui è destinata a sorgere, comunica anche un forte messaggio politico. Descrivendo il suolo di fondazione come un rimescolamento di terre disparate (in parallelo con una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate), il mito che narra l’origine della Città mette infatti in evidenza uno dei caratteri principali della cultura romana: ossia l’apertura. Sappiamo bene che Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza6. Una città dal carattere aperto verso l’altro, gli altri. Questo atteggiamento di fondo trova la sua espressione narrativa in un racconto di fondazione che mescola fra loro uomini da un lato, zolle di terra dall’altro, in un parallelismo perfetto.
Ammettiamo per un momento che le culture si distinguano in base a una loro tonalità peculiare, allo stesso modo delle opere musicali. Del resto Claude Lévi-Strauss ha sostenuto che «l’insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato sempre da uno stile; e questo forma dei sistemi»7. Se le cose stanno in questo modo, la tonalità che piú specificamente “intona” la cultura romana, e che la rende diversa dalle altre, è costituita appunto dalla apertura. È questo il principio cui si ispira il suo “stile” peculiare. Quando l’imperatore Claudio, nel 48 d. C., volle convincere il Senato ad ammettere come nuovi membri dei notabili provenienti dalla Gallia Comata, si trovò a fronteggiare alcuni slogan che oggi (disgraziatamente) possono suonare familiari alle nostre orecchie: «un senatore italico è sempre meglio di uno che viene dalle province!» Solo che l’imperatore aveva in mano ottimi argomenti per vincere queste resistenze, diciamo, localistiche. Ricordò la saggezza di Romolo che spesso, nel medesimo giorno, considerò molti popoli prima nemici, e subito dopo cittadini; ricordò che la sua stessa gens, i Claudii, erano giunti a Roma dalla Sabina; e che Tarquinio, escluso da ogni carica nella sua città in quanto di sangue “impuro” – figlio com’era di un Greco di Corinto e di una nobile tarquinense – a Roma era diventato addirittura re. Con alle spalle una tradizione come questa, come si sarebbe potuto negare l’ingresso in Senato a qualcuno con il solo argomento che era un Gallo, e non uno dei “nostri”? Ché anzi, se l’imperatore avesse voluto continuare a cercare altri “stranieri” procedendo a ritroso nella storia della sua città, avrebbe potuto citare non solo l’avvento dei profughi troiani e il loro innesto nelle popolazioni locali; ma ancor prima del loro arrivo avrebbe potuto ricordare l’accoglienza che Saturno, detronizzato dal figlio, aveva ricevuto nel Lazio, dove aveva dato inizio a una nuova era di prosperità e di pace. Ma chi occupava questo territorio prima che Saturno vi si insediasse? Un altro forestiero, Giano, che era giunto in Italia con una flotta imponente per poi insediarsi sul Gianicolo, che da lui prese nome. Era stato dunque Giano, un precedente immigrato, ad accogliere Saturno (il nuovo venuto) al suo arrivo. Ma prima di Giano e di Saturno? Il Lazio era occupato dagli Aborigines, si diceva, dunque, sembrerebbe, un popolo finalmente “originale” (ab origine). Virgilio descrive questi indigenae laziali come una stirpe di uomini nati addirittura «dai tronchi e dal rovere duro», le querce del Lazio8. Con questi Aborigines saremmo dunque giunti fino alle “radici” del popolo romano? Sarebbero loro il “ceppo” originario nel quale Giano, Saturno, i Troiani, e tutta la sequela di stranieri che si erano insediati nel Lazio, si sarebbero per cosí dire di volta in volta “innestati”? Non fosse che i Romani stessi, in realtà, davano anche un’altra etimologia del nome che designava questa antica popolazione: Aborigines quasi Aberrigines, ossia da ab e errare “vagare”9. Non c’è nulla da fare, per i Romani le “origini” non potevano che coincidere con il loro contrario, ossia il mutamento, il movimento, il sopraggiungere. Come scriveva Seneca alla madre Elvia, invitandola a osservare le genti che popolavano Roma:
Osserva questa moltitudine … la maggior parte è priva della patria. Sono confluiti dai loro municipi, dalle loro colonie, insomma da tutto il mondo … fa l’appello di tutti costoro e chiedi a ognuno di dov’è: vedrai che la maggior parte ha lasciato il suo luogo d’origine per venire in una città che è la piú grande e la piú bella, ma non è la propria … L’impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si traeva dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana … farai fatica a trovare una terra abitata ancora dagli indigeni: tutto è il risultato di mistioni e innesti10.
Torniamo dunque alle zolle della terra patria che ciascun membro dell’asylum aveva portato con sé per gettarle poi nel mundus di fondazione. Questa mitica combinazione, in un unico suolo, della terra d’origine e di quella cittadina, non fa che attribuire concretezza simbolica all’orientamento culturale che indirizza stabilmente la rappresentazione che i Romani hanno voluto dare di se stessi: la mescolanza, la molteplicità, il movimento. Ché anzi, la zolla della terra patria gettata da ciascuno nel mundus rispecchia anche una delle istituzioni piú interessanti della società romana: l’origo ossia quella forma giuridica che permette al romano di avere “due patrie”. Come spiegava Cicerone nel De legibus:
tutti coloro che vivono nei municipi hanno due patrie, una di natura, l’altra di cittadinanza … una che riguarda il luogo, l’altra il diritto11.
Dopo la fine delle guerre sociali, all’inizio del I secolo a. C., a Roma era stata infatti inaugurata una politica della cittadinanza di cui, potremmo dire, le varie zolle di terra del racconto di fondazione costituiscono una sorta di trascrizione mitica. Ai cittadini provenienti dai municipi veniva infatti attribuita una origo, ossia un “luogo originario”: ed era per l’appunto il possesso di questa origo esterna alla città che dava accesso alla cittadinanza. Proprio come, al momento della fondazione, era il possesso di una porzione della terra di origine che dava accesso al nuovo suolo della patria comune. Nel mito che tracciava l’origine della Città i Romani avevano insomma lasciato uno spazio non solo all’alterità, alla diversità, ma addirittura alla possibilità di essere se stessi e altri nello stesso tempo. Il fatto è che la cultura di questo popolo somiglia piú a una via, o meglio a un acquedotto – artefatto cosí tipicamente romano –, che non a un albero il quale ostinatamente si sviluppa dalle “proprie” radici. La cultura romana non esita a porsi come un transito, a collocare la propria identità anche fuori da se stessa, e non solo al proprio interno. In una parola l’identità dei Romani, se ne ebbero una, è di natura “eccentrica”12: per questo la loro civiltà può ancora costituire un modello valido per un’Europa che, tutto al contrario, cerca testardamente di trovare se stessa spezzettandosi in una pluralità di (presunte) nazioni “sovrane” e centrate su se medesime. Tanto da trovarsi perennemente in affanno di fronte alle diverse forme di alterità – di costumi, di idee, e soprattutto di persone – che si affacciano ai suoi confini.
Sopra abbiamo provato a immaginare che le culture, come le opere musicali, possano essere distinte in base a una loro tonalità peculiare. Naturalmente non possiamo pretendere che questo sia sempre vero, ossia che l’intero arco di una cultura (specie se si estende nel tempo per molti e molti secoli) mantenga la medesima intonazione. Per restare ai Romani, di certo vi sono stati anche casi in cui essi sembrano essersi ispirati alla chiusura, piuttosto che alla apertura. Ma continuando ad ammettere che le tonalità culturali esistano, quale sarebbe quella piú peculiare dei Greci? Difficile dirlo, la cultura greca è caratterizzata da una tale pluralità ed estensione che racchiuderla tutta fra quattro note, per cosí dire, non avrebbe senso. Tornando a quanto abbiamo visto nelle pagine precedenti, per esempio, non può sfuggirci il fatto che si deve ai Greci l’invenzione del concetto di “barbaro”, con il relativo giudizio negativo, talora sprezzante, nei confronti dei non Greci: cosa che aveva portato alcuni, poeti e filosofi, a ritenere semplicemente “giusto” che i barbari fossero schiavi dei Greci. Dunque, una tonalità di chiusura. È pur vero però che, come ugualmente abbiamo visto, fra i pensatori greci si sono levate voci che contemporaneamente smentivano in modo diciamo “illuministico” la distinzione fra Greci e barbari; mentre dobbiamo ancora al pensiero greco l’idea, o l’utopia, del cosmopolitismo, come tale capace di cancellare il concetto stesso di “straniero” ovvero la distinzione fra “noi” e “loro”. Se però decidessimo di concentrare il nostro obiettivo sull’Atene del V e IV secolo a. C. (quella di Pericle, di Tucidide, di Platone, di Isocrate), la tonalità che contraddistingue questa fase della cultura greca ci apparirebbe subito molto netta, e ben diversa da quella che abbiamo visto caratterizzare la cultura romana. Gli Ateniesi di questo periodo, infatti, o meglio i loro rappresentanti politici e intellettuali, hanno elaborato un mito che pare proprio costituire il rovescio di quello che verrà narrato a Roma a proposito delle origini della città. Un mito che ha anch’esso come protagonisti il “suolo” e gli “abitanti” della città – salvo che inverte radicalmente il rapporto che legava questi due elementi nel mito romano.
Stiamo parlando della autochthonía, un modello sociale e culturale che, all’opposto di quello romano, evoca non apertura ma chiusura. Questo mito, peraltro condiviso anche da altre città greche oltre ad Atene, pretendeva che gli Ateniesi fossero “proprio di quella stessa terra” – è questo il significato letterale di autochthonía, autóchthon – sulla quale vivevano: intendendo con questo d’essere stati i primi ad abitare il suolo dell’Attica, e quindi d’essere gli unici degni di risiedervi. Gli Ateniesi sentivano d’esser nati, in qualche modo, dalla terra attica. Come scriveva Isocrate «a noi soli fra i Greci spetta il diritto di chiamare la medesima terra nutrice, patria e madre»13. Altri miti trasmettevano ad Atene un messaggio che, ancor piú esplicitamente, evocava lo stretto legame che univa gli Ateniesi alla loro terra. Ai primordi della città, si narrava, gli Ateniesi furono governati da ben due re il cui corpo era per metà quello di un serpente, Cecrope ed Erittonio, a significare il profondo radicamento “ctonio”, terrestre, della loro sovranità e della loro città. Di questi due re Erittonio sarebbe stato generato direttamente da Gaia, la Terra, e dallo sperma di Efesto. Il dio lo avrebbe sparso inseguendo la dea protettrice della città, Atena, nel vano tentativo di possederla14. L’autochthonía – gli Ateniesi “proprio di quella terra” – costituisce dunque un mito di esclusione, che ad Atene lascia spazio solo a chi ha un legame diretto col suolo stesso su cui sorge la Città. Esso trasmette l’immagine di una comunità compatta, formata com’è da uomini la cui eugéneia (“buona nascita”), in virtú della comune origine e della mancanza di contatti con altri popoli, non è possibile mettere in discussione; di una popolazione che, grazie allo speciale rapporto, sacro e indissolubile, con la propria terra, risulta piú unita e amante della patria. L’autochthonía costituisce dunque un mito utile a stabilire la superiorità degli Ateniesi nei confronti di tutti gli altri Greci e un’eguaglianza fittizia, ma ideologicamente potente, all’interno, poiché essa pretende che gli abitanti abbiano tutti la stessa origine15.
Ad Atene comunque l’impulso verso l’esclusione non veniva solo dal mito, ma anche dal diritto. L’autochthonía infatti era perfettamente coerente con le leggi ateniesi in materia di cittadinanza. In questa città non si poteva diventare cittadini, lo si era. Solo il figlio di genitori entrambi cittadini ateniesi poteva godere di questo privilegio, tutti gli altri – stranieri, meteci e schiavi – non avevano alcuna possibilità di riceverlo. Ai meteci inoltre era vietato acquistare terra in Attica. Sarebbe stato come se gli Ateniesi vendessero un pezzo della propria madre… Il modello della autochthonía veicola dunque l’immagine di una cultura che, all’inverso di quella romana, pone la propria identità esclusivamente in se stessa, una cultura “autocentrica”, tanto quanto quella romana si presenta eccentrica. Come tale gli Ateniesi della autochthonía fanno coincidere la propria forza con la propria purezza, escludono gli altri perché sono pervicacemente convinti di bastare a se stessi – anzi, sono convinti che l’ingresso degli altri sul suolo della loro “madre”, inquinandoli, finirebbe per indebolirli. Secondo Aristotele la “diversità di stirpe” all’interno di una stessa città è motivo di “sedizione interna”16. Inutile dire che il mito della autochthonía dovrebbe risuonare come una musica piena di fascino alle orecchie degli odierni “identitari” o “sovranisti” – ammesso che lo conoscano, naturalmente –, autorizzandoli a escludere dal suolo delle loro nazioni o delle loro regioni tutti coloro che vi siano giunti da fuori: e insieme dando loro l’illusione di essere non quelli che sono arrivati semplicemente “prima di altri” ad abitare un certo territorio, ma che sono stati i soli ad averlo fatto fin dal principio.
Se dunque ad Atene è la terra che produce gli uomini, secondo il mito della autochthonía e quello dei re-serpenti, a Roma, come abbiamo visto, sono piuttosto gli uomini che producono la terra, creandone una nuova. I Romani non si sentono affatto “figli” della loro terra, tutto il contrario. Ché anzi, nel latino colloquiale l’espressione terrae filius “figlio della terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, uno sconosciuto. Come si vede, dunque, i Romani davano ben poco valore alla “autoctonia”, al nascere dalla terra (del resto il filosofo Favorino, I-II d. C., riteneva che questa condizione fosse se mai propria dei topi e di altri animali spregevoli)17. A questa visione simmetrica, rovesciata, che il rapporto fra la terra e gli uomini presenta, rispettivamente, nel mito ateniese e nel mito romano, fa riscontro un’analoga inversione nella visione dei rapporti politici: a Roma lo straniero, lo schiavo, anche se originario di terre lontane, può diventare cittadino; ad Atene ciò è impossibile, la cittadinanza riguarda solo coloro che siano figli di genitori entrambi ateniesi. E anzi, a Roma l’istituto dell’origo permette addirittura che alcuni abbiano “due patrie”: ad Atene non se ne può avere che una, quella direttamente imposta dalla terra da cui si è stati “generati”.
Raccontando gli eventi relativi alla fondazione di Roma, lo storico Tito Livio scriveva che proprio da quella moltitudine di uomini, raccolta “senza distinzioni” attorno a Romolo, scaturí la “forza” che avrebbe fatto un giorno la grandezza della città18. I discendenti dei profughi e dei naufraghi credevano davvero nella virtú della mescolanza: erano ben consapevoli del fatto che a Roma «tutto è il risultato di mistioni e innesti», come diceva Seneca. E ritenevano che questo fosse ragione di forza, non di debolezza. Al contrario, era stato proprio il rifiuto di mischiarsi con altre genti che aveva sgretolato le fortune di popoli che avevano coltivato il mito della chiusura, della separazione, il mito della propria purezza. Come affermava ancora l’imperatore Claudio: «quale altra scelta rovinò Atene e Sparta, che pure erano forti nelle armi, se non tener lontani i nemici sconfitti in quanto appartenevano a stirpi forestiere? Al contrario Romolo, il nostro fondatore, fu cosí saggio che, nell’arco di uno stesso giorno, molti popoli considerò prima nemici, poi concittadini. Siamo stati governati da stranieri»19.