LA GRANDE VEGLIA

Avevo ventisette anni quando il mio Sonno uscì da me come un passeggero che scende dal vagone di un treno, si guardò intorno in camera mia per qualche secondo e si sedette sulla sedia accanto al letto. Questo accadde prima che diventassero così comuni le presenze simili a ombre del Sonno nei soggiorni e nelle cucine, prima che il dislocamento di massa lasciasse molte persone sveglie nelle ore incerte della notte. In quei giorni ero ancora sorpreso di sedermi e scorgere la figura argentea del Sonno, la sua postura disinvolta. La gente si telefonava, chiedeva scusa per l’ora tarda e domandava all’amico di turno se anche lui aveva un ospite indesiderato in casa.

I Sonni erano sempre alti e slanciati ma c’erano anche altri tratti comuni. Le esperienze erano varie – una ragazza che conoscevo si lamentava del fatto che il suo Sonno si sedeva sempre sul cassettone, agitando le gambe e canticchiando, mentre un’altra mi aveva confidato che il suo Sonno le faceva scorrere le dita sui polpacci e pretendeva coni gelato alla menta. Le coppie e i coinquilini se la passavano peggio – i Sonni tendevano a comportarsi male in gruppo, incitandosi l’un l’altro. Nel mio condominio si diceva che i signori che vivevano nell’attico avevano chiuso i rispettivi Sonni in bagni diversi per evitare che lottassero con violenza sul tappeto. Un collega che non conosco molto bene mi confidò tra una cosa e l’altra che il suo Sonno e quello del suo fidanzato non facevano che prendersi a calci e colpire il gatto bengalese dei vicini con il giornale. Il mio Sonno non aveva nessuno con cui lottare e quindi la sua principale occupazione era frugare tra le mie cose, tirare fuori vecchie fotografie, chiavi a brugola e cellulari defunti che poi mi appoggiava come tesori ai piedi del letto.

Nei primi tempi non sapevamo cose fosse di preciso. Molta gente pensava di vedere dei fantasmi. Una notte di metà luglio una donna del mio palazzo svegliò tutto il settimo piano urlando. Due del mattino, la gola buia dell’estate. Confusi e barcollanti alcuni di noi condomini si ritrovarono in corridoio e fummo invitati in gruppo nel suo appartamento in pantaloncini del pigiama e vestaglia. Camminavamo di stanza in stanza, vicini ed estranei malgrado la prossimità quotidiana, prendevamo furtiva nota dell’arredamento e della scarsa pulizia della casa, le tazze di cereali abbandonate sul tavolino da caffè, il romanzo porno sul letto. Lo trovammo in camera da letto, inondato dal chiarore della luna tra le tende aperte. Il suo Sonno era allampanato, rannicchiato dietro la libreria. Dev’essere stato il primo avvistamento per tutti – le dita spettrali e il ghigno sgarbato. La ragazza dietro di me mi afferrò la mano quando lo vide. La conoscevo di vista ma non le avevo mai parlato prima – aveva le palpebre ancora incollate di sonno e il tipo di bite che i dentisti prescrivono per il bruxismo. Le strinsi la mano in risposta e cercai di dare un senso a quello che stavo guardando. Il Sonno incrociò le mani sul collo come per proteggere la parte più debole di sé dal pericolo. Questo accadde solo qualche giorno prima che il mio Sonno facesse la sua comparsa e io provai il poco caritatevole sollievo di averla scampata per un soffio; la strana afflizione mi aveva mancato solo di poco, sfiorando appena la tenera superficie della mia pelle.

Ad agosto i giornali cominciarono a parlarne come della Grande Veglia, pubblicavano diagrammi, grafici a torta e articoli di accademici confusi. Gli opinionisti speculavano a più non posso, dando la colpa ai cellulari e ai social, alla cultura delle ventiquattr’ore su ventiquattro, ai disturbi d’ansia nei minorenni. I conduttori radiofonici incolpavano la televisione. Gli opinionisti della televisione incolpavano tutti gli altri. In definitiva, c’erano prove a supporto di ogni teoria – non era più probabile che ti accadesse se mangiavi carne o bevevi caffè o avevi rapporti extraconiugali. Non era un virus o una malattia, non aveva niente a che fare con l’acqua potabile o con le donne che prendevano la pillola. Succedeva in città, era l’unica cosa che sapevamo, ma al di là di questo non c’era un chiaro andamento. Poteva verificarsi nella casa di una via e in un’altra no. Poteva affliggere tutti in un condominio tranne te. Era percepito più come un fenomeno che come una catastrofe; una rivista medica lo descriveva come una specie di amputazione, la dislocazione dello stato di sonno dal corpo. La gente scriveva ai giornali per elencare i sintomi: l’ormai perdurante insonnia, il sonno che non era più un’abitudine rassicurante ma una creatura che si acquattava dietro la porta.

Durante quelle prime settimane un programma mattutino in diretta con circa quattro milioni di spettatori fu cancellato senza tante cerimonie perché il presentatore aveva tentato di fare un servizio sulle insalate di stagione con il suo Sonno dietro di lui nell’inquadratura. Una sagoma appena poco più alta della media che mimava con fare laconico i gesti del presentatore e lo seguiva come un’ombra mentre lui andava a prendere i pomodori spiegando agli spettatori come usare correttamente i coltelli. Il Sonno fingeva di usare uno spelucchino e affettava l’aria con maestria. Era martedì, la gente stirava le camicie prima di andare a lavorare. Ricordo le urla e il balbettio prima del cartello Problemi tecnici – Si prega di attendere. Ricordo gli occhi del presentatore, le lune crescenti dell’insonnia sotto le palpebre. Col passare del tempo l’impulso di staccare la spina divenne poco praticabile. Già a settembre metà delle personalità della TV andavano a lavorare pallidi come stracci e con il loro Sonno al seguito. Un nuovo programma sulle case cominciò con una delle due conduttrici che presentava apertamente il proprio Sonno mentre l’altra conduttrice se ne stava da sola in disparte. La televisione divenne a poco a poco un mare di doppi, di volti noti e dei loro silenziosi e insoliti compagni.

Divenne molto presto normale – non una cosa gradita, ma non c’era proprio niente da fare. Come la varicella: inevitabile. Le persone dormivano finché il Sonno non usciva dal loro corpo e allora vivevano una veglia perenne. Poco dopo il nostro incontro al settimo piano, i miei coinquilini smisero di dormire con una media di uno a notte. Il mio apparve presto, un ospite fastidioso al quale pensai sulle prime di offrire un tè o il giornale, ma scoprii quasi subito che il Sonno non era un compagno che dovevi intrattenere; lui era più che contento di vagare per l’appartamento in silenzio, a raddrizzare le cornici storte dei quadri. Continuavo a parlargli per quanto non ci fosse gran che modo di capire se apprezzava quello che dicevo, e a volte mi rispondevo da solo con un tono diverso, per tenere viva la conversazione. Dissi al mio Sonno che mi ricordava l’ombra di Peter Pan, e mi chiesi se dovessi cercare di attaccarmela con il sapone. Il mio Sonno si limitò a scrollare le spalle e staccare l’orologio dal muro della cucina per sistemarlo con un colpetto leggero alla lancetta dei minuti. “Sì, forse dovresti,” dicevo con un tono diverso e annuivo per mostrare che avevo sentito. In seguito, venne fuori che nessun Sonno ti rispondeva. Destino beffardo, stare svegli tutto il tempo con qualcuno che finge che non ci sia nessun altro.

Mi chiamò mio fratello, e citò nostra madre: Pensa solo a cosa significherà per la tua salute trasferirti in città. Il suo Sonno era apparso solo un paio d’ore prima e camminava avanti e indietro in cucina, sbatacchiando le sedie e canticchiando la sigla di uno sceneggiato radiofonico per cui mio fratello non aveva superato il provino.

“Janey, il tuo per caso assomiglia al nonno?”

Lanciai un’occhiata al mio Sonno, alla sua pelle color del vapore.

“Non direi. Se somiglia a qualcuno è a zia Lucy, ma solo perché l’unica volta che l’ho vista era nella bara.”

Mio fratello ridacchiò; un suono trattenuto, con la mano sulla bocca. Erano le tre del mattino, un cielo dalle palpebre pesanti.

“Davvero inquietante,” disse. “E anche noioso. Non c’è niente in TV a quest’ora.”

Quando eravamo piccoli, nostra madre ci raccontava storie terribili sulla proliferazione di fantasmi in città; spettri negli uffici, sulle sedie e nei bagni, terribili fantasmi a tutte le ore del giorno. Tendendo l’orecchio alla calma serale della nostra casa in campagna, ci descriveva grandi città che brulicavano di spettri, mimando il turbamento perenne di una notte cittadina. Raccontate allo scopo di non farci andare via di casa, queste storie divennero presto la base dei nostri giochi preferiti. Radunavamo scatole di cartone e contenitori di plastica, in cantina costruivamo città alte fino al ginocchio e cacciavamo i fantasmi nei vicoli più stretti, impilavamo i libri per fare i palazzi più alti e li immaginavamo infestati di spettri. Quando crescemmo e ci trasferimmo nella nostra città oblunga fatta di scale strette e nauseante fumo delle ciminiere, nostra madre pianse e pretese che ci ripensassimo, insistendo che le città non erano fatte per viverci ma per essere infestate, che saremmo solo diventati due fantasmi in un posto già pieno di fantasmi. Ovviamente ce ne andammo lo stesso, mio fratello per fare infruttuosi provini nei teatri della città e io per contratti a tempo determinato in uffici gelidi e turni al bowling o al bar, quasi accogliendo la desolazione in cambio del senso di fuga. Vivevamo lontani, per dimostrare a nostra madre che lo potevamo fare, ed eravamo finiti in un inevitabile silenzio e a comportarci in modo strano. Mio fratello aveva sviluppato un terrore mortale dei pesciolini d’argento che si dimenavano tra le piastrelle della sua cucina. Io trovavo sempre più insopportabile vedermi riflesso in uno specchio a figura intera – l’ampiezza dello spazio intorno a me.

Il supplemento domenicale di un quotidiano pubblicò un’intervista: una giovane studentessa della facoltà di storia che descriveva come si fosse innamorata del proprio Sonno.

Lui è un grande ascoltatore, un grande conversatore. (Lo chiamo “Lui” – non so se è politicamente corretto o se è possibile, ma immagino sia un lui.) Dicono tutti che i loro Sonni non parlano ma credo che sia perché la gente si aspetta una comunicazione in senso tradizionale. Il mio Sonno non emette suoni ma questo non vuol dire che non mi parli. Ci sono i gesti – si sposta più in là sul materasso per farmi spazio, sistema i libri in ordine alfabetico. A volte mi tocca la fronte. Comunicare può essere molte cose diverse.

Lessi l’articolo al mio Sonno, gli chiesi se per caso cercasse di comunicare con me e io fossi troppo preoccupato dal suo silenzio per sentirlo, e ovviamente non ottenni risposta.

“Penso che il mio sia solo un po’ stronzo,” mi disse mio fratello. Era assonnato come tutti ormai, cerchi color prugna intorno agli occhi. “Mi nasconde i copioni e scarabocchia il calendario. Ho già perso tre provini perché ha strappato via le date. È come vivere con un cazzo di poltergeist.”

Eravamo seduti sui gradini d’ingresso del mio palazzo, a bere cioccolata calda in bicchieri di plastica. Erano le quattro del mattino di un martedì; luce sottile, la città si muoveva come una creatura frenetica. Ci stavamo ancora abituando alla notte, le ore del mattino venate di blu che illuminavano appena, i ragni bianchi e le nottole. Senza dormire era più difficile organizzare le giornate, mantenere un senso di necessità. Le ore extra ti consentivano una certa pigrizia noncurante, il permesso di oziare di giorno nella certezza che ci sarebbe stato più tempo, dopo, quando te la saresti sentita.

“Non credo di piacere molto al mio,” dicevo a mio fratello mentre finivo la cioccolata e cercavo di raschiare quello che era rimasto della sua. “È sempre così distratto.”

Mio fratello fece spallucce, guardando verso i primi gradini della scala dove i nostri due Sonni si prendevano a gomitate e si pestavano i piedi.

La ragazza con il bite bussò alla porta a mezzanotte di una sera di metà settembre e mi chiese di seguirla per confermarle una cosa. Era in pigiama – io con il mio avevo fatto degli stracci visto che non mi serviva ad altro –, però si era tolta il bite e lo teneva con attenzione in una mano quando avevo aperto la porta. Senza, la voce era curiosamente pulita, appena spazzolata, come se avesse le corde vocali nuove di zecca. Il suo appartamento, dall’altra parte del corridoio, era il rovescio del mio; in cucina il lavello e i pensili erano rivolti nella direzione opposta, i libri sembravano sparpagliati parallelamente a quelli sul mio letto. Saltò fuori che quella che al risveglio le era sembrata la sagoma del suo Sonno nell’angolo della camera da letto era in realtà solo l’ombra dei suoi vestiti buttati sulla sedia. E quello che aveva immaginato fosse il rumore del suo Sonno che scivolava dietro la libreria non era altro che un topo nel muro.

Era delusa, stordita dal risveglio. Tutti nella sua famiglia ne avevano già uno, mi disse. Andava a dormire ogni notte con la sensazione che si stava perdendo qualcosa, una festa infinita a cui era troppo esausta per partecipare.

“La cosa assurda è che ho sempre dormito male,” disse indicando il bite. “Uno avrebbe potuto pensare che sarei stata tra i primi.”

Si chiamava Leonie e quando parlava batteva le mani facendo un suono di popcorn che scoppiettano. Portava il bite perché digrignava troppo a causa di un morso anomalo, un problema che la affliggeva dalla tarda adolescenza quando aveva perso i denti posteriori schiantandosi con la bicicletta contro una macchina parcheggiata. Me lo disse con leggerezza poco prima di sbattere le palpebre e scusarsi per aver parlato troppo, ma io scossi la testa. Avevo scoperto che la gente parla più liberamente di notte – uno strano allentamento delle inibizioni che avveniva parlando al buio. Lasciai un messaggio agli addetti della manutenzione del palazzo per avvisarli dei topi nei muri e rimasi con lei finché non si addormentò al contrario sopra le lenzuola. Era bella, cosa che notai con il senso di colpa di un ladro. Aveva i capelli di un bel biondo chiaro e una tenera fossetta sul mento. Il mio Sonno, che mi aveva seguito in corridoio e dentro l’appartamento, osservava tutto ciò senza grande interesse, gironzolando e tirando via i paralumi dalle lampade.

Non ti rendi conto di come respira una città finché non cambia il suo modo di dormire. Se guardavi giù lo vedevi: l’inquietudine dell’asfalto. Cominciai a scrutare fuori dalla finestra l’ansimare del tramonto, il girarsi e rigirarsi di qualcosa che cercava una posizione comoda per sdraiarsi. Mi telefonò mio fratello mentre andava a un provino che gli avevano rimandato alle due del mattino – uno dei primi esempi di quella che sarebbe diventata la pratica comune di “riqualificazione della notte”.

“Siamo tutti svegli, perché non dovremmo sfruttare il tempo,” disse, con la voce scaldata dagli esercizi. Lo ascoltavo ripassare la parte e mi ero coperto la bocca con la mano per soffocare uno sbadiglio. Quando riagganciò, affacciandomi alla finestra vidi una banda di ragazzine del palazzo che giocavano a calcio in strada. I Sonni correvano al loro fianco, facendo sgambetti poco sportivi e strattonando le code di cavallo. Ascoltai le loro grida con la notte pesante sulle palpebre, il mondo intero quieto e caldo oltre il mio davanzale.

Leonie aveva preso l’abitudine di venire da me a mezzanotte; piccoli colpi a cui rispondevo nel modo languido in cui ormai facevo tutto, a volte mettendo su il caffè prima di andare alla porta. Forse per spingere il suo Sonno a uscire allo scoperto, non veniva più in pigiama ma di solito si presentava in jeans e camicia. Faceva la scrittrice, mi raccontò, curava la rubrica della posta dei lettori per un giornale che a volte mi capitava di leggere. Era sempre agitata come se avesse troppa caffeina in circolo, un leggero panico negli occhi spalancati che mi imploravano di non chiederle se era stanca. Ogni tanto la sorprendevo ad ammirare con invidia il mio Sonno, lo imitava senza neanche accorgersene. Era stanca della stanchezza, mi confidò. Era stufa di sentirsi esclusa.

Stabilimmo quasi subito una specie di routine notturna, anche molti altri inquilini si organizzavano, lo sapevamo. Una donna del primo piano ogni notte portava a spasso nel parco il suo Sonno, in quello che pensavamo fosse il vano tentativo di stancarlo. Il violoncellista che viveva nell’appartamento sopra il mio mise insieme un quartetto di musica da camera notturno con un violista che abitava al secondo piano e con la coppia dell’attico, entrambi violinisti dilettanti, a quanto pareva. Leonie e io ci incontravamo a mezzanotte, di solito da me, visto che non le piaceva come il mio Sonno frugava tra i suoi libri. Non facevamo nulla di importante insieme – mangiavamo senape spalmata sui toast e ascoltavamo i programmi notturni alla radio, facevamo solitari e ci leggevamo l’oroscopo e il futuro sul palmo della mano. A volte mi portava frammenti del suo lavoro e si sedeva per terra con la schiena contro il divano, mi leggeva le lettere cui avrebbe dovuto rispondere per il giornale, soffocando eroicamente gli sbadigli.

“Ascolta questa,” era il ritornello, e imitava la voce dei lettori che le scrivevano. Una ragazzina che era troppo timida per masturbarsi con il suo Sonno che guardava. Uno studente universitario il cui Sonno si metteva davanti alla porta al mattino e non lo lasciava andare a lezione. Un uomo che si lamentava che la moglie aveva un Sonno e lui no – una situazione che minava il suo ruolo nella relazione. Quest’ultima Leonie la lesse a voce alta con la lingua premuta verso il basso, con un tono che grondava disprezzo ma lasciava il suo viso impassibile. “Non dice che lei ha un Sonno perché lavora di più e ha bisogno di stare sveglia altre ore, ma sento che in fondo mi giudica.

“Mi chiedo se sia etico,” mi domandò una volta. “Che io risponda a queste lettere senza avere un Sonno mio.”

“Non meno di proporre una soluzione a qualunque difficoltà che non sia tua,” replicai anche se lei finse di non sentirmi.

Per quanto si sforzasse, non riusciva mai ad allontanare la stanchezza del tutto. Le nostre notti insieme finivano spesso con lei che appassiva sul mio divano e si svegliava di soprassalto alle sei insistendo che non aveva dormito. Di solito non ne facevo un problema, così come non ne facevo per le sue invasioni notturne. Avevo scoperto che apprezzavo la sua compagnia più di quella del mio Sonno ed ero vagamente infastidito dalle occhiate desiderose che lei lanciava all’ignara figura nell’angolo della stanza. A volte, quando andava a prepararsi per il lavoro, mi baciava sulla guancia o sull’angolo della bocca e io mi andavo a vestire con le linee dei palmi umide.

Le notti avevano una sfumatura strana, color del fegato. Calde giornate di fine settembre ci piegavano in due – polpastrelli sudati passati sulle caviglie – e io facevo le ore piccole a vagare per casa in pantaloncini e maglietta, ad ascoltare Leonie leggere le lettere di gente che voleva disperatamente fare sesso con il proprio Sonno o con quello di qualcun altro. Una volta deciso a quali lettere doveva rispondere durante il giorno, parlavamo o leggevamo insieme. Usava le parole in modi strani – la notte che sbocconcellava sul davanzale, il sapore di pepe del suo labbro continuamente mordicchiato – e io le parlavo delle cose che mi divertivano. Le raccontai che la prima moglie di Evelyn Waugh si chiamava Evelyn anche lei e che il doppiatore di Bugs Bunny era allergico alle carote. Annuiva a ciò che le raccontavo in un modo che mi faceva essere meno incline a bombardare di chiacchiere il mio Sonno quando lei non c’era. Avevo una malocclusione, avrei avuto un gran bisogno del bite da adolescente, e invidiavo la fila dei suoi bianchi denti laschi, piccole conchiglie di ciprea che sembravano sempre un po’ viscide. Mi aveva detto che erano così piccoli perché li aveva digrignati tantissimo. Uno dei motivi per cui desiderava un Sonno era che stare sempre sveglia l’avrebbe salvata dal consumarsi i denti del tutto. La sua voce, mi accorsi, somigliava a quella che facevo io quando fingevo che il mio Sonno mi rispondesse, e mi piaceva. Quasi sempre, quando non riusciva più a tenere su la testa e alla fine si addormentava sulla mia spalla, restavo lì e poi fingevo di credere alle sue frasi assonnate, quando si svegliava e diceva che stava solo riposando gli occhi.

Mio fratello mi chiamò per dirmi che era stato preso per una parte e uscimmo a festeggiare. Bevemmo del vino rosso che ci tinse la lingua dello stesso colore che avevamo sotto gli occhi e lui gridò la sua euforia nel bar affollato. I luoghi pubblici cominciavano a puzzare di sonno, di lenzuola non lavate. Mio fratello agitò in aria il bicchiere mezzo vuoto in una replica del provino. Il suo Sonno lo imitò, gesticolando non troppo gentilmente alle sue spalle finché mio fratello voltandosi lo beccò.

“E tu non sei stato di nessun aiuto!” mormorò, prima di tornare alla sua esibizione con sarcasmo esagerato. “Macbeth uccide il sonno. Eh?”

***

Più tardi rientrai e trovai Leonie che mi aspettava con un mucchio di lettere e un piatto di biscotti al cocco. Mi disse che non vedeva l’ora di raccontarmi di una ragazza che conosceva e lavorava per il suo stesso giornale: aveva partecipato a una serie di seminari tenuti da una donna che sosteneva di sapere come sbarazzarsi del proprio Sonno. Troppo tè, la donna sosteneva che fosse questa la causa, e l’eccessiva dipendenza dagli stimoli artificiali. Luci blu. Bisognava eliminarle. Disintossicarsi dai latticini. La donna si era seduta al centro di un cerchio di sedie, la sua Insonnia in bella mostra mentre i Sonni dei presenti giravano per la sala. “Come se stessero facendo un gioco tutti insieme,” aveva detto la ragazza del giornale. Alla fine del quarto seminario saltò fuori che la donna aveva rinchiuso il suo Sonno nel ripostiglio delle scope per mantenere l’illusione di essersene liberata solo con acqua e formaggio vegano. Diversi iscritti al seminario l’avevano sentito battere contro i muri durante una pausa sigaretta e avevano forzato la serratura della porta per liberarlo. La ragazza aveva detto a Leonie che quasi certamente non ci sarebbe tornata.

“Non dovrebbero lasciarli a chi non sa come trattarli,” disse Leonie quando finì il suo racconto e mi offrì un biscotto al cocco. Mi guardò perplessa quando le dissi che era meglio non pensare ai Sonni come a dei cani.

Lessi un articolo su una donna addolorata per la perdita della propria incoscienza. L’articolo era anonimo, ma il taglio femminile era evidente come può esserlo la forma dei fianchi. L’autrice parlava del suo sonno prima che fosse con la lettera maiuscola: il piacere dell’abbandonarsi, la particolare consistenza della lingua e il peso della testa dopo una buona notte di sonno. Dormire mi concedeva un tempo staccata da me stessa – una specie di deliziosa tregua. Senza, sono troppo consapevole, appiccicosa di disprezzo per me stessa. L’articolo era stato pubblicato sul giornale di Leonie e io osservavo la sua invidia, le nocche bianche mentre stringeva i bordi del giornale e leggeva. L’autrice descriveva l’odore di fumo e miele del suo Sonno e raccontava di come vagasse in giro per la casa. Fluttuava, andava su e giù senza sosta. Tirava palline da tennis contro il muro come un detenuto in un film, dava calci alle gambe della mia sedia. Leonie mi chiese di cosa odorava il mio Sonno e le risposi: buccia d’arancia e carta fotografica. Strani profumi da talismano; mia madre che mi riempiva di mandarini per il viaggio in città, che mi mandava per posta fotografie della nostra vecchia casa. Poco dopo andai a mettere su il bollitore, e quando tornai trovai Leonie accanto al mio Sonno che frugava tra le scatole sotto la libreria dove conservavo i vecchi diari e i biglietti usati. Non essendosi accorta di me, si avvicinò più possibile al mio Sonno, allungando la testa verso di lui e inspirando. Guardai la scena per qualche secondo, guardai il modo in cui il Sonno scuoteva la testa irritato ma senza riuscire ad allontanarsi. Annusando ancora, Leonie gli appoggiò la fronte sul collo per una frazione di secondo e immaginai la sensazione, freddo vetro bagnato di condensa contro la pelle di lei.

I treni del mattino erano stracarichi di corpi solidi e spettrali. Mi abituai a rimanere in piedi mentre il mio Sonno si faceva strada a forza verso un posto a sedere, mi abituai alle file di Sonni con le gambe incrociate, alla gente raggruppata vicino alle porte, tutti con la faccia grigia e pesantemente appoggiati. Passavo le pause pranzo vagando per la città, osservando la gente che si trascinava dai bar ai minimarket – lo sgusciare untuoso della carne al forno e i sandwich con le uova. Mi sedevo sui gradini e sulle panchine a mangiare la torta all’arancia che mi aveva mandato mia madre incartata nella stagnola, parlavo con mio fratello al telefono. Intorno a me la gente scintillava di stanchezza. Un giorno abbandonai il pranzo per vagare in una delle cattedrali della città, ascoltai l’interrompersi delle prove del coro, le voci smorzate dei coristi costretti a spostare le mani dei loro Sonni che cercavano di zittirli. Ricordai mia madre con la mano a coppa sull’orecchio che ascoltava il silenzio della campagna e predicava inarrestabile sui suoni della città infestata, il perenne movimento. La cattedrale tremolava. Una vibrazione di corpi e quasi corpi.

Una sera Leonie mi lesse una lettera, appoggiata al mio frigorifero, con i suoi occhiali da lettura. Nelle ultime settimane li metteva più spesso, che leggesse oppure no. Era un modo per evitare che gli occhi si stancassero in fretta, mi disse, in una rara ammissione del fatto che anche lei si stancava. Era difficile per lei, questa insonnia innaturale. Durante il giorno quando alzava lo sguardo dalla scrivania avrebbe giurato di vedere la città muoversi oltre la finestra, come se lei o la città corressero a gran velocità in una direzione.

La nostra relazione è in crisi,” diceva la lettera, “a causa del Sonno di mio marito. A volte mi sveglio di notte e la sua espressione mi spaventa. Dice che ogni tanto si china su di me e cerca di tirarmi fuori il Sonno per poter rimanere svegli insieme. A volte mi sembra di essere l’unica a dormire in tutta la città, anche se mi sento sempre stanca, cosa che di per sé lui considera una specie di tradimento.

Leonie venne a sedersi accanto a me e rimase a lungo con la testa appoggiata sulla mia spalla. Era difficile, mi disse, essere comprensiva con le persone che le scrivevano lamentandosi dei propri Sonni, e al contempo sentirsi così amaramente consapevole che c’erano persone come lei che ancora dormivano ogni notte in quella città senza riposo. Poteva non esserci un conto alla rovescia fino a zero, forse c’era della gente destinata a rimanere senza il proprio Sonno, e questo la preoccupava. Le dissi che non capivo cosa sperava di trovare, che io consideravo il mio Sonno come un intruso poco amichevole, nel migliore dei casi. Che a volte mi sdraiavo a letto e fantasticavo di sprofondare in uno stato d’incoscienza, mi appoggiavo su un braccio e poi su un altro fino a non sentirli più per potermi godere la sensazione di dormire, almeno in una piccola parte del mio corpo. Che l’unica cosa che mi piaceva davvero della nuova condizione era la sua compagnia – quella e il pensiero occasionale che la città mi sorreggeva nonostante mi sentissi svuotato, come mani sotto le braccia e attorno alla vita che mi staccavano dal pavimento. Certo, quando le dissi queste cose stava già dormendo appoggiata sulla mia spalla, mi russava piano sul collo. Sopra di noi, il quartetto d’archi suonava il notturno in si maggiore di Dvořák.

Mia madre mi chiamò per controllare se mangiavo bene e per dirmi che mi aveva avvertito, lei, che in città queste cose potevano succedere. Mia madre non aveva un Sonno, ovviamente. Pochissime persone fuori città lo avevano. La sua voce al telefono era molto riposata, troppo virtuosa. Mi disse che un signore che viveva a neanche due passi da lei un giorno era andato in città per lavoro ed era tornato con un Sonno che non gli apparteneva. Le chiesi cosa fosse successo alla persona alla quale avevano rubato il Sonno e mi rispose di non fare domande stupide. “Che cosa ne so io di queste cose orrende? Immagino siano felici di essersene sbarazzati.” Accennò a mio fratello, si lamentò che non le rispondeva mai al telefono. Mi chiese come andavano le cose, se frequentavo qualcuno, e pensai di dirle di Leonie ma a quel punto il mio Sonno mi strappò di mano il telefono e riattaccò.

***

Invitai Leonie allo spettacolo di mio fratello e lei accettò, appoggiandomi una mano sulla coscia e affondando le unghie come un gatto. Era tutta assonnata, la bocca all’ingiù, l’espressione rilassata, e quando si avvicinò sentii l’odore calcareo dell’acqua di città. Mangiavamo arance sul divano e lei continuava a offrirmene spicchi anche se ne avevo una in grembo. Lo spettacolo era programmato per le due del mattino, per approfittare delle sfasate folle notturne. Coraggiosa, Leonie si presentò con un thermos di caffè e ci sistemammo vicini al buio sulla stretta terrazza di un pub, a dividerci una scatola di uvette ricoperte di cioccolato e a darci di gomito ogni volta che entrava in scena mio fratello. Sul palco, alle spalle degli attori, i Sonni recitavano uno spettacolo tutto loro. Senza dialoghi, la trama era difficile da seguire, ma attirava la mia attenzione – le sagome traslucide che si spostavano intorno agli attori mimando parole che non riuscivo a sentire. Erano quasi le cinque quando tornammo a casa e Leonie aveva finito il caffè, gli occhi liquidi. Le chiesi se voleva venire da me, per tutta risposta mi disse che le serviva il bite, distolse lo sguardo imbarazzata e mi salutò con la mano. Meno di un’ora dopo bussò di nuovo lamentandosi degli incubi che aveva. Implacabili, disse, come se i sogni inespressi di tutti fossero lì a importunarla, portando incubi di velocissime piante rampicanti, treni vuoti e luoghi inquietanti della Terra. La lasciai dormire sul divano con la testa poggiata sul mio grembo fino alle sette, quando dovetti vestirmi per andare al lavoro. Passando da una stanza all’altra con lo spazzolino in mano la intravidi seduta sul divano che sbucciava un’altra arancia e offriva spicchi al mio Sonno.

Uscii a cena con mio fratello, anche se ormai la gente tendeva a mangiare quello che voleva a ogni ora del giorno e della notte. Lui prese uova e latte, io un cheeseburger, e ci sedemmo a un tavolo appiccicoso di zucchero, ancora ingombro delle tazze di caffè dell’ultimo cliente, un fazzoletto sporco di rossetto arancione, una cannuccia di plastica annodata in un fiocco. Oltre la finestra, verso il parcheggio, il cielo sembrava avere uno strano alone più scuro rispetto a quello a cui ero abituato, l’insolita assolutezza della notte che collegavo allo stare lontano dalla città, dal vorticoso blu e dalla mutevolezza dell’inquinamento luminoso. Mio fratello mi mostrò una recensione del suo spettacolo. Dopo averla letta piegai il giornale e lessi a voce alta la rubrica di Leonie – dava consigli su come trattare i Sonni maleducati con tua nonna, quelli che mangiano il tuo cibo o ti ignorano o provano sempre a litigare. Mio fratello mi ascoltò senza particolare interesse, sgomitando con il suo Sonno dall’altra parte del tavolo. Sembrava stranamente in sintonia con la figura che aveva accanto. Riflesso nella vetrata, era difficile dire chi fosse più pallido dei due, chi avrei riconosciuto prima se fossi arrivato alla tavola calda dal parcheggio e li avessi visti attraverso il vetro. Guardavo ancora fuori dalla vetrata quando il mio Sonno, che fino a quel momento aveva vagato senza sosta tra i tavoli, venne a sedersi accanto a me. Non mi voltai verso di lui, notai subito il suo nuovo odore di acqua calcarea della città, come il punto arrugginito dello scarico da dove ogni tanto dovevo tirare via grumi di capelli con un appendiabiti piegato.

Leonie mi chiese di rivedere qualcosa che stava scrivendo. Avevo più occhio di lei per i dettagli, disse, ero abituato a leggere al buio. Non si trattava della sua rubrica di consigli, le avevano chiesto di scrivere per una rivista – un pezzo su ­com’era vivere senza un Sonno, mi spiegò con una smorfia. Non ­l’avrebbe firmato, mi disse. Non voleva che risultasse suo. Verso la fine dell’articolo descriveva la condizione come un cercare la propria ombra a terra di fronte a sé e rendersi conto che è mezzogiorno.

“È un bel pezzo,” dissi dopo averlo letto. “Ma scrivi come se te lo stessi inventando. Come se fosse un racconto di fantasia e tu cercassi di immaginare in che modo deve sentirsi una persona come te.”

“Pia illusione,” rispose, proprio quando il mio Sonno entrò in camera dalla cucina, picchiettando le dita sul termosifone.

Lei scrollò una spalla e alzò la testa per guardarmi, si sporse in avanti, mi baciò sull’angolo della bocca e mi ringraziò con un cenno del capo. Abbassai il mento e mi inclinai appena per baciarla davvero e lei ricambiò con dolcezza per un momento prima di staccarsi. Mi fece un vago sorriso e scrollò l’altra spalla.

Chiamò mio fratello per dirmi di accendere la TV sul canale quattro. C’era un servizio sui metodi drastici che alcune persone avevano escogitato per liberarsi dai Sonni. Intervistavano una donna che era stata arrestata per aver attirato il proprio Sonno sul tetto di casa e averlo spinto di sotto. Era caduto, disse, come se non conoscesse la forza di gravità. Le gambe che continuavano a camminare nel nulla, la pedalata a vuoto prima di precipitare. La donna era l’unica che aveva accettato di essere intervistata senza farsi pixellare la faccia. La polizia l’aveva rilasciata, non c’era una legge in base alla quale condannarla, ma era costretta in casa dalla folla di manifestanti che circondavano la sua proprietà e infilavano lettere piene d’odio nella buca delle lettere.

“Quando lo racconto,” disse, “devo ricordarmi che ciò che ho fatto non è contro natura. Non più di prendere una pastiglia per dormire. A volte c’è bisogno di una piccola spinta.”

Il rumore dal prato davanti alla casa si sentiva da dentro ­l’abitazione, i cori intercettati dal microfono dell’intervistatore – i manifestanti cantavano dell’ingiustizia subita dal Sonno indifeso. Malgrado ciò, lei sembrava del tutto indifferente. Quando l’intervista stava per finire, girò la testa verso la finestra e la luce del sole le illuminò il viso, lo spazio sotto gli occhi fresco come pasta lievitata, magnificamente ben riposato.

“Fa pensare, no?” chiese mio fratello, quando il notiziario passò a un’altra storia. “Non bei pensieri, ma fa pensare.”

“Non sapevo si potessero uccidere,” replicai. Non lo sapeva nessuno fino a quel momento, perché nessuno ci aveva provato. “Non sembra giusto però, o no?”

Il pezzo di Leonie fu pubblicato anonimo, e intorno a mezzanotte dello stesso giorno lei mi portò la rivista. La storia era infilata tra tante altre: un uomo che aveva rubato un Sonno, una donna che aveva ficcato il suo Sonno nel bagagliaio della macchina, aveva guidato fino in aperta campagna e l’aveva lasciato lì. L’articolo di Leonie, pensai, era strano accanto a queste storie di crolli nervosi ed esaurimenti. Tra tutte queste persone infestate, era da sola, senza un fantasma ma desiderandone uno con tutta sé stessa, la sua scrittura come dita che stringono l’aria. Rilessi il pezzo mentre mi preparava il tè. Il dolce tintinnio di lei nell’altra stanza era una piacevole presenza, proprio come la notte senza riposo aveva ormai una rassicurante familiarità. Il rumore della città, lo stiracchiarsi di spalle insonni, Leonie che rompe una tazza e brontola tra sé e sé nella stanza accanto.

Quando tornò era bianca, con le labbra rosse perché se le era morse. Il mio Sonno la seguì, con i cocci della tazza rotta che traghettò al tavolino da caffè e sul quale li poggiò prima di sistemarsi in un angolo. Leonie mi passò una tazza di tè e venne a sedersi accanto a me, lo sguardo alla rivista che tenevo in mano.

“Lo odio,” disse, “vorrei non averlo scritto.” La voce le si arricciava agli angoli come carta quando la bruci. La guardai per un momento senza parlare, bevvi un sorso come per riflesso e mi scottai la lingua.

“Però è scritto bene,” dissi dopo una lunga pausa e guardandola in viso per capire se stava per piangere. “Cosa non ti piace?”

“Odio il fatto di averlo dovuto scrivere,” replicò, brusca. “Odio quanto mi stanca leggerlo.”

Nell’angolo il mio Sonno scuoteva la testa di lato. Un movimento strano, come per togliersi l’acqua dall’orecchio. Osservai Leonie e pensai al peso che aveva sulle spalle e immaginai la sensazione di dormire, lo sprofondare e la pura assenza di pensiero. Dopo aver finito il tè, le chiesi di sdraiarsi sul divano con me. Mi guardò in modo strano ma non si oppose. Ci sistemammo più comodi possibile, Leonie sprofondò tra le mie braccia. Immaginai di dormire, la vecchia immobilità e il nero degli occhi chiusi.

Nell’angolo, il Sonno si agitava, girava la testa verso la spalla, poi nell’incavo del gomito, come per annusare un odore.

“Dovrei prendere il bite,” mormorò Leonie ma le feci cenno di no, e poi le dissi che l’avrei svegliata se avesse cominciato a sputare i denti.

La tenni tra le braccia a lungo e, quando la notte passò, mi svegliai e mi resi conto che avevo dormito davvero. L’angolo in camera mia era vuoto, come lo spazio accanto a me sul divano. Leonie se n’era andata, aveva lasciato la rivista ma si era presa il mio Sonno. Per un bel po’ invece di sedermi preferii rimanere sdraiato sul divano, quasi registrando un pezzo alla volta la solidità del mio corpo. Poco dopo mi sarei alzato e sarei andato a lavorare, assaporando la vecchia sensazione di ristoro, le spalle e gli occhi come se un peso fosse sparito alleggerendoli. Era mattino, l’aria fresca e dolce come dopo un sonno senza sogni.