Note al testo

1 Tradizionalmente si antepongono al principio della commedia i “personaggi del dramma”. La parola “personaggio” comporta però implicazioni psicologiche estranee alla Commedia Antica, così come la parola “dramma” risente di stratificazioni semantiche e storico-critiche che equivocano il senso che essa aveva almeno fino ad Aristotele, quello di “azione” (da drao). Con “maschere” si sottolinea una caratteristica strutturale del teatro antico, che aveva una funzionalità pratica irrinunciabile (soprattutto in commedia, dove all’alto numero di ruoli corrispondeva un numero massimo di cinque attori, sempre maschi, che interpretavano ognuno più parti), ma al contempo rivelava una tipizzazione fisionomica che rendeva subito riconoscibile al pubblico il soggetto in questione a prescindere dall’attore che gli dava vita e dalle sfumature “intimistiche” dell’evoluzione drammatica.

2 Il prologo della Lisistrata (vv. 1-253), diversamente che negli Acarnesi e nelle Nuvole, dove l’azione comincia con il monologo solitario di un personaggio, o in altre commedie successive come le Vespe, dove un discorso incipitario segue un iniziale scambio di battute, è totalmente dialogico. Non solo: tutto il prologo mette in scena la sproporzione tra un personaggio che sa e ha un piano e uno o più che non sanno o, quando sanno, recalcitrano. Con l’eccezione degli Uccelli,dove entrambi i personaggi prologanti hanno un ruolo attivo, la Lisistrata, le Tesmoforiazuse, le Rane e il Pluto ostentano questa disparità (nei Cavalieri e nella Pace i due personaggi dialoganti di contro sono puramente passivi e funzionali: cfr. su questo Russo 1984, pp. 134-135). Quest’elemento istituisce fin dal principio una relazione diretta con l’Antigone di Sofocle e il suo prologo duale e asimmetrico, cioè con uno degli ipotesti antifrastici della Lisistrata (cfr. Greco 2013a, pp. 7-22 e p. 127, n. 5).

3 La battuta (e l’intero testo) inizia con un’avversativa, come se Lisistrata continuasse un discorso interiore già avviato e materializzasse a un certo punto l’ansia, l’impazienza che l’attanaglia per il mancato arrivo delle donne che tra poco scopriremo ha convocato. Il paradosso che la protagonista appronta nei primi versi fa leva su uno dei luoghi comuni che più spesso riguardavano le donne: quello di dedicare le proprie energie migliori a occupazioni frivole senza curarsi mai di quel che davvero conta, cosa da cui Lisistrata prende subito le distanze. La traduzione, in una prospettiva fin dall’inizio deliberatamente naturalizzante (cfr. la Nota alla traduzione), restituisce una serie di riferimenti a occasioni di divertimento femminile dell’epoca con un corrispettivo familiare: bakcheion, “luogo dove ci si dedica alla baldoria bacchica”, diventa “orgia”; es Panos, che si riferisce alla grotta di Pan (v. 911), dove le donne si davano convegno tra loro, e che era spesso associata a Dioniso e ad Afrodite, cioè all’amore, diviene “fidanzamento”; Koliad, chesi riferisce al sito di un promontorio dov’era la sede di un grande santuario di Afrodite, diviene “nozze”; infine Genetyllidos, divinità femminile connessa con la nascita di figli, qui viene restituita con “compleanno”. “I due ultimi nomi in greco hanno risonanza oscena” (Marzullo 1977, p. 489, n. 1).

4 La facciata scenica (skene) si presenta con almeno due porte (forse tre), che di volta in volta, con tipici effetti di assolvenza e dissolvenza drammaturgica, prodotto della collaborazione attiva del pubblico antico ovvero della scenografia verbale che inscena fin da subito luoghi e tempi dell’azione, assumono funzioni diverse. La porta centrale dove Lisistrata ha verosimilmente convocato le donne diventerà l’ingresso ai Propilei, cioè all’Acropoli, durante l’occupazione (vv. 245-251). La seconda porta, che potrebbe essere quella da cui esce Calonice (v. 5), diverrà l’ingresso alla grotta di Pan (v. 911), luogo d’elezione della scena tra Mirrine e Cinesia (vv. 829-979). Bisogna immaginare un tetto che dall’alto della facciata scenica porta agilmente al palcoscenico, proprio al principio della scena appena citata, quando le donne vi appaiono sopra (v. 829). L’orario d’inizio dell’azione deve essere intorno all’alba (vv. 16 e 71).

5 Entra una delle protagoniste del prologo. Ha un nome parlante (Calonice = Bella Vittoria), che è forse anche di buon auspicio rispetto all’impresa che le donne stanno per intraprendere. È caratteristica di molti personaggi della Commedia Antica portare un nomen omen, un nome che è un destino: oltre a Lisistrata (Colei che scioglie gli eserciti) e a Calonice, anche Mirrine e il marito Cinesia, tra gli altri, hanno nomi parlanti. Mirrine, al di là della possibile identificazione con la sacerdotessa di Atena Nike del 411 a.C. che si chiamava così (cfr. Henderson 1987, p. xl), è nome che a partire dal “mirto” evoca i genitali femminili, così come quello di Cinesia, che viene da kinein (“muoversi”), in questo caso da intendersi come sinonimo di binein (versione volgare di “fare l’amore”), evoca l’atto da lui bramato nella scena con la moglie (sui nomi parlanti, cfr. Ercolani 2002). L’espressione che Calonice legge nel volto di Lisistrata, assumendo la fissità della maschera indossata dagli attori, è una tipizzazione che la parola fornisce alla fissità di un volto dato una volta per sempre, a beneficio degli spettatori (cfr. v. 707). Il fatto che Calonice apostrofi la sua interlocutrice con “figlia” (teknon) indurrebbe a crederla un po’ più matura di Lisistrata, sebbene non così avanti con gli anni come le vecchie che tra breve irromperanno nell’Acropoli, occupandola.

6 Lett. “truffaldine”, “maneggione”, “disposte a tutto”. Il cliché della donna che trama senza scrupoli è di quelli ideologicamente consolidati da una lunga tradizione. L’intera commedia è disseminata di luoghi comuni sulle manchevolezze fisiche e morali delle donne: il progetto di Lisistrata nasce proprio dalla possibilità di cambiare di segno a quel che viene da sempre considerato come deprecabile, incorreggibile, conseguenza di una tara ancestrale.

7 Lett. “per Zeus”. La traduzione “quant’è vero Iddio” ricorrerà largamente in seguito omologando tutte quelle espressioni, interiezioni, invocazioni nelle quali vengono chiamate a testimoni o in soccorso le divinità, più come forma idiomatica, frase fatta, intercalare ovvero tic fàtico che come reale convinzione religiosa. Il corrispettivo scelto per l’italiano abbassa il registro secondo una modalità popolare che ribadisce un’asserzione, un’espressione di volontà, una minaccia.

8 Pragma diventa “affare” per servire al doppio senso osceno che si svilupperà di qui a pochi versi: inteso in senso astratto e serio da Lisistrata, assumerà sembianze antropomorfiche per non dire andromorfiche nel malinteso deliberato di Calonice. Lisistrata, tutta presa dal suo piano, non coglie inizialmente il riferimento al membro maschile sul quale ripetutamente torna Calonice. Fin dal principio Calonice si presenta come il bomolochos, personaggio che avrà un grande seguito nella storia del teatro comico, essendo di volta in volta il buffone, il clown, il parassita, il controcanto non sempre consapevole del protagonista, il Sancho Panza che equivoca o punge, non sempre consciamente, abbassando o deviando il corso delle argomentazioni e riportando più spesso al punto di vista del senso comune, concreto e tradizionale. La parola bomolochos significa letteralmente “colui che si mette a fianco degli altari” per sottrarne i pezzi di carne che cadono o che vengono scartati nel corso dei sacrifici. Sulle relazioni tra questa figura e i suoi antecedenti epici di eroi “negativi” (Margite, Tersite, Polifemo ovvero il Ciclope), cfr. Whitman 1964, pp. 47 sgg.

9 Il riferimento del verbo ekyptasen, di certo osceno, lascia spazio alla possibilità che Calonice sia intervenuta gestualmente a illustrare se si trattasse di fellatio o di “rear-entry vaginal intercourse” (cfr. Henderson 1975, pp. 178 sgg.).

10 Prelibatezza che i palati ateniesi non gustavano più essendosi rarefatti, a causa della guerra, i commerci con il resto della Grecia, compresa la Beozia dove, sul lago Copaide, venivano pescate queste famose anguille.

11 Ovvero, superstiziosamente, non dico quello che, pronunciato, potrebbe portare sfortuna, cioè provocare il fallimento del piano.

12 Cfr. Andrisano-Pavini in Andrisano 2006, pp. 125-141. Le autrici suggeriscono la possibilità di una deissi ironica al pubblico femminile realmente presente in teatro, agghindato a dovere per l’occasione. La questione della presenza delle donne in teatro nel V secolo a.C. è molto dibattuta e ha diviso i critici proprio a partire da altri due passi di Aristofane: Pace (vv. 962-967) e Uccelli (vv. 793-796), che non permettono una parola definitiva in un senso o nell’altro (esemplarmente si vedano, su fronti contrapposti, Mastromarco 20034, pp. 7-8, e Thiercy 1997, p. 118, n. 2, e p. 1155, n. 2). L’anonimo autore della successiva Vita Aeschyli afferma che “alcuni poi dicono che, nella rappresentazione delle Eumenidi, l’apparizione dei membri del coro uno alla volta provocò una tale impressione nel popolo che i bambini svennero e le donne abortirono” (v. 9). La notizia, destituita di fondamento, sarebbe però un ulteriore segnale della presenza femminile a teatro nel V secolo oltre che della portentosa abilità scenografica di Eschilo. Bisogna ricordare che il teatro ateniese come luogo politico per eccellenza è tutto connotato in senso maschile, dall’autore agli attori che recitano tutti i ruoli, maschili e femminili: la presenza fisica delle donne non è da escludere ma neppure da ratificare con certezza.

13 I “lustrini”, lo “strascico etnico” e i “tacchi da sballo” restituiscono la seduzione presupposta nel testo di partenza da vesti di color giallo (croco), tuniche di provenienza orientale e sandali di probabile origine egiziana, dunque esotici, in una chiave familiarizzante.

14 Lett. “del Paralo o di Salamina”. Sommerstein 2001, p. 157, chiarisce il senso della frecciata: Aristofane non si riferisce tanto ai luoghi corrispondenti (la costa sud-orientale dell’Attica e l’isola prospiciente), quanto alle due sacre triremi, navi da guerra, che portano questi nomi e che sono veloci per antonomasia: dunque dovrebbero produrre nelle abitanti delle rispettive zone altrettanta velocità.

15 Demo dell’Attica che più di altri ha sofferto le conseguenze della Guerra peloponnesiaca, le cui donne dovrebbero più di altre essere sensibili all’idea di por fine al conflitto.

16 Il greco takateion prospetta un’alternativa: che ci si riferisca a Ecate, divinità cara alle donne, la cui immagine si trovava spesso fuori dalle case e alla quale ci si rivolgeva uscendo in cerca di protezione (la moglie di Teogene sarebbe già in strada, ma la battuta non è completamente perspicua), oppure che si parli di akatos, piccola imbarcazione e al contempo coppa per libagioni: la moglie di Teogene avrebbe già sollevato la vela o la coppa, cioè sarebbe sulla via, ma sarebbe anche ubriaca, secondo il più classico dei luoghi comuni sulle donne, che tornerà anche in seguito (già al v. 60 le donne “trottano” con doppio senso).

17 L’ingresso ritardato delle prime donne, necessario alla suspense che drammatizza una serie d’informazioni fondamentali, viene annunciato dal cattivo odore dell’anagiro, pianta fetida con potenzialità terapeutiche, originaria del demo attico di Anagirunte.

18 Lett. “un toro”.

19 La spartana Lampitò è in forma smagliante secondo il cliché che vede nel mondo spartano il trionfo della bellezza e del benessere fisico (i due dèi che invoca nel testo di partenza sono i Dioscuri, Castore e Polluce, fratelli di Elena, patroni di Sparta). La traduzione sceglie deliberatamente di non riprodurre il dialetto di Lampitò nella lingua di arrivo così come proposto da Aristofane (su cui, tra gli altri, cfr. Henderson 1987, pp. xlv-l). I molteplici tentativi in questo senso non convincono: scelgo tra i tanti quello del Romagnoli (1925) e quello recentissimo di Funaioli (2009). La battuta d’ingresso di Lampetta, negli endecasillabi di Romagnoli,suona in romanesco: “Sfido! Fo la ginnastica, e me sbatto / li calcagni alle chiappe, quanno zompo!”. La soluzione iperfamiliarizzante Atene/Sparta = Firenze/Roma in questo caso diminuisce e determina uno spiazzamento fuorviante che troviamo ribaltato in Funaioli: “E ci credo per i du’ ddèi: fo ginnastica, salto che mi do i calci nelle chiappe”; diversi in questa direzione il caso e l’esito del Vantone di Pasolini che traduce in alessandrini e in romanesco il Miles gloriosus di Plauto, su cui si vedano le pertinenti osservazioni di Gamberale 2006. Un’ipotesi di lavoro potrebbe essere quella di esplorare potenzialità che la pagina scritta non può restituire, cioè un’inflessione, un accento che suoni straniero, di parole della propria lingua pronunciate da chi non è madre lingua. Ma questa è un’indicazione registica, che la drammaturgia così come la traduzione fatica a registrare.

20 L’accoglienza delle straniere si concentra all’inizio su un’anamnesi cinguettante e molto esplicita delle parti intime che dovevano essere segnalate dal costume, imbottito in certi punti, e forse dipinto all’occorrenza per evidenziare il seno, il pube e il sedere in forma caricaturale (cfr. Stone 1981). D’altra parte i personaggi maschili saranno forniti di fallo, retaggio di cerimonie della fertilità, alle quali la commedia probabilmente attinge alle sue origini: nel caso della Lisistrata, i grossi falli prominenti diventeranno tematici e acquisteranno nel corso della commedia valenza espressiva e pertinenza drammatica, non solo rituale (cfr. Mastromarco 20034, pp. 124-126). L’indicazione geografica sulla provenienza della Corinzia ovvero su Corinto si capovolge subito in senso osceno.

21 L’olisbos, strumento del piacere femminile solitario, vanto delle esportazioni di Mileto, scarseggiava a seguito della rivolta dei Milesii dell’anno precedente alla messa in scena (Tucidide, La guerra del Peloponneso, VIII, 17). La misura che Lisistrata gli attribuisce (oktodaktylon) è piccola: la pointe sta nel fatto che, vista la situazione precaria, anche un dildo di dimensioni ridotte gioverebbe all’occorrenza.

22 Aristofane non perde l’occasione di sottolineare l’inclinazione perniciosa delle donne al bere, in questo caso del clown in scena, Calonice, stereotipo intramontabile.

23 Il testo di partenza dice di una “sogliola” divisa in due.

24 Si tratta del monte più alto della Laconia, regione in cui si trova Sparta, da dove viene Lampitò.

25 L’effetto di ritardo sulla rivelazione del piano genera una reazione sproporzionatamente negativa nelle donne, fino a un attimo prima pronte a tutto: le domande accorate di Lisistrata dopo la proposta cadono apparentemente nel vuoto, ma presuppongono una risposta agita delle interlocutrici che determina una sempre nuova e più accorata formulazione. In molti hanno rilevato la contraddizione di un piano che prevede l’astinenza dai mariti, quando si è detto fino a poco prima che i mariti non ci sono mai, in quanto sempre impegnati in guerra. Ovviamente la coerenza della commedia è quella carnevalesca che assume la relazione con lo spazio, con il tempo e con il principio di non contraddizione in un’ottica grottesca che non avrà disturbato il senso critico del pubblico della commedia, poco esigente nei confronti della veridicità e della coerenza logica della trama.

26 Non concordo con Henderson 1987, p. 83, n. 136 (ma cfr. anche l’Introduzione, pp. xli-xlv), che attribuisce questa battuta a una donna (gyne) non meglio specificata e non a Mirrine. Sono già quattro gli attori-personaggi in azione al momento (Lisistrata, Calonice, Mirrine, Lampitò), circondati da un discreto numero di comparse (donne ateniesi, beote, corinte): inserire un quinto attore è ipotesi antieconomica che non serve a movimentare una scena già molto movimentata (sulla difficoltà di attribuzione di molte battute in ambito comico, dovuta alle peripezie della tradizione manoscritta, cfr. Mastromarco 20034, pp. 118-120).

27 Probabile il riferimento al Tiro di Sofocle (tragedia che non ci è giunta), nella quale si raccontava la vicenda della principessa Tiro, ingravidata da Poseidone, che mette al mondo due gemelli (Neleo e Pelia) e li espone in una barca sul bordo di un fiume fino a una scena di agnizione finale. Il risentimento di Lisistrata si appunta sul fatto che le donne sarebbero capaci di pensare soltanto alla seduzione e ai figli.

28 Con tutta l’ambiguità che la parola possiede in italiano, a seconda che la “e” tonica sia chiusa o aperta. In greco psole è parola esplicita.

29 Lett. “scuoiare il cane scuoiato”, con riferimento al materiale (spesso pelle di cane) di cui era fatto il dildo, il fallo artificiale per l’autoerotismo femminile: a forza di essere usato, in assenza di quello autentico, si consumava. L’affermazione confligge con quanto affermato poco sopra sulla penuria di questi oggetti di piacere: di nuovo ci troviamo dinanzi alla logica paradossale e incongrua del comico carnevalesco.

30 L’inaffidabilità e la corruzione dei leader ateniesi è topos della commedia antica che qui per bocca di Lampitò pare divenire una vera e propria apostrofe al pubblico.

31 L’accenno preoccupato di Lampitò al tesoro della Lega delio-attica, cioè al cuore del potere economico ateniese che ospita sull’Acropoli il patrimonio dell’Impero (dal 454 a.C.), apre il secondo filone del plot della Lisistrata: lo sciopero del sesso non basta se non si accompagna all’interdizione della possibilità rilevante di attingere alle sostanze dell’Impero per finanziare continuativamente la guerra come è stato fino ad allora. Seppur provata dalla disastrosa impresa a Siracusa (415 a.C.) e sull’orlo di un colpo di stato (411 a.C., su cui cfr. infra), la democrazia ateniese può ancora contare, oltre che sulla sua ingente flotta, su consistenti risorse economiche, frutto dei tributi che gli alleati versano annualmente, in grado di protrarre la guerra con Sparta (al momento finanziata dalla Persia), cominciata nel 431 a.C., vivo Pericle, ancora per lungo tempo, visto che il sempre prosperante partito della guerra, quello che s’identifica con le istanze democratiche più radicali, ha tutto l’interesse a proseguire una politica aggressiva ed espansiva che, salvaguardando i privilegi anacronistici del demo ateniese, arricchisce i suoi sponsor più spregiudicati (cfr. Canfora 2011, pp. 81-163).

32 L’ordine pubblico ad Atene era affidato a schiavi/arcieri di origine scita, che facevano funzione di veri e propri poliziotti. Nella prospettiva rovesciata della Lisistrata anche l’ordine pubblico è in mano a una “poliziotta scita” che qui viene chiamata per svolgere, goffamente, un ruolo tutt’altro che nobile: quello di apprestare l’occorrente per il giuramento “alcolico”.

33 Ovvero i testicoli della vittima, sui quali più solido si cementava il patto. Il giuramento messo in scena da queste donne trasfigura sistematicamente in farsa gli aspetti solenni che per prassi fanno da cornice al sacrificio dell’animale sul quale si suggella il patto. Alla proposta di Lisistrata di uno scudo sul quale svolgere il rito, troppo bellico per l’occasione, segue la controproposta di Calonice, altrettanto macabra, di un cavallo da squartare: infine si addiviene alla possibilità di una coppa dove “sgozzare” l’otre di vino, il cui sangue profumato, una volta condiviso, costituirà il legame indissolubile tra le donne convenute.

34 Aristofane allude a una scena consimile e seria dei Sette contro Tebe di Eschilo (vv. 42 sgg.), e utilizza un composto, melosphagousas (“uccisori di greggi” o “di animali” più in generale), che dà paratragicamente un sapore eschileo all’esordio del giuramento, prima che la scena prenda una piega totalmente comica.

35 Vino molto rinomato e di pregio. Bere vino puro era considerata usanza barbarica: la commedia non si fa pregare nell’attribuirla alle donne.

36 Lett. “come approvo questo giuramento indicibile”.

37 In greco Peithò, personificazione della Persuasione, dea del seguito di Afrodite.

38 Lett. “per Castore”.

39 “Raising the legs during sexual intercourse is an example of the woman’s enthusiastic cooperation” (Henderson 1987, p. 96, n. 229).

40 Lo scolio ad locum ci informa che alcune grattugie, come molti altri utensili domestici decorati con motivi animaleschi, avevano manici d’avorio scolpiti a forma di leonessa accovacciata, che porge le terga indietro verso l’alto.

41 La scelta di tradurre le formule del giuramento con doppi ottonari va nella direzione della cantabilità, di un ritmo galoppante e serrato che si addice alla scena (cfr. la Nota alla traduzione).

42 Con puntuale sapienza drammaturgica Aristofane apre il nuovo fronte della vicenda grazie a un grido retro-scenico che rappresenta il segnale della presa dell’Acropoli da parte delle donne anziane. Concluso l’accordo e rimandata Lampitò in patria a mettere in atto lo sciopero, le donne accedono all’Acropoli conquistata, la cui difesa sarà il motore dell’azione scenica. La dissolvenza operata da Aristofane guida l’immaginazione dello spettatore dalla sfera privata dello sciopero sessuale alla sfera pubblica dell’occupazione del centro politico della città risemantizzando la porta principale della skene, davanti alla quale si è verosimilmente svolta tutta la scena precedente, eper la quale tra poco le donne si addentreranno per accedere all’Acropoli.

43 L’uscita delle donne e la fine del prologo coincide con l’inizio della parodo (vv. 256-386), cioè con l’ingresso nell’orchestra del coro, eccezionalmente dimezzato. Infatti fino al v. 318 saranno in scena solo dodici dei ventiquattro coreuti che componevano il coro nella Commedia Antica, a rappresentare i vecchi ateniesi, reduci di guerra e difensori della tradizione. Solo a partire dal v. 319 entreranno in scena gli altri dodici coreuti, che rappresentano invece il coro delle donne venute in soccorso a quelle che occupano l’Acropoli e a contrastare l’altro semicoro. I due semicori resteranno separati e conflittuali fino al v. 1043, quando si riconcilieranno: questa separazione ha pochissimi riscontri nel teatro coevo, sia comico che tragico, ma ha la funzione di drammatizzare fin dal principio la guerra dei sessi che è il filo rosso della Lisistrata (come delle Tesmoforiazuse). Se le prime commedie, gli Acarnesi e i Cavalieri fino alla Pace, mettono in scena la guerra tra individuo e polis, a partire dalle Nuvole e poi con le Vespe Aristofane porta in scena la guerra tra generazioni. Con la Lisistrata (e le Tesmoforiazuse) conquista il centro della scena la guerra dei sessi e i due semicori incarnano anche fisicamente l’irriducibile antitesi: agli uomini che porteranno il fuoco per incendiare l’Acropoli si contrapporranno le donne che porteranno l’acqua, in una sorta di teatralizzazione ritualizzata dei cicli naturali associati al maschile e al femminile, in quanto simboli di morte e rinascita, inverno ed estate, pioggia e sole ecc. Ha inizio qui la parte cosiddetta “epirrematica” tra il corifeo e il coro, cioè la parte che metricamente presenta alternanza tra recitato e cantato: l’italiano, per segnalare l’uscita dal recitativo puro (trimetri giambici restituiti finora con dodecasillabi, tranne che gli ottonari nel giuramento), adotta una serie di versi imparisillabi italiani (settenari doppi o martelliani per il corifeo e una prevalenza di novenari, endecasillabi, settenari per il coro), versi di tradizione lirica nonché teatrale, secondo una corrispondenza rigo-verso che assume la fine verso come un punto sensibile da non dissimulare. La distinzione tra corifeo e coro che la traduzione registra rispetto all’originale amplifica la dinamica interna al coro bipartito e rende più chiara la vivacità di un personaggio plurale, che non è mai statico ma sempre dialettico, anche al proprio interno.

44 La statua di Atena, nume tutelare della città alta, cioè dell’Acropoli ovvero dell’intera città (nel testo talora Acropoli e Atene s’identificano).

45 L’idea dei vecchi, che sostituiscono i giovani che sono al fronte, è quella di appiccare una specie di rogo intorno all’Acropoli e costringere le donne a uscire per il fumo. La moglie di Licone, considerata dai vecchi la leader della rivolta, si chiama Rodia ed è stata bersaglio anche di Eupoli in due sue commedie. È frequente che la moglie di un personaggio eminente venga fatta oggetto di ridicolo: Licone sarà, tra l’altro, uno degli accusatori di Socrate, insieme ad Anito e Meleto, nel fatale processo del 399 a.C.

46 Si tratta letteralmente di Demetra, dea del raccolto e dell’abbondanza, madre di Persefone rapita da Ade. Nella Commedia Antica solo gli uomini giurano su Demetra.

47 L’episodio risale a circa un secolo prima (Erodoto, Storie, V, 72). Si tratta dell’epoca immediatamente successiva alla cacciata dei tiranni, avvenuta nel 510 a.C., e all’arrivo di Cleomene, re di Sparta, a sostegno degli oligarchici capeggiati da Isagora (508 a.C.), che occupa la città, ma resiste per pochi giorni ed è costretto a capitolare dopo essersi rifugiato sull’Acropoli per la tenace opposizione della popolazione che sostiene Clistene e la democrazia. I sei anni sono un’iperbole che infierisce sulla sporcizia del re spartano e sul modo dimesso con cui di solito gli Spartani si presentano.

48 La misoginia di Euripide, insieme al suo ateismo, è proverbiale, sebbene non corrispondente alla realtà dei personaggi femminili euripidei, molteplici e contraddittori (cfr. l’Introduzione, n.13): ma questo luogo comune ne fa il poeta preferito dei vecchi (cfr. vv. 368-369). Il trofeo della Tetrapoli, costituita dalle città di Oinoe, Probalinto, Tricorito e Maratona, è una delle glorie del patriottismo ateniese ed evoca la vittoria contro i Persiani del 490 a.C.

49 Il gioco di parole è tra Lemnion to pyr, cioè il “fuoco di Lemno”, isola vulcanica, e lemas, le “cispe” degli occhi che il fuoco divora nella sua potenza vulcanica.

50 La vecchiaia, il fuoco che rischia di spegnersi, cadendo sotto forma di carboni ardenti dalla pentola in cui lo portano e fa fumo, la strada in salita con il peso dei tronchi in spalla sono tutti espedienti che rallentano l’ascesa dei vecchi e l’arrivo all’Acropoli ovvero onstage, cioè al punto in cui dovranno incrociare le donne che faranno letteralmente naufragare il loro piano. Una statua di Atena Nike, cioè di Atena della Vittoria, si trovava proprio nei pressi dei Propilei, l’ingresso dell’Acropoli.

51 Arrivando nei pressi dell’ingresso dell’Acropoli, i vecchi depongono legna e fuoco a terra, soffocati dal fumo da una parte e sollevati dal peso dall’altra. I generali del v. 313 sono gli strateghi inviati con la flotta a Samo, storica alleata di Atene, per sostenere la fazione democratica contro quella oligarchica che si era ribellata verso la fine del 412 a.C. La frecciata polemica concerne la loro inattività, i magri risultati finora conseguiti, che infatti comporteranno la loro rimozione di lì a poco: potrebbero più utilmente dare una mano ai vecchi affaticati con la legna per la difesa della città.

52 Nel senso di “fare in fretta”.

53 L’entrata degli altri dodici coreuti era attesa dal pubblico, anche se la modalità non era prevista (i cori di solito erano omogenei nella composizione, spesso rappresentavano animali, non si dividevano in fazioni contrapposte). Il semicoro delle donne entra più agile, veloce, presentato più simpateticamente dall’autore come già predestinato a prevalere. Portano, questi attori, delle brocche sulla testa: gli interpreti si sono chiesti se le brocche fossero piene d’acqua, visto che in seguito spegneranno il fuoco e “laveranno” gli uomini della loro tracotanza. E se lo sono chiesto anche in relazione al fatto che il coro compie evoluzioni coreografiche: la soluzione è stata quella di immaginare “enough water to make the wetting obvious to the audience” (Henderson 1987, p. 107). La dialettica tra illusione ovvero realismo e convenzione ovvero scenografia verbale si scontra con la totale mancanza moderna dell’aspetto visuale della messa in scena antica: ogni soluzione, anche di compromesso, è solo parziale, se non partigiana presa di posizione moderna.

54 Gli schiavi tatuati sono quelli fuggiti e poi ripresi, che venivano marchiati sulla fronte.

55 La dea invocata è Atena.

56 Bupalo è lo scultore bersaglio preferito delle invettive di Ipponatte, il poeta giambografo del VI secolo a.C. che usava la sua poesia come maglio contro gli avversari (pare che Bupalo lo avesse rappresentato troppo realisticamente nella sua deformità) e che è l’inventore del metro scazonte, cioè del “giambo zoppo”. La vis polemica e l’onomasti komodein (“sbeffeggiare per nome i personaggi importanti della polis”), di ascendenza ipponattea, vengono ritenuti tra gli antecedenti dello spirito iconoclasta della Commedia Antica.

57 Il greco parla di “arrostire”.

58 L’Eliea, cioè il tribunale, è una delle istituzioni cardine della democrazia insieme all’Ecclesia (l’Assemblea popolare) e alla Boulè (il Consiglio dei Cinquecento, sorta di parlamento) e allo stesso teatro in un senso più lato. In ognuna di queste sedi valeva il principio del sorteggio delle cariche fra tutti i cittadini delle dieci tribù della riforma in senso democratico del regime politico ateniese da parte di Clistene, seguita alla caduta della tirannide (510 a.C.). Il tribunale rappresenta uno degli obbiettivi reiterati degli strali aristofanei, come luogo di ogni corruzione, di ogni abiezione, di ogni male (paradigmatiche sono in questo senso le Vespe, vero e proprio de profundis dell’amministrazione della giustizia ad Atene). In realtà tutte le commedie di Aristofane pullulano di frecciate polemiche nei confronti dei tribunali e della passione che gli Ateniesi riservavano loro: tribunali che hanno assunto un grande potere dopo che la riforma di Efialte (462 a.C.) ha svuotato di molti poteri l’Areopago, fino ad allora sede giudiziaria per eccellenza, “eredità” giurisdizionale delle consorterie nobiliari. Nei tribunali erano costretti a sottostare all’arbitrio degli eliasti sorteggiati (molto spesso anziani, come quelli qui apostrofati, che avevano tempo ed erano retribuiti proprio come i buleuti e gli spettatori degli agoni drammatici nell’esercizio dei loro doveri di cittadini) non solo gli Ateniesi, ma tutti i cittadini dell’Impero (cfr. Mossé 2010). Le donne fanno presente ai vecchi che non possono esercitare quell’arbitrio nella situazione in cui si trovano al momento.

59 Si tratta di un fiume che scorre nel nord-ovest della Grecia, divino e tumultuoso; qui è metonimia per acqua abbondante. Ci troviamo con questo “bagnetto” davanti, mutatis mutandis, alla dinamica comica della “torta in faccia” (cfr. l’Introduzione).

60 Esaurito il primo round con la vittoria delle donne, una nuova figura entra in scena a supporto degli uomini. Si tratta del Probulo (la traduzione familiarizza in “Prefetto”), magistrato del più alto rango che fa parte di quel collegio di dieci magistrati, nominati nel 413/412 a.C. a seguito della disfatta siracusana, per raddrizzare le sorti di Atene. Nel 411 a.C. i Dieci, divenuti nel frattempo Trenta, mettono in atto un colpo di stato di matrice oligarchica, con il beneplacito di Pisandro, Antifonte e Teramene, delegando il governo della città a Cinquemila cittadini scelti in base al censo, e prima ancora a Quattrocento cittadini che li avrebbero dovuti scegliere. Il colpo di stato sospende da un giorno all’altro due dei capisaldi della democrazia: la graphe paranomon (cioè l’accusa d’illegalità nei confronti di chi proponesse un decreto “contrario alla legge”) e la retribuzione delle cariche pubbliche, sorteggiate fra tutti i cittadini maschi aventi diritto, istituita da Pericle (cfr. Canfora 2011, pp. 252-277). L’identità di questo Probulo/Prefetto non è specificata: da Aristotele (Rhet. III, 18, 6) sappiamo che il tragediografo Sofocle, molto popolare e amato ad Atene, fu uno di loro, ma non conosciamo l’identità degli altri. Il Probulo/Prefetto entra, accompagnato da un seguito di guardie e arcieri, per ristabilire l’ordine, stigmatizzando il chiasso di quest’accolita di donne, abitate da lussuria (tryphe), seguaci di Sabazio (una versione frigia di Dioniso) e dunque di riti orgiastici di origine orientale come quello del citato Adone, amato da Afrodite e morto prematuramente, il cui culto si realizzava nella coltivazione di giardini pensili cui qui si allude e nelle lamentazioni rituali per la triste sorte del dio (vv. 393 e 395). Da ricordare che uno dei titoli di questa commedia, riportato da alcuni manoscritti (oltre a Lisistrata e a Diallagai, “Tregua”), è Adoniazousai, “Coloro che celebrano Adone”.

61 Il Demostrato di cui si parla aveva sollecitato la spedizione in Sicilia. Ma il Probulo/Prefetto attribuisce l’esito infausto della spedizione alle donne, rappresentate qui dalla moglie di Demostrato, che si sono abbandonate a riti di malaugurio proprio al momento della partenza: che la partenza per la spedizione a Siracusa fosse stata funestata dall’episodio della mutilazione delle Erme, da un atto di empietà, è un dato di fatto sul quale si tornerà (v. 1094). “Colecisti” tenta di restituire la storpiatura del nome di famiglia Bouzyges che Aristofane distorce in Kolozyges, sostituendo la parola chole, “bile”, cioè “collera”, all’iniziale Bou- del nome originale, messo alla berlina.

62 Il Probulo/Prefetto attribuisce le colpe della situazione presente alla permissività dei mariti, alla cedevolezza che accondiscende a qualsiasi capriccio femminile: le occasioni descritte hanno tutte valenza erotica e sono, nella sua analisi, il frutto di un imperdonabile laissez-faire. Dopodiché il magistrato rivela la vera preoccupazione che lo ha mosso e lo muove: il tesoro custodito all’interno dell’Acropoli, sul quale sente di poter fare delle rivendicazioni in quanto in prima persona ha contribuito a ricostituire la flotta dopo la spedizione siciliana, acquistando lui stesso quel legno di cui l’Attica è povera e che Atene deve rimediare in giro per il resto della Grecia.

63 Si vedano consimili espressioni in bocca a Creonte nell’Antigone (vv. 484-485; 677-680).

64 Sulla superiorità verbale delle donne che coincide con quella fisica, cfr. l’Introduzione. Lisistrata chiama a raccolta tutto il fior fiore delle donne coniando neologismi che riassumono un vasto spettro di occupazioni e abilità in un senso pratico e concreto che le fa pronte a qualunque battaglia.

65 L’ingresso di tre ulteriori vecchie (come sostiene Henderson 1987, pp. 24-25), al posto di Mirrine e Calonice, a supporto di Lisistrata nella battaglia verbale oltre che fisica con gli arcieri, schiavi pubblici (“servo della Giunta”) che accompagnano il Probulo/Prefetto, non è necessario. Le divinità cui si riferiscono (Artemide, Pandroso, Fosforo, tradotte in forma familiarizzante e parzialmente omofonica con “Verginesanta”, “Pandemonio” e “Lucesanta”), entrando e sbaragliando, una dopo l’altra, l’avversario, sono riferibili, direttamente o indirettamente, ad Artemide (e a Ecate): dea vergine, alla quale si tributano in molti casi sacrifici umani (cfr. esemplarmente l’Ifigenia tra i Tauri di Euripide). Tutto ciò si addice all’aggressività vincente di queste donne che contrapposte agli uomini movimentano e dividono di volta in volta l’orchestra in due come non accade mai con cori omogenei. Il “fegato”, sede tradizionale, eroica, del coraggio, viene assunto nella prospettiva pregiudiziale del Probulo/Prefetto come la sede dello smaltimento dell’alcol.

66 Da qui (protraendosi fino al v. 613) comincia il vero e proprio agone, cuore strutturale della Commedia Antica che segue regole precise, alterna botta e risposta, denuncia fin dall’inizio chi sarà il vincitore e chi il perdente del confronto dialettico. L’ipotesto remoto è quello della scena tra Creonte e Antigone dell’Antigone di Sofocle, di circa trent’anni precedente (vv. 441 sgg.). Il Probulo/Prefetto presenta molti punti di contatto con Creonte e con le tante figure di “tiranni razionalisti” che la tragedia ha messo problematicamente in scena nella seconda metà del V secolo a.C. (fino al Penteo delle Baccanti di Euripide nel 405 con cui si chiude l’arco del teatro del V secolo a.C. oltre che della democrazia). Presentato come un burocrate avido e ottuso, è votato alla sconfitta fin dal principio.

67 Su questi versi nei quali compare Pisandro, leader che promuove il colpo di stato oligarchico dei Quattrocento nel maggio del 411 a.C., si sono concentrati i tentativi contrapposti di datare la Lisistrata alle Lenee o alle Dionisie dello stesso anno. Bisogna ricordare che le Lenee, gli agoni drammatici ai quali partecipavano esclusivamente gli Ateniesi, si tenevano tra gennaio e inizio febbraio (su cui cfr. gli Acarnesi, commedia lenaica, vv. 502-506) e le Dionisie, agoni drammatici ai quali convenivano tutti i cittadini della Lega delio-attica, tra metà marzo e metà aprile, quando il mare diveniva più facilmente navigabile (su cui cfr. la Pace, commedia dionisiaca, vv. 759-760). L’attacco a Pisandro, che fu ad Atene tra la fine del 412 e il marzo del 411 a.C., per convincere segretamente della necessità di un cambio di regime alcuni circoli ed eterie conservatrici a realizzare l’accordo con Sparta, escluderebbe, a detta di molti, la possibilità che la Lisistrata sia andata in scena alle Dionisie, successive alla sua partenza; in realtà, come sostiene da ultimo Canfora 2011, p. 335, si tratta di “una battuta buona per tutte le stagioni”: l’avidità di denaro di Pisandro, capace di creare disordine per far soldi, era già nei per noi perduti Babilonesi (v. 426). L’occupazione dell’Acropoli da parte delle donne prefigurerebbe poche settimane prima del vero colpo di stato una sua messa in scena da parte di un commediografo introdotto negli ambienti della cospirazione, pur senza condividerne fino in fondo le modalità: anche coloro che si schierano a favore di una datazione lenaica devono riconoscere l’impianto panellenico della commedia (che coinvolge cittadine da tutta la Grecia, con il dato acquisito della pace con Sparta fin da subito) e la rappresentazione nel teatro di Dioniso anche se non era quella la sede della festa lenaica, che in ogni caso resta ignota (Henderson 1987, p. xvi, n. 4). A conforto di questa ipotesi, la mise en abyme dell’Acropoli fittizia che raddoppia quella reale, come sostenuto nell’Introduzione, contribuisce forse a collocare la commedia nel contesto di un grande rivolgimento, in un momento nel quale gli Ateniesi e Aristofane con loro non vedono ancora tutto perduto, nel clima di uno scontro epocale che l’agone declina nel senso della pace contro demagoghi e probuli, a partire dal controllo della sede dell’egemonia economica.

68 Si tratta di “Demetra”.

69 Questa e le battute attribuite a Calonice fino alla fine dell’agone vengono attribuite da Henderson a una vecchia (e addirittura a una seconda vecchia), anche in virtù di battute come quella che segue. Se è vero che Calonice è più anziana di Lisistrata e di Mirrine per come viene presentata all’inizio, non sarebbe così vecchia da meritare un epiteto del genere. In realtà, nel caso in questione, ci troviamo davanti a una tipica iperbole comica di tipo denigratorio.

70 La battuta di Lisistrata che lamenta la miope testardaggine maschile di contro alla misura e alla discrezione delle donne (sophrosyne) si conclude con una citazione omerica, dal canto VI dell’Iliade (vv. 483-492), tratta dall’episodio in cui Ettore saluta all’alba Andromaca e Astianatte sulle mura di Troia. L’ideale propugnato in quei versi e qui rievocato sancisce un equilibrio tra virtù domestiche e virtù belliche ovvero una divisione dei ruoli che fa dell’accettazione dello status quo il punto di sintesi del mondo eroico-epico. Quest’ideale viene ribaltato al v. 538 in un contesto che ha, per certi versi, abdicato all’ideale eroico e che nella finzione scenica ha capovolto ruoli e attribuzioni di un patrimonio essenzialmente misogino (cfr. in questo senso proprio il prosieguo e la fine di questa scena).

71 Tutta la scena con il Probulo/Prefetto, fino alla sua cacciata, si configura come un progressivo svuotamento delle sue funzioni e prerogative e come una deminutio, un indebolimento delle sue ragioni, autoritarie e maschili. La scena si concluderà icasticamente con l’uscita en travesti dell’uomo ormai femminilizzato fino nei dettagli (il velo, il paniere, la lana, le fave, il silenzio, simboli a diverso titolo del femminile). Il travestimento, che ritornerà nelle Tesmoforiazuse (la vittima sarà in quel caso il parente di Euripide), è un espediente rituale sia comico che tragico (si pensi al Penteo delle Baccanti euripidee, travestito da menade nella scena che prelude alla sua morte sul Citerone, dilaniato dalle baccanti stesse): investe una delle tensioni profonde della teatralità, quella dell’ambiguità, e inscena l’irriducibile dialettica tra maschile e femminile, paterno e materno, razionale e irrazionale che il teatro indaga ossessivamente fin dalle origini. A cominciare dall’Agamennone di Eschilo (458 a.C.), nel quale, con la partenza di Agamennone per Troia e il sacrificio di Ifigenia, Clitennestra diviene androboulon (“dal volere maschio”, cfr. al v. 11) e instaura un regime “invertito” ad Argo, sposando Egisto, presentato come la parte debole e femminile della coppia, e assumendo il potere assoluto nell’attesa di mettere in atto la vendetta contro Agamennone una volta che questi abbia fatto ritorno ad Argo (cfr. Agamennone, vv. 1625 sgg.; Vernant-Vidal-Naquet 1978, pp. 159-162; Greco 2009b).

72 Cioè capaci di “sciogliere le guerre”, nome che allude a quello della protagonista e forse, come si diceva supra, a quello della sacerdotessa di Atena Parthenos, la dea che domina l’Acropoli dal suo Partenone. La guerra verrà conclusa se la seduzione che viene da Eros e da Afrodite farà il suo corso.

73 Il greco li paragona ai “Coribanti”, sacerdoti di Cibele, che danzano e suonano rumorosamente. A loro viene affidato da Rea il piccolo Zeus appena nato, perché, con il “rumore” che fanno, coprano il pianto del neonato e lo sottraggano così alle grinfie del padre, Crono, al quale era stato predetto che un figlio lo avrebbe spodestato: cresciuto, anche grazie alla sorveglianza dei Coribanti e al latte della capra Amaltea, Zeus prenderà violentemente il posto del padre e darà inizio all’era degli Olimpi.

74 La testa della Gorgone-Medusa, con valore apotropaico, era spesso raffigurata sugli scudi dei soldati ateniesi come su quello di Atena.

75 Tra i tanti episodi paradossali di questa militarizzazione generalizzata della vita quotidiana cui le donne assistono inermi e silenti, Calonice nomina un capellone (si tratta di un ufficiale) che mangia polenta direttamente dall’elmo e un Trace, un mercenario al soldo degli Ateniesi che viene assimilato a Tereo, barbaro re di Tracia, noto al pubblico ateniese per la messa in scena dell’omonima tragedia di Sofocle, sbeffeggiata negli Uccelli (vv. 100-101): Tereo che è sinonimo di ogni nefandezza e iniquità.

76 Il programma politico esposto da Lisistrata realizza in questo passaggio la sovrapposizione completa tra sfera pubblica e sfera privata, sviluppando fino in fondo la metafora della lana e del filare come simbolo della pazienza e dell’intelligenza pratica che sa conciliare istanze conflittuali, il cui archetipo è ovviamente la Penelope omerica, che fa e disfa la tela nell’attesa paziente di Odisseo e ha, alla fine, la meglio sui Proci (su Penelope resta un punto di riferimento Cavarero 1992, pp. 13-32). In questa commedia, che non ha una parabasi in senso ortodosso, in quanto il coro è diviso e non può assumersene l’onere per bocca del corifeo, consigli come questo di trattare le cose della città e della guerra alla stregua del processo di pulizia e cardatura della lana si trovano direttamente nell’agone. C’è chi ha ravvisato nel discorso l’antica polemica con le eterie oligarchiche che attraversano la storia dell’Atene democratica e chi al contempo ha individuato la possibilità che l’accordo generale che si propugna (la koine eunoia del v. 579) non sia in contraddizione con l’imperialismo ateniese che permette al demos di vivere dei tributi versati dalle città dell’Impero: è sempre difficile ascrivere Aristofane a un partito o a un altro della variegata contesa politica ateniese ed è ancora più difficile far coincidere il suo pensiero con quello di un personaggio o di un altro nel pieno, multiforme svolgimento dell’azione scenica (cfr. l’Introduzione).

77 Alle donne veniva tradizionalmente affidato l’onere delle esequie funebri e del compianto. In questo caso Lisistrata e compagne augurano al Probulo/Prefetto la morte con tutto quello che serve per farsi ben accogliere nell’Ade e a non far aspettare Caronte, traghettatore delle anime: dalle bende che offre Calonice, alla focaccia di miele che serve per placare la fame di Cerbero, il cane infernale, fino alla corona e ai fiori, proposti all’inizio. Le donne promettono anche di espletare i riti del terzo giorno che si compiono in ricordo del morto, dopo tre giorni dal funerale vero e proprio.

78 Ha inizio qui la parabasi (vv. 614-705), seppure in una forma non convenzionale, come si accennava. Gli attori escono, la scena resta vuota e i due semicori, liberandosi dai costumi in maniera abbastanza artificiosa, per essere più a proprio agio nei movimenti di danza, affidano ai rispettivi corifei la rivendicazione delle proprie ragioni (Imperio 2004, pp. 114-117). L’illusione scenica non viene davvero interrotta come la parabasi prevede, essendo il momento in cui il poeta si rivolge direttamente al pubblico, ma resta legata all’azione e al conflitto che non si placa: gli uomini, eredi delle conquiste della democrazia, accusano le donne di riesumare forme e modi della tirannide, di voler loro togliere il misthos, cioè il salario riservato alle magistrature democratiche, e di trattare con gli inaffidabili Spartani (che, tra l’altro, avevano avuto un ruolo determinante nella cacciata dei tiranni, ossia di Ippia, nel 510 a.C.). Lo skolion, citato al v. 632, è uno dei canti conviviali della tradizione democratica che esalta i tirannicidi, Armodio e Aristogitone. Essi furono messi a morte dopo l’uccisione di Ipparco e la mancata uccisione di Ippia nel 514 a.C. – prima della fine vera e propria della tirannide nel 510 – con una spada che tenevano nascosta per l’attentato (qui il senso potrebbe anche essere osceno, se s’intende “pene” con “spada” e “pube” con “mirto” come nei Cavalieri, v. 964). Le loro statue in bronzo, che i vecchi vogliono omaggiare, si trovavano nell’Agorà.

79 Clistene è qui (come al v. 1092, ma anche nelle Nuvole, v. 355, negli Uccelli, vv. 829 sgg., nelle Rane, vv. 426 sgg.) il prototipo di ogni effeminatezza: visto che gli Spartani erano noti per la predilezione per l’amore omoerotico, dove vedersi, se non a casa di Clistene, per preparare la cospirazione?

80 “Scudo di bronzo” è sineddoche per “guerra”.

81 Le donne replicano agli uomini rivendicando il proprio diritto a parlare e a rendersi utili come restituzione del bene che la città ha loro apprestato fin dalla nascita e come parte in causa nella vicenda bellica visto che sono loro a mettere al mondo quei figli, poi soldati, sempre più spesso e sempre più numerosi caduti in guerra (e visto che gli uomini hanno dilapidato tutta la scorta di risorse messe da parte fin dalle guerre persiane dai nonni e dai padri). I momenti d’iniziazione socio-religiosa che preparano la donna al matrimonio e alla maternità erano scanditi a partire dalle Arreforie: tra i sette e gli undici anni alcune ragazze venivano scelte per sovrintendere alla tessitura del peplo di Atena Poliade, rimanendo lontano dalle famiglie e acquisendo una serie di competenze pratiche. Altri riti di questa natura erano quelli, di seguito elencati, di impastare il grano, partecipando alle Brauronie, culto in onore di Artemide al quale prendevano parte ragazzine tra i cinque e i dieci anni vestite da orsa, e che si concludeva, forse (se si accetta la variante testuale kai cheousa di Stinton), con una svestizione dell’abito color croco (giallo), e quindi con una nudità sacrale. L’ultima iniziazione rituale a cui ci si riferisce è quella delle canefore, in cui le giovani portavano, in occasione delle grandi processioni panatenaiche, cesti con offerte votive ad Atena: si trattava di un grande onore e di un ottimo viatico in vista di un matrimonio. Sul sogno misogino di una generazione senza donne (più volte evocato, a partire dal vaso di Pandora) e sulla questione dell’autoctonia – così sentita dalla mitologia delle origini ateniesi che immaginano Erittonio, il primo re della città, nato dallo sperma di Efesto colato sulla coscia di Atena e quindi a terra –, cfr. Loraux 1990, pp. 7-117; Vernant 1978, pp. 157 sgg.

82 Il verbo, che vuol dire “avvolgere”, “coprire”, presuppone una metafora culinaria.

83 I vecchi rievocano nuovamente un luogo, Lipsidrio, teatro nel 513 a.C. di una battaglia che gli Alcmeonidi, futuri sponsor della democrazia, condussero con esito negativo contro i tiranni Pisistratidi (anche su Lipsidrio esisteva uno skolion, il 907 Page, che si cantava nei simposi). Il continuo riferimento alle memorie gloriose della democrazia, che pure risalgono a un secolo prima (e che in un’ottica realistica farebbero di questi vecchi dei centenari), è inteso a suscitare il riscatto dei vecchi già provati e a ribadire l’equazione tendenziosa tra colpo di stato delle donne e tirannide, il peggior nemico della democrazia, peggiore anche dell’oligarchia.

84 Gli esempi negativi vengono attinti dalla storia e dal mito. Artemisia è regina della Caria che aiuta e consiglia Serse nel corso della spedizione contro i Greci e nella disfatta persiana riesce a salvarsi (cfr. Erodoto, Storie, VII, 99 e VIII, 87-88): i verbi naumachein e plein, come di consueto in contesto comico, hanno, oltre al senso letterale (“fare battaglie navali” e “navigare”), valore sessuale (lo “stare sopra” della donna, ovvero “cavalcare” l’uomo, come verrà ribadito subito dopo). Le Amazzoni sono donne guerriere, rappresentate probabilmente nella Stoà Pecile ad Atene dal pittore Micone, note perché allevavano le figlie senza mariti e si tagliavano un seno come segno identitario di mascolinità e di forza.

85 Nel senso della “scrofa”, ma con l’ambiguità dell’italiano (cfr. Taillardat 1962, pp. 206 sgg.).

86 Le donne ripropongono specularmente la spoliazione degli uomini. La minaccia di far loro fare la fine dell’aquila con lo scarabeo allude a una favola di Esopo, nella quale la morale è che non c’è modo di evitare la vendetta di chi è determinato a compierla: un’aquila ha depositato le sue uova in grembo a Zeus per proteggerle, ma lo scarabeo, che ha perso i suoi figli, defeca in grembo a Zeus, il quale sconsideratamente si alza e lascia cadere le uova. La recriminazione contro i voti “sbagliati” degli uomini, che impediscono lo svolgimento di una vita normale, sottintende un’allusione all’accordo panellenico tra le donne che metterà presto fine a questo andazzo e riporta l’azione sul versante dello sciopero sessuale che sarà quello prevalente a conclusione della parabasi.

87 Lett. “inquietare e camminare su e giù”.

88 Proprietario di un bordello.

89 La sezione che va dall’uscita di Lisistrata all’ingresso della prima donna (vv. 706-727) esordisce con stilemi e citazioni tragiche, contraddette da alcune “cadute” parodiche (v. 715). Se l’inizio è addirittura una citazione dal Telefo euripideo (fr. 69 Kannicht), opera per noi perduta, più volte bersaglio di Aristofane per le sue movenze iperrealistiche, tutto il passaggio ha un tono tragico di “crisi all’interno del palazzo” (in questo caso l’Acropoli) che viene preannunciata sinistramente prima di esplodere comicamente nella sequenza di tentativi di diserzione messi in atto con le scuse più stravaganti dalle donne chiuse ormai da troppo tempo all’interno della città alta. La grotta di Pan, divinità connessa con l’erotismo, si trovava sul lato nord-occidentale dell’Acropoli: tornerà a breve (v. 911) come luogo consono alla consumazione dell’atto sessuale tra Cinesia e Mirrine.

90 Invocata è “Fosforo”, cioè Artemide, al v. 738 come al v. 443. Al v. 742 si nomina “Ilitia”, che sovrintende ai parti: la traduzione, qui come altrove, d’invocazioni come queste va in direzione familiarizzante. Il gioco di parole su scortico/scrotico è già del greco, riferibile al lino ma anche al membro: tutte le scuse delle donne sono ambivalenti. Il furto dell’elmo di Atena è un’enormità che solo l’ambientazione carnevalesca rende possibile. Il serpente di cui si parla, custode dell’Acropoli, è Erittonio, “figlio” di Efesto che Atena, rimasta illibata, custodisce come un figlio, vittima com’è stata delle avances frustrate di Efesto stesso (cfr. n. 81).

91 “Come le colombe” dice il testo che, secondo lo scolio ad locum, sono solite deporre uova nelle cavità.

92 “Aspetti le Anfidromie”, cerimonia nella quale il neonato, tra il quinto e il settimo giorno, veniva presentato in società: mostrato ai vicini e portato attorno al focolare domestico. Al decimo giorno gli si attribuiva il nome.

93 Non mi pare necessario introdurre una quarta donna e dunque un quinto attore in scena a questo punto. La battuta può tranquillamente essere attribuita a una di quelle che già si sono lamentate in precedenza senza alterare la verve ritmica della scena. Le civette, animali totem di Atena glaucopide, sono il simbolo di Atene.

94 Il dio in questione è Zeus, nume del fulmine, del tuono e della pioggia: gli ombrelli sono un’invenzione già antica.

95 L’oracolo che Lisistrata pronuncia fa il verso a oracoli seri, quelli pronunciati dalla Pizia delfica, e spesso interpretati tendenziosamente.

96 La storia di Melanione, misogino alla stregua di un Ippolito (la versione del mito che lo vede sposo di Atalanta, grazie alla sua astuzia, viene qui reinventata), troverà il suo pendant nella storia, accennata dalle donne, del misantropo Timone (v. 809), bersaglio reiterato dei comici (Ferecrate, Frinico), secondo lo schema del canto amebeo, il canto che i pastori si scambiavano in forma di sfida.

97 Mironide e Formione sono due figure elogiate per i successi bellici e la villosità, sinonimo di virilità e di forza.

98 Nella responsione strofica qui deve essere caduto un verso.

99 Ironico.

100 Le donne nell’Acropoli si trovano in alto, sull’upper-stage, la parte alta della skene. Da lì vedono arrivare una figura che sfida il bando e lo sciopero, in condizioni caricaturalmente estreme, con un fallo enorme, passando per la zona sud-occidentale che porta sull’Acropoli, dove si trova il tempio di Demetra Cloe.

101 Lett. “dai riti di Afrodite”.

102 Concordo con Henderson (v. 174) che attribuisce questa battuta in antilabe, cioè suddivisa tra personaggi, a una donna del coro e non a Mirrine, che invece appare tre versi dopo come emergendo da un nugolo di altre. Il lessico della preghiera che invoca Afrodite, sovrana di Cipro, Citera e Pafo (luoghi legati storicamente al suo culto), può presentare talora espressioni colorite e persino oscene come in questo caso, in cui orthen, che vuole dire “dritta”, significa anche “eretta”, come attributo pertinente della dea dell’amore, incarnato in Cinesia che arriva, accompagnato dal servo Manete (nome comune di servo, cfr. v. 908) e dal figlioletto (forse rappresentato da un bambolotto).

103 Cinesia è nome parlante, come si accennava nell’Introduzione. Vuol dire “scopatore”, secondo la corrispondenza kinein = binein (come Mirrine, da “mirto”, allude metonimicamente alla “vagina”), e il suo demo di appartenenza, il demo di Peonide, può suonare a un Ateniese come derivato di peos, che in greco vuol dire “pène”: per questo motivo, il nome di Cinesia e il luogo da cui proviene hanno una grande rinomanza tra le donne chiuse nell’Acropoli che, come si è testé visto, parlano ossessivamente di peos e si struggono al pensiero del sesso fino a tentare la fuga pur di ritrovarlo.

104 La profferta deittica riguarda il membro, che per l’astinenza si deve immaginare in erezione senza soluzione di continuità per tutta la scena (cfr. v. 869) e anche dopo, in seguito all’arrivo dell’araldo spartano che versa nelle stesse “pietose” condizioni.

105 Sul tono paratragico di questi versi, cfr. l’Introduzione. Oltre ad Admeto dopo la morte di Alcesti, il registro è quello di Teseo (Ippolito, v. 1408) e Medea (vv. 226-227). La situazione di Cinesia che si strugge davanti alla porta è quella tipica del paraklausithyron, cioè del canto d’amore dell’amante frustrato fuori dalla porta di casa dell’amata. Uno dei modelli della scena è sicuramente, seppure senza lieto fine, la Dios Apate, l’inganno perpetrato da Era nei confronti di Zeus nel XIV canto dell’Iliade perché il re degli dèi si distragga per qualche tempo dal favore che sta concedendo ai Troiani e le cose virino a favore dei Greci, di cui Era è alleata.

106 Se il bimbo era un bambolotto, la voce poteva essergli prestata dallo stesso Cinesia, con sicuro effetto comico.

107 Mirrine, che finora è rimasta in alto minacciando di andarsene, decide di scendere per il bambino. I successivi quattro versi, pronunciati da Cinesia, coincidono con il tempo che le consente di arrivare in scena e, entrata dalla porta centrale, mettere in atto la dinamica della seduzione frustrata, che significherà concretamente un continuo viavai tra dentro e fuori fino all’esasperazione di Cinesia, con una sequela di scuse e di urgenze che allo stesso tempo sollecitano e demoralizzano il povero marito, pronto a espletare ovunque e comunque l’atto sessuale che lo ossessiona.

108 Ti lavi “alla Clessidra”, fonte sacra nei pressi della grotta di Pan. Il luogo dell’azione scenica insensibilmente muta: ora siamo alla grotta di Pan, dove si consumerà la frustrazione finale. Si tratta di una porta diversa da quella centrale che ha rappresentato fino a poco fa i Propilei, l’ingresso all’Acropoli, davanti alla quale non si può consumare l’atto. In ogni caso non è la porta da cui alla fine della scena (v. 951) Mirrine scomparirà, che sarà di nuovo quella centrale.

109 Il greco dice “come Eracle”, figura che la Commedia Antica utilizza come il ricettacolo della più grande fame e della più grande sete. Ma che è nota anche per la sua follia omicida, come quella di cui ci dà conto l’Eracle euripideo.

110 Il profumo di Rodi cui ci si riferisce qui era meno pregiato di quello ateniese.

111 Il duetto amebeo, cioè cantato e recitato, tra Cinesia e il coro dei vecchi che segue all’uscita di scena di Mirrine ha movenze e ritmi tragici. Il pathos degli anapesti e delle anafore ovvero dei lamenti reiterati viene sistematicamente stemperato dai continui riferimenti al basso ventre; richiama la lunga agonia di Eracle nelle Trachinie di Sofocle ma in una forma rovesciata, nella quale Cinesia fa il verso a Eracle che si contorce per il dolore, in una chiave però esclusivamente sessuale (cfr. Greco 2009a). Al v. 957 il Pappone, cioè il “Cane-Volpe”, era il soprannome di un certo Filostrato, tenutario di un bordello: a costui Cinesia chiede di affittargli una balia (in greco lett. “tetta”). La psyche (vv. 960 e 963), “anima”, organo al pari di tutti gli altri nominati, stride volutamente con il contesto materiale. Il codino, in realtà “coda” (v. 964), è il membro maschile, teso al mattino e lasciato a digiuno a causa dello sciopero. La “fica” del v. 979 è in realtà in greco il “cazzo” (psole): il senso non cambia, l’inversione è dovuta alla rima.

112 Il coup de théâtre dell’ingresso dell’araldo spartano mette progressivamente Cinesia davanti allo specchio: l’astinenza è panellenica e la soluzione al problema fisiologico non può che essere panellenica. Al v. 980 l’araldo ignora l’architettura istituzionale ateniese e parla di Senato, Gherousia, come fosse a Sparta (al v. 1011 Cinesia dirà del Consiglio, la Boulè, come dell’organo deliberativo per eccellenza). Al v. 982 Cinesia paragona l’araldo a un satiro (la traduzione familiarizza in “attaccapanni”), creatura a metà tra l’umano e il ferino, frequentemente in erezione: l’araldo cerca più di una volta di dissimulare la sua condizione, ma alla lunga non può reggere. Al v. 991 la “scimitarra spartana” è la “scitala”, bastone su cui si avvolgevano i messaggi che gli araldi portavano con sé nello svolgimento delle proprie funzioni di messi. La critica, a partire da Wilamowitz, ha lungamente dibattuto se fosse Cinesia l’interlocutore dell’araldo (la tradizione manoscritta assegna genericamente le battute a un Probulo/Prefetto, troppo vecchio forse per un’erezione così prolungata come quella archetipica del dio Pan, mentre lo scoliasta le assegna a un Ateniese), cioè se un marito qualunque potesse trattare di pace e di guerra, convocare la Boulè, avere un ruolo di tale rilevanza: la dinamica teatrale rende la presenza di Cinesia, paradigma dell’everyman eccitato, inevitabile e significativa, al di là degli sforzi di coerenza politico-diplomatica dei moderni.

113 Mentre si avvia il processo che porterà alla pace, i due semicori procedono alla riconciliazione, al ricompattamento dopo la separazione e il conflitto. Sono le donne che prendono l’iniziativa, facendo rivestire gli uomini e aiutandoli a togliere la zanzara che era rimasta incastrata nell’occhio, simbolo di una rabbia dolorosa, fino al bacio.

114 Città dell’Eubea, alleata di Atene.

115 L’avvenuta riconciliazione si fa burla degli spettatori, ai quali si promettono soldi e banchetti inesistenti.

116 Lett. “una gabbia per maiali”: gli ambasciatori spartani arrivano senza dissimulare la propria erezione che sporge da sotto i vestiti, sporchi e trasandati come proverbialmente vengono rappresentati gli Spartani.

117 Il riferimento non è del tutto perspicuo: forse gli Ateniesi, come i lottatori che combattevano nudi o quasi e stavano piegati in avanti per evitare la presa, tengono i vestiti lontani dal corpo perché non si veda il rigonfiamento dovuto all’erezione. Ma il senso dell’analogia non è chiarissimo, se non che allude all’erezione incoercibile e indissimulabile da cui sono afflitti gli uomini tutti.

118 Aristofane allude agli Ermocopidi, coloro che nell’imminenza della partenza per la spedizione a Siracusa (415 a.C.) mutilarono le erme, simulacri fallici del dio Ermes, disseminate per tutta la città. L’episodio venne interpretato in maniera nefasta, ricondotto alla responsabilità di circoli reazionari e, poco dopo la partenza della flotta, ad Alcibiade, che, accusato di parodiare i misteri sacri, fu richiamato in patria, ma si sottrasse al processo, riparando a Sparta. La pointe aristofanesca mette in guardia i personaggi afflitti da priapismo dalla possibilità che ci sia ancora qualcuno dei responsabili di quell’atto sacrilego tra il pubblico del 411 a.C.: ma il tono è burlesco e la verità sugli eventi della mutilazione, nonostante i processi e i colpevoli ufficiali, non si chiarirà mai definitivamente (Canfora 2011, pp. 211-242).

119 Evocata come l’unica capace di far concludere la pace, Lisistrata torna in scena presentata con le caratteristiche della flessibilità e della poliedricità così care al repertorio greco del giusto mezzo e del corretto phronein. Tutto il suo monologo viene svolto in presenza di un attore che incarna la nuda seduzione della Pace e che la nostra eroina si pone subito a fianco come prospettiva tangibile e a portata di mano per i due contendenti ventennali. Frequente è in Aristofane la presenza di una donna nuda, che materializza il piacere di cui si argomenta in termini concreti: Acarnesi, vv. 989 sgg. (c’è Diallage come in questo caso, ma vista come una sposa), Cavalieri, vv. 1390 sgg. (Spondai, ovvero la Tregua), Pace, vv. 525 e 847 sgg. (Opora e Theoria, l’Abbondanza e la Festa), Uccelli, vv. 1706 sgg. (Basileia, la Regina), ma ragazze nude appaiono anche in Acarnesi, vv. 1198 sgg., Vespe, vv. 1342 sgg. e 1373 sgg., Uccelli, vv. 667 sgg., Tesmoforiazuse, vv. 1174 sgg., Rane, vv. 1305-1306. Nonostante la grande inventiva ed eterogeneità delle trame aristofanee che, a differenza dei plot tragici, non partono se non raramente dal mito canonizzato, le peripezie che spesso ruotano intorno all’eroe comico riusano personaggi o scene ricorrenti (il banchetto con cibo e vino, il matrimonio, il komos finale) come metafora identitaria di una certa idea di comico, metafora che tuttavia assume valenza drammatica e fattezze concrete oltre che riconoscibili. Il nocciolo del discorso di Lisistrata è che la storia comune di difesa della libertà greca dall’oppressione persiana (Termopili), oltre che la comune identità religiosa (Delfi) e culturale (Olimpia e le feste panelleniche), rende le ragioni della pace e di una riconciliazione tra Atene e Sparta molto più plausibili di quelle del conflitto. I vv. 1124 e 1135 sono, su indicazione degli scolii, citazioni di altrettante opere perdute di Euripide, la Melanippe saggia e l’Eretteo.

120 Diversamente da Henderson, assegno fino alla fine del v. 1187 la battuta a Lisistrata e non all’Ambasciatore ateniese, per un semplice motivo di simmetria, così che, a riconciliazione avvenuta, ognuno dica la sua e nessuno prevalga sull’altro.

121 Gli episodi di reciproco aiuto tra Spartani e Ateniesi ai quali si riferisce Lisistrata, attingendo alla storia in maniera non sempre pertinente (cfr. Paduano 201016, p. 171), per argomentare i vantaggi della pace, vengono intercalati buffonescamente dai due rappresentanti delle parti in causa che riportano il discorso sistematicamente sul piano della soddisfazione immediata della pulsione sessuale sempre più cogente. Come nel prologo all’arrivo della Corinzia (vv. 90 sgg.), persino la geografia viene piegata al doppio senso osceno, con un’insistita predilezione degli Spartani per il “retro” (il concime) e degli Ateniesi per il “davanti” (l’aratro), secondo i più vieti luoghi comuni dell’epoca (Pilo, nome di una città peloponnesiaca, ad esempio, significa anche “porta” nel senso dell’organo sessuale): probabilmente la Pace “nuda” poteva rappresentare l’ostensione presente in scena dei vari apprezzamenti.

122 All’intermezzo corale che promette a tutti ogni bene per finire con uno sberleffo segue l’uscita dei convitati dal banchetto che ha celebrato la riconciliazione, nello specifico di due cittadini ateniesi che, passati per una porta tenuta da un portiere, si fanno largo tra la folla rumorosa, nel frattempo accalcatasi nel posto dove si tiene il banchetto (si tratta probabilmente degli stessi coreuti), fino all’uscita degli Spartani di cui si discute. Il Clitagora e il Telamone sono di nuovo due canti conviviali attici che venivano cantati in occasioni simposiali. Da più parti si lamenta l’assenza di didascalie che illuminino il versante prevalente di questa fase finale ovvero quello coreografico, musicale, prossemico, cinesico, che sanciva visivamente e sonoramente l’avvento della pace: questa è in realtà la sorte di tutto il teatro antico, di cui conserviamo gli scheletri, le partiture, spesso in condizioni di tradizione guasta, e non conserviamo la carne, l’esecuzione delle partiture stesse, le stage directions, cioè le indicazioni di movimento sulla skene e nell’orchestra, le note di regia, il canto e la danza del coro, il recitato degli attori se non nella sequenza verbale, metricamente e ritmicamente impostata, ma non performata. In un caso come questo, poi, la relazione asimmetrica, connaturata alla semiosi teatrale, tra testo drammaturgico e testo spettacolare, profondamente sbilanciata in direzione di quest’ultimo, rende il finale, questo esodo del coro e degli attori, monco, incompiuto, irrisolto dal punto di vista dell’azione scenica, cioè liturgico senza liturgia, deittico senza referenti oggettivi, irrimediabilmente nostalgico della messa in scena.

123 L’uscita di scena coincide con il canto assolo di tre inni celebrativi, due spartani e uno ateniese, che ad alcuni hanno fatto pensare che manchi un quarto inno per bilanciare la disparità, ad altri che vi sia un consapevole sbilanciamento verso Sparta o perché non direttamente presente in scena o per tendenze filospartane dell’autore. La baldoria finale, ispirata da Mnemosyne, la Memoria, madre delle nove Muse, in ogni caso non contempla necessariamente la simmetria: si fa di nuovo riferimento alle Guerre persiane, alla battaglia navale dell’Artemisio, come momento di solidarietà panellenica, e a Leonida, leggendario re di Sparta che perse eroicamente la vita alle Termopili con i suoi trecento soldati, consentendo la futura vittoria, nel 480 a.C. Di nuovo viene evocata la comune religiosità, il pantheon condiviso tra tutti i Greci: Artemide cacciatrice e il fratello Apollo, guaritore, dopo definito Paian, cioè peana, che era il canto in suo onore oltre che un suo epiteto; Dioniso (che ha tra i suoi tratti distintivi il tirso, il bastone sacro a Bacco), con le Baccanti, e Zeus, re degli dèi con la moglie Era, oltre che Afrodite, dea dell’amore; lo Spartano infine ricolloca nel suo ambiente di riferimento laconico (il monte Taigeto e il fiume Eurota), oltre ad Artemide e ad Apollo (che aveva un tempio ad Amicle) che tornano speculari dopo essere stati nominati nel primo inno, Elena con i fratelli Castore e Polluce, figli di Tindaro e di Leda, venerati a Sparta dalla notte dei tempi. E infine Atena, dea tutelare di Atene, ma protettrice anche di Sparta, garante della durata e della solidità della pace, pur essendo cantata con tutti i suoi attributi bellici.