GRANITO

Non c’è modo di amare un uomo. Non bene, o piuttosto, cor­rettamente.

Maggie ne è consapevole ma lo ama lo stesso, un’enorme idiozia d’amore che una parte di lei vive con una sorta di dolorosa ironia. Certo che lo ami, stupida, cretina. Che cosa assolutamente idiota da fare.

Le sue amiche sono infermiere, ostetriche, fisioterapiste. Discutono dell’argomento con attenzione clinica, davanti a Chenin blanc e salatini. Libro donato dal gruppo Marapcana fb. Cercateci. Gli uomini, dicono, non sono fatti per sopportare la stessa pressione interna. Si capisce dai fianchi, dal fiatone che hanno dopo una corsa. Una mancanza di resistenza anatomica. Da una prospettiva puramente fisica, è difficile amare un uomo senza distruggerlo.

Le sue amiche sono sposate, parlano con una certa autorevolezza. Lei è in ritardo per la festa, ha quasi trent’anni.

“È un difetto di progettazione,” le dicono mentre le versano altro vino, lei è una novellina in confronto a loro. “Non ne hanno colpa, in realtà. Non è impossibile amarli, ma devi farlo con attenzione.”

Mostrano foto dai telefonini, uomini sorridenti, coi soliti color terra e in tight, gli uomini che hanno sposato, marchiato e tenuto per sé. Ai suoi occhi non c’è niente di palesemente sbagliato in nessuno di loro; indossano tutti magliette griffate, amano posare vicino a un barbecue, tutti un po’ accecati dal sole. Le sue amiche, comunque, zumano su un collo o sull’angolo di una palpebra, ricordandole che amare un uomo significa vederlo cedere. Se ne va ubriaca, un po’ barcollante, incastrandosi i tacchi nella scala mobile della metro. Le amiche le scrivono più tardi per assicurarsi che sia tornata a casa sana e salva, e per ricordarle di stare attenta.

Siamo felici che tu stia bene, Maggie – messaggi come sassolini buttati in acqua, falsi e facili da ignorare.

È altissimo nella sua minuscola cucina, autunnale nei suoi vestiti da lavoro. È un orticultore, progetta giardini di palazzi antichi, e ha un corpo denso, un oggetto fatto per stare all’aria aperta. Freddo pungente, odore di pietra e minerale, la dolcezza di un falò quando lo bacia sul collo.

Pensa a lui tutto il giorno al lavoro, risponde alle chiamate e si ritrova a imitarne la voce. Si stacca le pellicine in modo compulsivo, scarabocchia il suo nome sui moduli di richiesta e li strappa così che nessuno li veda. Una volta se ne dimentica, riempie un intero foglio col suo nome, indirizzo e numero di telefono e lo invia come email interna, così due giorni dopo lui comincia a ricevere telefonate per un sinistro inesistente e lei deve chiamare il servizio clienti.

“Errore amministrativo,” dice e immagina che vedano il suo caos interiore anche se in realtà le chiedono solo di non complicare il lavoro degli altri con l’imprecisione del suo.

Tornando a casa si ferma al supermercato a prendere vino e assurde tartine – mousse di gamberetti su conchiglie di capesante, patatine di topinambur. Di solito cucina lui ma le piace contribuire, passargli qualcosa su un piatto e guardarlo mentre mangia. Il tragitto verso casa si è trasformato in qualcosa di sorprendentemente lussuoso. In metro i sacchi della spesa le sbattono contro le caviglie; la calca, il rumore metallico della musica che le arriva dagli altri; ma tutto questo fa parte adesso di un disegno più ampio. Cambio di linea, un assalto di gomiti, le porte che si chiudono sul bordo della sua manica, eppure pregustare la serata è come qualcosa messo sopra le spalle, impermeabile a qualsiasi disagio.

A casa il fascino dei suoi piedi nudi sul parquet. Si china per baciarla tenendo le mani distanti dai suoi fianchi.

“Non toccarmi, Mag, sono coperto di aglio.”

“Non volevo toccarti. Perché dovrei? Non so dove sei stato.”

Lo bacia anche lei così, con le mani distanti per imitarlo, la mezza idea di un gioco per dopo. Lui alza un sopracciglio e lei si allontana, versa due bicchieri di vino.

Cucina lui perché è più bravo. Sa abbinare i sapori, calcolare i tempi di cottura perché nulla si bruci. Lei fa un po’ di scena per nascondere la sua relativa inutilità, serve le sue tartine con plateale finezza, blinis impiattati in centri concentrici, datteri aperti per il lungo e farciti di Shropshire Blue.

“Pensa se sapessi davvero cucinare,” gli dice, offrendogli un uovo alla diavola. “Che ottimo partito sarei.”

“Tripla minaccia,” concorda lui. “Cantare, ballare, cordon bleu.”

“Forse è meglio che io abbia un difetto,” fa un cenno col capo, lo guarda togliere una pentola profumata dal fuoco, la sua grossa forma scura sotto il neon. “Mi rende più umana, no?”

A cena lui le racconta la discussione che ha avuto con un cliente, il proprietario di una ventina d’acri di parco che per risparmiare vuole rifare la scultura principale di una fontana in granito di seconda scelta piuttosto che in marmo. Più tardi si strofina le mani per pulirle dall’aglio, poi la tira a sé, con le dita ancora bagnate, dure sulle punte e stranamente caparbie.

***

Si sono conosciuti al compleanno di uno che le amiche speravano lei sposasse. Un giorno stupido, con una luce del sole bugiarda. Si era seduta sui gradini del patio a guardare gente che non conosceva mangiare mozzarella e pomodori cuore di bue, involtini di pollo, ciambelle spolverate di zucchero e pere ­Doyenne du Comice. Da qualche parte arrivava Thelonious Monk, “Round Midnight” alle due del pomeriggio.

Il tizio per cui l’avevano trascinata lì le era sembrato soprattutto rumoroso e accogliente e non vedeva l’ora di levarselo di torno. Le aveva mostrato la sua collezione di bicchierini “Grandi città americane” presi durante vari viaggi e lei aveva annuito e finito il drink troppo in fretta, rovesciandolo, bollicine di acqua tonica sui polsi.

In passato le amiche le avevano rimproverato di essere troppo esigente. Alzavano gli occhi al cielo per la sua incapacità di soprassedere su una maglietta brutta, le chiedevano gentilmente se credeva di essere così perfetta.

“Desideri senza senso,” le dicevano, stanche quando lei trovava un uomo troppo monotono o complicato. “Forse stai meglio senza.”

E lei era d’accordo, certo – una vera femminista, felice del suo lavoro e delle sue passioni, una single serena. Dentro di sé, però, si conosceva meglio. Si conosceva per quello che era: un grande fallimento della solitudine. Scivolata attraverso i vent’anni illuminati solo dal bagliore della televisione, si è ritrovata con sgomento a ventinove a desiderare di piacere e di essere desiderata. Una vita sfocata. A mangiare albicocche e diventare pelle e ossa, a dimenticare come si parla con la gente. La solitudine come un sapore sulla pelle.

Lui era arrivato tardi alla festa, troppo alto per la porta del patio, aveva battuto la testa sull’architrave. Il tocco delicato della sua mano. Un sollievo abbastanza grande da cambiare la musica stessa: da Thelonious Monk a “Werewolves of London” di Warren Zevon. Chiunque avesse fatto la playlist non aveva dato molta importanza all’armonia dei pezzi.

Ha preso un appartamento già ammobiliato e con la carta da parati color vitello – troppo cotto e un po’ stucchevole, lo stesso colore che si è insinuato nel tappeto, nelle tende, nel copriletto. Al mattino l’anca destra gli fa uno schiocco come di un osso che rientra nell’articolazione. Il suo gemito, una soddisfazione dolorosa. Le braccia sollevate sulla testa per rimettere a posto le spalle.

Da ragazzo, così le racconta, la madre insisteva che scroccarsi le nocche gli avrebbe fatto venire l’artrite. Gli leggeva Mary Poppins ed enfatizzava molto il personaggio di Mrs Corry; la donna con le dita di caramelle d’orzo che le spezzava per darle da mangiare alla gente.

“Questa storia avrebbe dovuto insegnarmi qualcosa a un certo punto,” riflette. “Anche se perlopiù mi portava a mangiarmi le unghie.”

Offuscato dal mattino, il suo corpo è un mosaico curioso. Gli prende le dita e le bacia, finge un morso al pollice.

Di solito Maggie si fa la doccia prima di dormire e poi di notte i capelli, biondo chiaro e arruffati per l’elettricità statica delle lenzuola di percalle asciugandosi prendono buffe pieghe. Lei scherza sul fatto che i suoi capelli hanno una vita propria e lui li tira con delicatezza, poi allontana la mano con un gesto allarmato.

“Qualcosa mi ha morso!”

“Credi di essere così divertente?”

Le mattine sono state la cosa più difficile a cui adattarsi, svegliarsi con qualcuno dopo tre decenni di solitudine. Si è sempre considerata una persona che dà il meglio di sé alle quattro del pomeriggio, una volta che la giornata ha consumato e addolcito le sue difficoltà. Avere qualcuno accanto appena sveglia non le lascia spazio per le prove, per calarsi in una versione più mal­leabile della creatura che è all’inizio.

“Mi piace il silenzio al mattino,” gli aveva detto una volta premendogli una mano sulla bocca prima che fosse davvero cosciente, tanto che lui si era svegliato di soprassalto pensando di essere vittima di un’aggressione.

Una volta chiarito, si comportava come gli era stato chiesto, si vestiva mordendosi la lingua ma lei si era ritrovata a parlare lo stesso con lui. Le mostrava due camicie per avere un consiglio, catturando il suo sguardo nello specchio e sentendosi in colpa mentre a gesti mimava la sua incapacità, con la bocca cucita come in un rito vudù.

“Puoi parlare,” gli aveva detto lei alla fine. “Scusami.”

Gli aveva tirato fili invisibili dalle labbra e sfilato la sua voce come se fosse impigliata in una rete.

Lui esce prima, con la cerata e lo zaino, troppo alto per lei senza scarpe. Mentre se ne va, lo sente augurare il buongiorno all’anziana vicina, la signora Lumis, che sta nell’appartamento seminterrato e ha preso a gironzolare in corridoio per dirgli di non azzardarsi a infastidire le ragazze sole.

Non credere che non ti veda, mio caro. Pensi di poterla fare franca ma io vedo quello che fai. Attento a dove vai. Guarda dove metti i piedi.”

Lo farò, signora Lumis. Ho gli stivali apposta.

Nei quindici minuti dopo che se n’è andato il sollievo dello spazio viene spazzato via dal sollievo più grande della sua mancanza. Maggie doma i capelli con le forcine, si mette il rossetto. Esce per andare al lavoro e trova la signora Lumis ancora in corridoio che la aspetta per fissarla con uno sguardo ferito e chiamarla “Margaret”, che non è nemmeno il suo nome.

“È Maggie, signora Lumis, solo Maggie. Non è necessario essere così formali, sa. Siamo vicine da due anni.”

La signora Lumis la squadra – è una specie di apparizione in corridoio, come se la polvere di tutti gli angoli non puliti si fosse alzata in uno sbuffo a formare una temporanea corporeità. È una donna con le ossa doloranti, tristemente ialina, con una parrucca sulla testa calva che Maggie ha intravisto qualche volta, un pallore tra le sbarre della finestra del seminterrato.

“Il suo ospite sbatte le porte,” la voce come un sentiero tracciato nel vetro. “Tutte le sere rumori. Sbattere di porte e rumore di passi. Non riesco a dormire.”

“Mi spiace,” replica Maggie, rattristata senza motivo dalla curva dei polsi della signora Lumis, che ha una pellicina bianca d’uovo tra il naso e il labbro superiore. Nelle ultime settimane gli occhi della signora Lumis hanno cominciato a scolorirsi al centro. Maggie immagina le crosticine mattutine agli angoli delle palpebre come gocce di iride filtrate di notte. “Ora devo andare a lavorare ma gliene parlerò.”

“Non ce n’è bisogno.” La signora Lumis parla svelta, la paura improvvisa di una persona scoperta a mentire. “Lo mandi via, così non avrà più porte da sbattere.”

“Non penso…”

“Sarebbe meglio per tutti, alla lunga,” continua la signora Lumis, l’espressione del viso che sottintende qualcosa di sgradevole. “Meglio anche per lui non restare qui.”

Maggie la osserva, gli angoli sfumati di quel corpo solitario, e sente un orrore pungente. Una calda, inquietante consapevolezza. La sente per tutto il tragitto fino al lavoro, aghi nella pianta dei piedi.

Cielo mattutino, sussulto di viola, come la parte buia in fondo alla gola. Giornata come un inghiottire. Promessa di neve.

Una striscia fredda di pavimento. Attraversa a piedi nudi la cucina per prendere il caffè, i croissant scaldati al forno. Mette su un vassoio latte, coltelli da burro, miele e marmellata di albicocche. Ci pensa un secondo e poi apre la finestra coperta di brina, coglie una spruzzata di ciclamini invernali dalla fioriera. Li sistema in un bicchiere accanto alla macchinetta del caffè e si allontana di un passo per controllare ansiosa l’effetto. D’impulso, prende i fiori e se li mette dietro l’orecchio. Ci ripensa e li rimette nel bicchiere.

“Hai un orecchio bagnato,” dice lui quando Maggie porta il vassoio. Non ha una bella voce oggi, ghiaia fredda, e quando lei gli si accoccola sopra lui si gira per starnutire. Le viene lo strano impulso di baciarlo a quel punto, per catturare i germi o quel che non va in lui con una profonda inspirazione.

Una specie di disgustosa perversione, l’amore.

La camera da letto è calda, un re dei ratti di calze sulla sedia della toeletta. Le scarpe di lui sono capovolte, si asciugano sul termosifone. Al lavoro il giorno prima si è slogato una caviglia su una pavimentazione di ardesia. La pelle attorno all’osso è già livida, scuro che si allarga come qualcosa che è stato versato, blu e grigio.

“Meglio se non cammini per il resto del fine settimana,” gli ha detto lei, muovendo le sopracciglia per farlo ridere. Lui ha rubato l’arnica dall’armadietto per far riassorbire il livido, ­l’odore di antisettico sulle mani.

Dopo il caffè e le brioche, lui la schiaccia sul materasso. Nella sua tenera stanza color carne, le tiene i polsi e le morde il collo. Pesa come una roccia, una mole rassicurante.

Più tardi lei torna in cucina per lavare tutto. Guarda fuori dalla finestra il giardino condominiale e vede la signora Lumis che con passo strascicato fa il giro del prato coperto dalla prima neve. Uno strano spettacolo, spettrale. Come la morte che passeggia al mattino in cerca del suo gatto smarrito.

***

Il segreto, ha imparato dai libri che ha letto, è amare un uomo appena meno di quanto lui ama te. In modo da rimanere in un certo senso irraggiungibile. A qualche centimetro da terra.

È la forma della sua bocca a rendere tutto ciò impossibile. La cresta di lentiggini sulla schiena. Dorme come se l’avessero assassinato, come se fosse incastonato nel cemento, rigido e immobile. Una delle prime notti in cui avevano dormito insieme aveva impostato sette sveglie con un intervallo di tre minuti ­l’una dall’altra e al mattino aveva dormito senza sentirne nessuna. Lei era rimasta lì sdraiata e confusa, con un uomo morto accanto. Aveva capito che non sarebbe stato possibile amarlo in modo sensato se ogni mattina iniziava con il sollievo di trovarlo vivo.

Le sue amiche lo chiamano “l’uomo fantastico”. Lo dicono anche a lui ogni tanto, come se parlassero a un cane: “E come sta oggi l’uomo fantastico?” Dopo averlo conosciuto, pare si siano dimenticate di quando la accusavano di essere troppo esigente. “È valsa la pena di aspettare,” le dicono compiaciute, come se glielo avessero consigliato loro, “è perfetto. Ora per l’amor del cielo non rovinare tutto.”

La neve si deposita – la città ricoperta d’argilla. Si sente la confusione, un irrigidirsi di cose che prima non erano solide. Ghiaccio sui finestrini delle macchine, respiro faticoso.

La caviglia ha continuato a dargli fastidio, una seccatura che dura per tutta la settimana. Mercoledì lui si arrotola i pantaloni e lei vede che il livido si è trasformato in una cosa più strana, più grigia, un inaspettato effetto cruento che le fa mordere il labbro.

“Ti fa male?” chiede guardandolo saltellare per la cucina, ma lui scuote la testa, taglia le cipolle e prende il sale.

“Non più di tanto. È solo fastidioso.”

Le racconta che quando aveva tredici anni è cresciuto quasi ventitré centimetri nel giro di un’estate e riusciva a malapena a camminare.

“Mia madre la chiama la brutta estate,” dice e si indica l’anca. “Le ossa continuavano a uscire dall’articolazione perché cresceva tutto troppo in fretta. Racconta che cadevo dalle scale perché non avevo una percezione delle mie dimensioni, questi enormi ammassi di arti che lei si ritrovava dappertutto. Come se il mio corpo andasse in pezzi o qualcosa cercasse di uscirne. Sembra orribile ma sinceramente ora me lo ricordo a malapena.”

Lei adora queste storie, adora poi ricambiare con racconti della propria infanzia, la sua precoce discesa dalle scale. Trovare punti in comune è una magia senza fine, gli odori e i giornali al mattino, le piccole superstizioni che accomunano la loro infanzia, ogni somiglianza più significativa di quanto dovrebbe, lei lo sa bene. Perché in realtà, naturalmente, ci sono poche correlazioni. Lui è cresciuto molto più a nord; una grande casa, un’antologia di cugini, una dinastia di cani da compagnia. La sua infanzia è stata più modesta. Un brutto anatroccolo, i denti ingabbiati in un apparecchio. A quindici anni sfiorava appena il metro e mezzo, ha passato i giorni di scuola a essere esclusa dalle squadre di pallavolo, a farsi acconciature che le coprissero la faccia. La madre, una donna intraprendente e con le labbra sottili, alla laurea le aveva detto che con quella faccia nessuno l’avrebbe mai sposata.

Le piace raccontargli cose come questa e guardarlo aggrottare la fronte mentre cerca e non riesce a immaginarle. In questo modo lei prende consapevolezza della curiosa storia del mondo, degli abissi di differenti esperienze che ci possono essere tra gli innamorati.

Dopo cena guardano la televisione e lei gli tiene i piedi in grembo. Al buio la sua pelle ha una sfumatura blu, come se fosse stata lavata insieme a un paio di jeans nuovi. Gli traccia dei cerchi attorno alla caviglia con il pollice e si corruccia per la consistenza che ha. La pelle è secca sotto le sue dita, una sensazione di cera, di bambola rotta.

Le succede, certo, di dimenticare che lo ama. Nelle giornate più frenetiche, quando lascia impronte fangose sul linoleum della cucina, quando fischietta tra i denti. Nessuno, ne è sicura, è capace di amare sempre, senza interruzioni o tregue. Ogni tanto ci saranno semplicemente dei giorni in cui lui non avrà l’odore giusto, in cui lei penserà di intravedere qualcosa di diverso in lui, e quindi lo respingerà quando cercherà di baciarla, si pulirà la bocca col dorso della mano.

A volte fantastica che lui sia morto. Morto in qualche disastro spettacolare; investito da una moto, un embolo nei polmoni. In questi sogni va al suo funerale con una mantiglia e poi si trasferisce lontano, in un posto dove piove. La fantasia è dettagliata ma mutevole. Trova lavoro in un bar o in un cinema, impara a fare il pollo arrosto. A volte si fa tatuare il suo nome sulla caviglia, altre volte si fa dei piercing alle orecchie. Alla fine, va a vivere con un bellissimo uomo del posto senza passioni né interessi, che bacia bene e non ha bisogno di essere amato. Vivono insieme nel vasto blu distratto di questa città, senza condividere nulla l’uno dell’altra, perfettamente felici.

Il culmine di queste fantasie la spaventa sempre e finisce per chiamarlo con l’unico desiderio di sentire la sua voce, confusa e irritata a una qualche ora della notte.

“Ho chiamato solo per dirti che ti amo,” gli dirà e lui le risponderà di smetterla di citare canzoni degli anni ottanta e di telefonargli alle nove.

Le amiche sono spazientite dalle sue contraddizioni, le dicono che sta solo cercando dei pretesti.

“Hai quello che volevi. Perché devi sempre trovare qualcosa da ridire?”

Cerca di spiegare che non è sua intenzione. Acida per le patatine e arrabbiata perché l’hanno, a suo modo di vedere, deliberatamente mal interpretata. Si piega in avanti sulle ginocchia e ripete che è felice con lui, non lo sta mettendo in dubbio, ma le amiche non fanno altro che allontanarle il vino e ricordarle di com’era prima che lo conoscesse. “Forse sei stata sola troppo a lungo per viverla con serenità, Maggie, ma non dovrebbe essere una scusante.”

Queste prediche la fanno sentire presuntuosa, ingiustamente sgridata. Tornata a casa con le labbra appiccicose per il vino e per la discussione, brontolerà e ciondolerà in una serata solitaria, guardando la TV e ignorando i messaggi delle amiche, mentre si scalda la cena nel microonde. Onorerà la solitudine di un tempo con un pizzico di autocommiserazione, fingendo di godere del ristabilito silenzio, del telecomando e del divano solo per lei. Prima di lui, si era chiesta spesso se la solitudine fosse un’abilità che si poteva perdere come può capitare a una liceale col latino, o se invece fosse una competenza che una volta appresa non si perde più, come andare in bicicletta. Ormai, certo, conosce meglio i propri limiti. Di solito dopo una serata da sola è sazia. Lo chiama per chiedergli cosa sta facendo e se invece non vorrebbe andare da lei e stare insieme.

La signora Lumis è sulle scale del seminterrato senza parrucca, sembra una puzzola con una vestaglia spelacchiata. Maggie prova a passare senza subire commenti ma la signora Lumis non emerge a meno che non abbia qualcosa da dire.

“Il suo ospite non la smette, tutta la notte a sbattere e fare rumore. A momenti mi frana il soffitto. Non ho chiuso occhio.”

“Non era lui, signora Lumis.” Maggie è stanca, ha preso del cibo cinese che le scotta attraverso la maglietta. “Siamo andati a dormire alle nove e mezza, non si alza di notte.”

La signora Lumis scuote la testa e Maggie si sente colpevolmente paralizzata dalla curva a portauovo del suo cranio. Pensa alla scatola di parrucche con cui la madre una volta l’aveva incoraggiata a giocare ai travestimenti – immagina di sistemare i capelli di poliestere sulla testa della sua vicina; un caschetto rosso, l’elegante Elvira.

“Meglio mandarlo via, con tutti quei colpi.” Insiste la signora Lumis. “Non è il suo posto questo. Meglio mandarlo via.”

Maggie non le dà retta, vuole solo salire le scale.

“Se ha sentito qualcosa, signora Lumis, le assicuro che non era lui. Forse c’è un fantasma.” O forse se lo sta inventando, vorrebbe dirle ma si limita a spostare il sacchetto di cibo cinese più in alto sul petto.

La signora Lumis scuote ancora la testa.

“Nessun fantasma, cara. Solo io, tu e lui.”

Maggie scappa senza salutare, indica il cibo in un mezzo tentativo di scusarsi e barcolla all’indietro su per i gradini. Lo trova in cucina, a raccogliere goffamente i pezzi di una ciotola che sembra aver appena rotto.

“Pensa che ho detto proprio adesso alla signora Lumis che non sei tu quello che fa rumore,” sospira e appoggia il cibo cinese per poi chinarsi ad aiutarlo, scacciando con un gesto della mano le sue scuse. La ciotola è di ceramica smaltata blu, un ­souvenir di una settimana a Stoke, lui rimette insieme i pezzi con dolce precisione e la promessa di trovare un po’ di colla. Lei gli allontana le mani, già ride, anche se lo sgomento per le sue dita è abbastanza forte da smorzarle il sorriso. Lui è freddo, anche per una serata fresca, e lei gli chiede subito di tirare fuori le vaschette calde di manzo chow mein.

È rimasto a casa dal lavoro negli ultimi due giorni perché lei insisteva. La caviglia è peggiorata e lo innervosisce, e il raffreddore non sembra migliorare. Di notte il suo respiro è faticoso, qualcosa che si sgretola, come vernice che si sfalda. Le dice, con una scrollata di spalle, che da piccolo ha avuto la polmonite ed è solo più facile che si prenda un raffreddore o l’influenza. Ma la scrollata gli ha scatenato una tale sinfonia di rumori crepitanti che lei è quasi troppo distratta per rispondere.

“Non dovresti lavorare fuori,” gli dice più tardi, mentre mangia noodles al sesamo sul divano e gli disegna cerchi distratti sulla gamba. Appoggiati sul tavolino, i suoi piedi sono bianchi ed esangui, uno strano battito del cuore gli pulsa in alto sul ginocchio. “Comunque, non sotto la neve. Non con un tempo così.”

“Devo guadagnare il vile denaro,” replica lui, scacciando via la mano dalle sue gambe. “Mantenerti nel modo in cui sei abituata.”

È una battuta, ma è fiacca, e mentre la fa sbadiglia in un modo che gli incasina il tono della voce. Gira le spalle – un’altra raffica di suoni scheggiati – e scivola più lontano sul divano. Comincia una serie di colpi, come di tubi che sbattono dentro le assi del pavimento, e Maggie ci mette un po’ a capire che è la signora Lumis che picchia sul soffitto con qualcosa tipo un manico di scopa. Un ritmico imperativo – via da qui.

La prima volta che sono andati a letto insieme e stata anche la sua prima volta. Non l’ha mai detto a nessuno; d’altronde, ha quasi trent’anni.

Ha perso sangue, ovvio, ma lo ha fatto passare per mestruazioni – quando si dice il tempismo – una risatina nervosa. Lui non ci ha fatto caso, le ha baciato il mento, l’ha spostata sul fianco, e lei lo ha amato in quel momento più o meno quanto sarebbe arrivata ad amarlo in seguito, lo ha amato per la struggente gentilezza e per ciò che ha deciso di non vedere.

Il dolore è stato peggiore di quanto si aspettava, ma non nel modo in cui pensava facesse male. Si era sempre immaginata i colpi ripetuti, un grande taglio interno, un cadere in mille pezzi. In realtà, è stato proprio come le avevano assicurato le amiche più oneste: indescrivibilmente più noioso e più piacevole, il dolore più acuto e più localizzato; uovo rotto sul bordo di una ciotola.

Dopo lui non aveva fumato una sigaretta o parlato o l’aveva abbracciata, si era solo addormentato per una curiosa mezz’ora e poi si era svegliato chiedendo se aveva russato.

Un uomo pallido nella sua camera color carne, lunghi occhi blu e il suo odore di erba, piumino d’oca e qualcosa di sconosciuto; umidità su un muro. Guardandolo allora, aveva pensato a tutti gli uomini che avrebbero potuto precederlo, gli uomini ai quali aveva permesso di portarla al cinema e a cena ma che aveva evitato di far entrare nel suo appartamento. C’era sempre una ragione; un commento stupido o un lampo di violenza, una vena di crudeltà in una zona del loro corpo (una mano rapace, un addome scuro e carnoso). Abbastanza, qualunque fosse la ragione, perché desiderasse sbarrare loro la strada, inventare una scusa e prendere il treno verso casa da sola.

“C’è sempre qualcosa che non va secondo te,” le dicevano le amiche. “Sempre, in tutti gli uomini che conosci. È come se non volessi affatto un uomo, ma piuttosto un oggetto. Qualcosa che puoi mettere via.”

A dire il vero, si è spesso chiesta se il problema non fosse lei – se non fosse lei a far tirar fuori il mostro che avevano dentro. A rigor di logica, non potevano essere tutti così terribili come sembravano quando li conosceva, altrimenti perché qualcuna li avrebbe poi sposati o li avrebbe voluti accanto? Contatto prolungato, aveva concluso, brilla di Chardonnay, in piena autocommiserazione, dev’essere così. Troppo a lungo con me e tutti cambiano, in peggio.

Quella sera con lui aveva atteso la trasformazione. Un mutamento d’aspetto, ossa del viso scolpite diversamente. L’aveva cercato tutte le sere da allora, il mostro improvviso, ma fino a quel momento niente. Forse, spera, qualunque sia il suo potere sta svanendo. Forse può controllarlo con un uomo che ama.

“Guarda qui.”

Si spazzola i capelli allo specchio della toeletta. Grande sbadiglio mattutino. Fuori la neve è compatta, un battito morbido come di ali legate che cercano di liberarsi. Guarda di nuovo nello specchio e lo vede alzare le mani. La pelle attorno alle unghie è macchiata di scuro, come se avesse immerso le mani nell’aceto. Lo guarda e lui si strofina un polso contro l’altro, la strana solidità di un movimento, un tintinnio come di qualcosa che viene lanciato. Nello specchio anticato le sue dita non sembrano molto definite. Si intrecciano rigide, dure e instabili come una manciata di posate.

“Cosa sono?” gli chiede. “Geloni?”

“Non lo so,” risponde. “Penso di sì, con questo freddo.”

“Devi stare al caldo,” dice, mordendosi il labbro quando lui cattura il suo sguardo nello specchio. “Non metti mai le calze.”

“No, alle mani no.”

“Nemmeno ai piedi. Non fa ridere. Per questo hai sempre il raffreddore.”

Lui annuisce e attraversa la stanza per stamparle un bacio tranquillizzante sulla testa, sparando al suo riflesso un sorriso che lei non ricambia. I capelli le sono diventati di paglia per il freddo e tira fuori a fatica una risatina. Acuto squarcio di dolore.

In cucina rimette insieme i cocci della ciotola blu con la colla e guarda la signora Lumis dalla finestra. La vicina fa il solito giro del giardino, anche se la neve in alcuni punti arriva al ginocchio ed è anche fastidiosamente granulosa. È stata una settimana strana, per luce e ritmo. Lunghi pomeriggi nati da mattine passate nell’inclinarsi di una clessidra da cucina, mentre un’ora di ogni notte sembra durare un secolo, intere epoche trascinate in un’ostinata insonnia e il suo respiro affannoso sul lato sinistro del letto.

Brutta influenza, lui è rimasto a casa tutta la settimana più o meno involontariamente. Lei lo ha coperto con un mucchio di piumini e teme possa sembrare una specie di prigioniero, anche se lui ha smesso di protestare da quando ha perso la sensibilità dei piedi.

“Molto Misery,” ha scherzato senza forze, in risposta al suo primo assalto in camera da letto con zuppa e ginger ale, anche se da allora è diventato più sonnolento e meno incline ai commenti. Per rispondergli ha pensato di dire qualcosa di spensierato sull’essere la sua fan numero uno, ma le è venuto in mente appena in tempo che una cosa del genere poteva risultare più minacciosa di quanto non volesse.

La neve ha impacchettato la città al punto che non si muove più nulla. Non c’è modo di andare a lavorare – nessun treno, nessun bus – e di notte i lampioni si abbassano a intermittenza.

Accanto alla finestra della cucina, Maggie tiene la ciotola tra le mani per far asciugare prima la colla. In giardino la signora Lumis ha sospeso la sua rotazione e sta ispezionando un’apparentemente insignificante chiazza di neve. Anche oggi non indossa la parrucca ma, con imbarazzato sollievo, Maggie constata che ha almeno deciso di avvolgersi una sciarpa intorno alla testa. Le nappine di lana alle estremità pendono come fossero capelli, piccoli ricci di lana d’angora le formano una frangia sulla nuca. Guardando la finestra, Maggie si ritrova a pensare a una storia che le raccontava sempre la madre, di una vecchia signora che aveva vissuto da sola per settant’anni, finché non l’avevano trovata rinsecchita nella stanzetta della dispensa, dove era caduta e apparentemente si era mantenuta in buono stato di conservazione forse per i fumi di un barile di aceto che teneva lì per le conserve. Maggie ha sempre pensato che fosse un po’ ingiusto che la madre la incoraggiasse a essere fieramente indipendente e poi le raccontasse storie dell’orrore sullo stare da soli.

Più tardi, dopo aver riposto su uno scaffale la ciotola aggiustata, Maggie va in camera da letto, si infila sotto le coperte e si rannicchia accanto a lui come si è abituata a fare, sistemando i piedi dietro le sue ginocchia. Le mani, quando le tocca, sono pesanti e strane, e lui borbotta qualcosa sulle caramelle d’orzo. Nel dormiveglia Maggie pensa al letargo, alle cose che si induriscono e formano una crisalide per sopravvivere al freddo.

Al loro primo incontro le aveva passato una birra tenendola chiusa con il pollice per impedire che la schiuma le finisse sul vestito.

“Quindi cos’hai che non va?” gli aveva chiesto. “Perché sei single?”

Lui aveva riso, si era scrocchiato le nocche pensandoci e le aveva chiesto cosa non andasse in lei.

“Fai una lista,” aveva alzato le spalle. “Stronza, gorgone. Sono difficile.”

“Chi lo dice?”

“Perlopiù, io. Le mie amiche dicono che faccio scappare tutti.”

Le amiche le avevano consigliato di non precipitarsi con un uomo del quale non sapeva nulla. “Non mettere le uova in un solo cesto,” avevano sentenziato. “Sai quanto ti ci vuole poco a rimanere delusa.” Naturalmente, dato che erano le stesse amiche che le avevano variamente consigliato di non innamorarsi ma di trovare comunque un uomo, di accontentarsi di un uomo, di aspettare la perfezione, di darsi una mossa e di cambiare prospettiva, alla fine le aveva ignorate tutte e si era innamorata di lui lo stesso.

La prima volta che era rimasto da lei la signora Lumis era apparsa dal seminterrato nel blu intenso del mattino quando Maggie era scesa a prendere il giornale.

“Uno nuovo,” le aveva detto la signora Lumis, la parrucca sbilenca, e Maggie era rimasta sorpresa. “Qualcosa non va?”

“Come? No, non c’è niente che non va. È molto che non la vedo, signora Lumis. Pensavo si fosse trasferita e mi avesse lasciata qui da sola.”

La signora Lumis non aveva risposto, si era limitata ad assumere un’espressione tragica che Maggie aveva trovato grottesca e aveva guardato le scale.

“È difficile,” aveva detto, forse a sé stessa. “Tenersi stretto un uomo. È sempre più sicuro non guardarli direttamente.”

Apre gli occhi, come sempre, alla sveglia che lui ha messo. Lui, come sempre, no.

Il mattino è ancora scuro al di là delle tende, scuro di neve in arrivo, uno strato di brina sui bordi. Un morso glaciale prima del disgelo.

“Come ti senti?”

Si muove piano, ancora stordita dal sonno freddo e instabile, avvicina le gambe per scaldarsi i piedi contro le sue caviglie. Una strana sensazione. Sbatte le palpebre. Le lenzuola attorno a lui sono fredde, un oggetto pesante avvolto nella stoffa.

Appoggiata su un gomito, gli tocca la spalla, prova a spostargli i capelli dagli occhi e incontra resistenza. Tintinnio di porcellana. La luce è scarsa, troppo fredda per capire, anche se, da quel poco che intravede, c’è qualcosa che non va sul suo viso.

Lo chiama, gli tocca un polso. Come premere le dita su un muro. Pietra dura, ma non come marmo. Qualcosa di granulare – granito o calcare. Peso oscuro nella parte sinistra del letto. Prova ad abbracciarlo ma la pietra è ruvida, non trattata. Lui si spezza tra le sue mani.