Le meduse arrivano al mattino: un grande spiaggiamento, corpi neri sulla sabbia. L’oceano si svuota, mille invertebrati morti e morenti, tentacoli intricati e membrane fini e delicate che coprono la battigia per tre chilometri in ogni direzione. Sono traslucide, quasi spettrali, come se il mare avesse esorcizzato i propri fantasmi. Annegate all’aria, si spaccano e sanguinano le loro interiora. Una saturazione che si riversa sulla terra.
La gente sostiene che siano velenose: ortica di mare, criniera di leone, caravella portoghese. Si portano i cellulari in spiaggia, scattano fotografie, le mandano a trasmissioni sulla natura. Un fotografo finisce sul giornale locale, un altro occupa cinque minuti di un programma mattutino: “E per le notizie locali, un banco di meduse ha lasciato sbalorditi i turisti di una delle spiagge più popolari. Di certo non quello che ci si aspetterebbe per lungo fine settimana, giusto Cathy?” “In realtà, Tim, penso che un gruppo di meduse si chiami ‘schiaffo’.”1
La provenienza delle meduse rimane un mistero. La gente ne discute, link di articoli inviati di qua e di là. Sono il risultato del riscaldamento globale, dello smaltimento dei rifiuti tossici. Sono il segno del mutamento delle migrazioni globali, l’innalzamento del mare, El Niño. Sono californiane e molto lontane da casa.
Dal portico sul retro, Nicola osserva le operazioni di pulizia per quasi tutto il pomeriggio. È rimasta in vestaglia dalla sera prima, l’odore pungente del deodorante di ieri, il dentifricio rappreso agli angoli della bocca. Guarda uomini con stivali di gomma e pinze raccogli-rifiuti che scendono in spiaggia, portano via le forme collose con secchio e pala, le scaricano. La giornata è calda, piena estate, una miriade di uccelli sconosciuti. È seduta sul porticato con una caviglia agganciata all’altra e mangia brioche vecchie, del martedì mattina, beve caffè nero perché il latte è andato a male.
Sotto la vestaglia è piena di punture di zanzare. Ascelle non rasate, non si è depilata né idratata. La puzza di lievito delle lenzuola sporche, pomate su lividi infantili. Ieri sera ha cenato lì fuori – gamberi all’aglio precotti, strappati dalla confezione – e ha lasciato il piatto a fare la muffa al caldo del giorno. Come avvoltoi, i gabbiani girano sul portico. Versi cupi nel cielo liquefatto.
“Finiresti per darti fuoco, se provassi a vivere da sola,” le aveva detto Cece una volta. “Due giorni, al massimo. Metti a bollire un uovo e bruci la cucina. O quello o ti troviamo tre settimane dopo, soffocata da un ammasso del tuo solito casino. Non sei una casalinga nata, tesoro. Non sei il tipo.”
“Solo perché non mi fai mai provare.”
L’espressione di Cece – la resa dello sguardo seccato.
“Quando vuoi, tesoro. Sentiti libera.”
Il telefono è fuori uso dallo scorso fine settimana. Una benedizione, per molte ragioni. L’elettricità è staccata, è così da quando è arrivata e non ha idea di come fare. Il quadro elettrico in cantina è territorio inesplorato. Fa il caffè sulla cucina a gas, mangia prosciutto in vaschetta e pane e burro, cipolle sottaceto dal barattolo. Di sera, quando il sole abbandona la parte più orientale della casa, si ritira un passo dopo l’altro nella stanza più luminosa finché non c’è più luce e va a dormire.
Non può guardare la televisione, anche se l’inconveniente è minimo perché di solito guarda canali di televendite e medium in onda tutto il giorno. Chiama ora per una consulenza personale con un esperto sensitivo restando comodamente a casa tua. I suoi programmi tipo sono quelli che Daniel sostiene rivelino una mancanza di personalità (anche se, a dire il vero, secondo Daniel molte cose rivelano una mancanza di personalità: la passione per le caramelle gommose, il rifiuto di chiamare i cani con nomi da essere umano, i capelli lunghi sotto le spalle, i libri di Tolkien). Ha provato, in passato, a rieducarla, mettendo su History Channel, documentari sui beluga. La prima volta, quando aveva trovato Nicola a guardare il canale QVC a letto, con un mucchio di bucce d’arancia in grembo, aveva inclinato la testa e strizzato gli occhi allo schermo.
“Cosa vendono?”
“Uova Fabergé.”
“Non autentiche, no?”
“Non lo so. Se ne compri mezza dozzina, ti mandano l’espositore gratis.”
Aveva il dito sempre pronto per chiamare, un occhio troppo entusiasta per un’occasione. Il tonfo settimanale dei pacchi incartati di rosa era diventato presto un motivo di tensione; Daniel che consegnava con aria severa scatole contenenti forbici per la pizza, un set di coltelli di ceramica, sciarpe a fantasia, perle di coltura incastonate in abaloni.
“Cos’hai comprato questa volta?”
“Frutta di legno intagliata a mano. Ho pensato che potremmo metterla in sala.”
“Ci sono le maquette giapponesi in sala.”
“Lo so, ma c’è spazio per due cose.”
“Cos’è quello?”
“Forse un kiwi. Non lo so. Non sembrano quelli che ho visto in TV.”
In spiaggia una donna coi capelli rossi porta a spasso un bambino con un paio di bretelle elastiche. Il bambino non deve avere più di tre anni, scoordinato, con l’andatura goffa e ubriaca delle gambe che si sono conosciute solo di recente. Legato al polso della donna coi capelli rossi, tira verso il promontorio dove gli uomini con le pinze raccogli-rifiuti ispezionano il loro bottino. C’è bassa marea, il mare finge innocenza. Strizzando gli occhi, Nicola osserva lungo la linea della riva la spinta gentile dell’acqua, il vitreo rovesciarsi e inghiottire, le onde che si ritirano come labbra che mostrano i denti.
C’è un trambusto improvviso, il bambino legato sbanda verso qualcosa nella sabbia: una medusa, sventrata, una massa di tentacoli, campane e polipi che la squadra di pulizia si è persa per strada. La donna coi capelli rossi dà uno strattone forte alle bretelle, abbastanza da riportare indietro il bambino a metà della strada percorsa, il bambino per la sorpresa inciampa e si mette a piangere. Dal portico Nicola osserva uno della squadra che sta pulendo la spiaggia avvicinarsi e valutare la situazione, la ragazza coi capelli rossi ha già afferrato il bambino per il polso e lo scuote, le unghie infilate nella pelle. L’uomo alza le mani, la pinza raccogli-rifiuti balzella per aria: Qual è il problema, signora? La donna si gira, gli pianta un dito nel petto, gesticola prima verso la pinza e poi verso la medusa. Il bambino, col braccio ancora agguantato dall’altra mano, barcolla avanti e indietro trascinato dal gesticolare della donna, piagnucola ma è presto distratto dal fascino dell’improvvisa apertura delle ostilità. L’uomo abbassa le mani, indietreggia. Fa oscillare la pinza, sta per piantarla nella sabbia e poi cambia idea e la rialza per battersela sul palmo come un poliziotto con un manganello.
I due litigano, duellano con le dita puntate. Il nocciolo della questione sembra essere che la donna coi capelli rossi incolpa la squadra di pulizia del fatto che il bambino stava per cadere su una medusa, mentre l’uomo la ritiene responsabile di non aver acquistato delle bretelle più corte. La donna gli pianta il dito nel petto altre due volte, l’uomo si para tutte e due le volte con la pinza. Nicola immagina pezzi di conversazione – sostiene l’una e l’altro, a favore e contro. Nel frattempo il bambino, dopo essersi liberato dalla presa della madre, trotterella di nuovo verso la medusa con ritrovata determinazione, mentre le voci degli adulti sfumano nel vento proveniente da est.
È qui da una settimana ma si considera ancora in una condizione di assedio. Il cibo non resiste quanto si sarebbe aspettata: due brick di latte, uno già cagliato; un sacchetto di arance, tre mangiate, sei marce; sei scatolette di tonno, una di mais; due vaschette di prosciutto, due di gamberetti, due di salame; un ananas, impenetrabile; il barattolo di cipolline sottaceto; un pacco di cracker; un tocco di formaggio; una barretta di cioccolato; una pagnotta bianca di muffa.
Se fosse Cece, avrebbe portato pasta o patate; cibo adatto a lunghe reclusioni, con solo una cucina a gas di equipaggio. Se fosse Cece avrebbe pensato anche a un apriscatole. Al terzo giorno non ne può più di cipolline e ha le gengive irritate dai cracker. Il prosciutto fuori dal frigo sta formando una strana pellicola color ostrica lungo i bordi.
Questa indecenza di pane ammuffito e latte andato a male non è quello che sperava, anche se non può negare che aggiunga un tocco bohémien alla situazione. La casa allo stato attuale – coperta di teli e con la piscina vuota – è assurdamente perfetta per i pasti a base di uvette Sun-Maid e pseudocheddar consumati sul pavimento. Di pomeriggio, prima che il sole cali, si siede nella sala da pranzo che si affaccia sul ripido promontorio, impila piccole torri di cracker che poi ricopre di marmellata e mangia per diversi lunghi minuti, fingendo interi banchetti dal suo posto a capotavola.
Daniel ha già bollato il luogo come privo di interesse. Ha venduto la maggior parte dei mobili all’asta a novembre, e quasi tutta la collezione di porcellana bianca e blu sembra essere stata presa nello stesso periodo. Le chiazze sbiadite lasciate dai quadri – un fenomeno comune per cui Nicola una volta si era sorpresa che non esistesse un nome preciso – deturpano tutte le stanze della casa. Uno spudorato esercizio d’inganno. Daniel si era portato avanti e aveva venduto i tappeti persiani e buona parte dell’argenteria prima di chiedere il divorzio.
Rimangono – con evidente intenzionalità, secondo Nicola – molti dei suoi acquisti di QVC. Uno scaffale di matriosche dipinte come i Muppet. Una macchinetta contasoldi. Un grosso gatto di ceramica con un buco in testa dove mettere gli ombrelli. Tra gli spazi vuoti lasciati dalla confisca di Daniel, le cose di Nicola restano come una serie di insulti. Una lampada a forma di boccia da pesce rosso, una clessidra da cucina con sabbia color indaco. Questi oggetti sono sparsi per la casa come una discarica di materiali inutili; reperti archeologici troppo banali per essere trasferiti dallo scavo. Il divorzio va avanti da sei mesi e Nicola ha smesso di cercare di ricordare dove siano le cose. Il dito si è macchiato intorno alla fede, un gonfiore verso il nodo della nocca come quando aveva mangiato le ostriche il giorno del suo quindicesimo compleanno ed era finita al pronto soccorso. Ogni mattina, prima che il caldo del giorno s’impadronisca del suo corpo e lo renda appiccicoso e intrattabile, stringe e fa girare l’anello, tirandolo su e giù nel vano tentativo di coglierlo di sorpresa, farlo scivolare e sfilarlo prima che il gonfiore la fermi. Non funziona mai – la mano sinistra è troppo intelligente per la destra.
“Grasso di pancetta,” aveva detto una volta Cece al telefono (alcuni mesi prima che Nicola le rubasse la macchina per guidare fino alla casa sulla spiaggia e perdesse automaticamente il suo diritto ai buoni consigli). “Oppure immergi il dito nell’acqua salata. Assorbe l’umidità dalla pelle.”
“Ci ho provato,” le aveva risposto Nicola, “e la crema al pompelmo e l’esfoliante al sale e la mano sollevata per quindici ore al giorno. Non funziona niente.”
“Be’, allora non lo so.” Il figlio di Cece sullo sfondo urlava i comandi di una partita a Twister – Mano sinistra sul rosso! “Tagliati il dito o non divorziare, magari. Che ne so io.”
Un fulmine globulare colpisce le porte del patio. Un violento rimbalzo blu, come una cascata di grandine. Osserva la tempesta dalla finestra della cucina e si chiede se il mare sferzato espellerà altri corpi. I suoi medium telefonici sarebbero d’aiuto ora. Percepisco una specie di invertebrato, parecchi, in realtà.
La notte in cui lei e Daniel si erano conosciuti c’era stato un temporale. Niente di che a dire il vero: tre fulmini striminziti e un calo di pressione, ma abbastanza per divertire gli ospiti della cena di Cece. Cece non li aveva fatti sedere vicini, desiderosa com’era di sistemare Daniel con una sua amica che vendeva arte manierista e possedeva un branco di shih tzu che portavano il nome delle fasi lunari. Gibbosa è una piccola canaglia, tiene sulla corda Crescente e Primo quarto.
“Mia sorella è quella bella,” aveva annunciato Cece quando era arrivata Nicola. “Nostro padre la chiamava merce preziosa, per cui occhio a come vi comportate.”
L’aveva fatta sedere accanto a un uomo più vecchio che le aveva dato lezioni di giurisprudenza per tutta la durata dell’antipasto di pesce, poi si era scusato ed era andato in bagno con un’espressione inequivocabile sulla faccia come a dire che era Nicola quella noiosa. Era stato allora che Daniel le era scivolato accanto, dopo aver mollato cinque sedie più in là la collezionista di shih tzu abbastanza umiliata, come si sarebbe lamentata Cece qualche tempo dopo.
“Sembra che tu abbia bisogno di un salvataggio,” aveva esordito scherzando. La sua improvvisa enormità, un blocco scuro contro i fulmini.
“So badare a me stessa,” gli aveva risposto Nicola allargando le spalle, ma lui aveva scosso la testa.
“Non si lascia una signora in pericolo, come diceva mio padre.”
L’aveva portata alla casa sulla spiaggia quella notte stessa, tre ore di fuga frenetica nell’oscurità settembrina. Si era lasciata catturare, come una specie di preda di un villaggio conquistato, l’aveva lasciato straparlare di quanto le sarebbe andato a genio quel posto, un rifugio dalle pressioni del mondo. Tenendola per mano in modo da farle evitare lo sporco di qualche volpe sul vialetto di casa, le aveva mormorato: “Attenta a dove metti i piedi,” tanto sollecito quanto imperativo. L’aveva baciata in corridoio, poi le aveva fatto strada fino al portico.
Il divorzio è stato di sicuro diverso. Nessun temporale, solo un ciclone.
Non dorme bene. Prova con il miele, raccoglie la lavanda dai cespugli che spuntano tra le assi del portico. Daniel ha portato via il letto, ma lei passa la notte ancora in quei confini, uno spettro rettangolare al centro della stanza. A partire da questa messa in scena, può recitare serate diverse, altri fine settimana, quando la casa era arredata non solo dal ricordo delle cose.
Mezzanotte di un caldo settembre, le falene sbattono contro la plafoniera. Luglio, madido di sudore, Daniel prepara un cocktail all’uovo per smaltire la sbronza e si lamenta degli occhi.
Un mese dopo che si erano sposati avevano guidato fino alla casa in un tramonto torrido, le luci della macchina sull’acqua che diventano bianche. Una volta entrati con passo incerto, barcollando in camera da letto, lei lo aveva spinto via, scoprendo i denti come nocche e accusandolo di aver guidato ubriaco.
“Parla per te,” ridacchiò lui – la sua gioia furtiva di prenderla per i capelli. “Succo d’arancia tutta la sera. Qualcuno doveva pur essere il guidatore designato nel caso tu fossi finita ubriaca ubriaca.”
“Ubriaca ubriaca,” aveva ripetuto lei, divertita dal suono della parola. Il perdono nel suo sguardo, la stretta presa ai fianchi.
La mattina si era svegliata per uno scroscio di pioggia estiva. Braccia pesanti attorno a lei, da cui era difficile liberarsi. Era sgusciata fuori e aveva osservato Daniel, che russava appena, con uno sguardo truce nel sonno, come di biasimo. Lo aveva conosciuto allora, aveva visto la sua pelle di lupo mannaro sotto la superficie. Senza svegliarlo, era uscita dalla camera e aveva attraversato il portico, in vestaglia, a piedi nudi, scivolando sulle assi di legno. Oltre la sabbia, l’acqua schiumava vivace, come se si alzasse per incontrare la pioggia. La marea calava, la spiaggia si riempiva dei suoi rifiuti quotidiani, ascofillo, ossi di seppia e lattine di birra. Le granceole erano sbucate dai loro nascondigli verso la relativa sicurezza delle secche.
Nessuno ha bussato alla porta per tre giorni, finché un tizio dell’ufficio dell’avvocato di Daniel è arrivato con una Prius e si è accampato davanti alla casa.
“Bisogna stroncare sul nascere queste cose,” ha gridato dalla buca delle lettere, agitando le dita attraverso lo sportellino di rame, come un insetto invasore. “Possiamo risolvere tutto in fretta e senza problemi. Diciamo che è stato un piccolo errore di valutazione. È un periodo stressante. Questioni difficili, decisioni difficili. Nessun danno nessun fallo, eccetera.”
Seduta in fondo alle scale dell’ingresso, ha continuato a piluccare il salame immaginando l’avvocato di Daniel – una calvizie quasi inquietante, come se l’avessero immerso nella soda caustica. Durante il loro ultimo incontro, si era chinato verso di lei e aveva visto una goccia di sudore viaggiare in una linea ininterrotta dalla punta della testa fino al centro delle labbra dove lui l’aveva intercettata con un guizzo della lingua. Mi corregga se sbaglio, ma i documenti di cui dispongo e la testimonianza del mio cliente sostengono che lei in realtà non ha mai lavorato, signora Carmichael. Che lei è andata avanti tutta la vita grazie alla generosità di altre persone, giusto?
Alla buca delle lettere le dita hanno sbattuto, si sono ritirate, la voce dietro la porta è diventata irritabile. “Signora Carmichael, non so lei ma io non riesco a immaginare nessuna donna sana di mente che voglia farsi denunciare, figuriamoci con un’accusa di violazione di domicilio, ma è quello che succederà se continua con questa bella trovata. Se lei invece aprisse la porta e parlasse con me, sono convinto che troveremmo una soluzione.”
Dopo una scrollata di spalle, Nicola si è avvicinata alla porta – l’aveva barricata con delle sedie – e ha infilato il resto del salame nella buca delle lettere per poi allontanarsi. (Adesso si pente del gesto, almeno un po’. Col prosciutto in questo stato, le sono rimaste poche proteine tra le provviste.)
Che la minaccia della denuncia fosse seria o no, non ci sono stati altri visitatori. Potrebbero benissimo esserci state delle telefonate ma per sua fortuna non può saperlo. Si aspettava, in realtà, di veder arrivare Cece, ma forse il fatto che la sorella non abbia più una macchina può avere a che vedere con il suo ritardo.
In sala da pranzo, tra cracker con la marmellata, inscena intensi drammi, immagina scenari, gesticola verso gli spazi lasciati sui muri. “Cosa pensavi di risolvere?” le avrebbe chiesto la sorella – le braccia rigide, la coda di cavallo stretta in un foulard Hermès. “Daniel ottiene la casa sulla spiaggia nel divorzio e tu subito ti precipiti e ti barrichi dentro? Sai che mio figlio è più bravo a gestire i conflitti?”
“Non la vuole nemmeno,” avrebbe replicato Nicola, “ce l’aveva prima di conoscermi e non ci veniva mai. E ora minaccia di venderla. Solo perché sa che la voglio io. È come un bambino che distrugge un gioco con cui non ha mai giocato quando la madre cerca di darlo via.”
“Psicologia da quattro soldi,” avrebbe detto Cece. “Non sai di cosa parli. Se c’è qualcuno che si sta comportando in modo infantile qui, sei tu.”
“Dovresti stare dalla mia parte,” si sarebbe lamentata Nicola – si lamenta davvero, a voce alta, in sala da pranzo, da sola.
Le meduse tornano il giorno dopo. Inondano la battigia al mattino presto come rifiuti di plastica, la spiaggia respira a fatica dopo una nottata tempestosa. L’estate sta diventando imprevedibile, gonfia di pioggia – una stagione bianca, maleodorante, sporca di nuvole.
Dal portico Nicola osserva il subbuglio. Adolescenti con i telefonini in mano, si filmano mentre punzecchiano le meduse con dei bastoncini. Verso la fine della spiaggia, una coppia di anziani passeggia a braccetto, con dei giacchini abbinati. La donna è curva, il grande mento e il bargiglio pendono sopra lo sterno. L’uomo, malgrado sia alto e abbastanza arzillo, cammina piegato allo stesso modo e ha lo stesso passo esitante. Quando si avvicinano a una medusa lui si raddrizza giusto il tempo per individuare un percorso libero per aggirare l’ostacolo, prima di ricadere nella postura gobba che lo rende così simile a lei e portarla al sicuro nella baia.
Per tutta la mattina Nicola cerca la donna coi capelli rossi e il bambino legato, ma nessuno dei due appare. Intorno a mezzogiorno arriva una troupe televisiva per girare un breve servizio – i presentatori di un noto programma di approfondimento che Daniel guardava, o almeno così le pare di ricordare, chiacchierano affabili, le scarpe infilate in sacchetti di plastica. “Potenziale attrattiva per i turisti, certo… ma questa piaga può essere sintomatica di qualcosa di più serio, Cathy?” “Sai Tim, credo che ‘piaga’ sia una parola che si usa per gli insetti di solito.”
Dietro di loro i ragazzini ballano a favore di telecamere, tirano fuori la lingua e salutano finché il regista deve interrompere le riprese e chiedere loro di smetterla.
Nel pomeriggio si siede in soggiorno e cerca di ignorare il brontolio dello stomaco. Le razioni di cibo stanno per raggiungere livelli preoccupanti, ma la prospettiva di uscire di casa per procurarsi del cibo le sembra solo un invito a un’invasione. Se fosse Cece avrebbe portato una borsa termica. Se fosse Cece avrebbe risolto la situazione. Sistema gli scacchi di plastica e gioca con regole a casaccio, come se fosse Ludo, facendo saltare gli alfieri sopra i cavalli e muovendo le regine senza limiti. Una volta Daniel le aveva mostrato una sua foto a un torneo scolastico di scacchi – dieci anni, sproporzionato, con l’apparecchio e un nasino ancora non sviluppato, stringeva infastidito un premio di partecipazione.
“Non avevo ancora decifrato il codice,” aveva detto mentre disponeva la scacchiera tra loro, e lei lo aveva amato per i denti dritti, il naso appuntito e il fatto che non sopportasse perdere. Le aveva insegnato strategie e mosse, dandole uno schiaffo sulle mani quando muoveva d’impulso.
“Ci sono modi più sicuri di arrivarci,” ripeteva, più e più volte, e risistemava i pedoni intorno al re. “Non fare stupidaggini. Non c’è alcun bisogno di perdere, se solo usi la testa.”
L’avvocato di Daniel ha una voce cremosa. Mentre parla attraverso la buca delle lettere lo immagina leccarsi il sudore con la punta umida e scura della lingua.
“Signora Carmichael, ho qui con me istruzioni scritte che le intimano di sgombrare la proprietà entro domani pomeriggio. Non è uno scherzo, ragazza. È una faccenda legale. Pensi bene a cosa va incontro.”
Lascia cadere le carte nella buca e se ne va, purtroppo lei ha finito il salame da rispedire dall’altra parte. Prende la serie di buste e apre subito quella con la grafia di Daniel, dentro però c’è solo un riepilogo scritto al computer di tutte le offerte che le ha fatto negli ultimi sei mesi: l’Alfa Romeo, il set di coltelli in argento sterling, una collezione di statuine danesi, metà dei libri, metà delle miglia aeree, tutti i gioielli.
“Mi sanguina il cuore,” aveva detto Cece guardando una lista simile solo qualche settimana dopo che si era saputo del divorzio. Stava tagliando del formaggio. Una macchia di marmellata d’albicocche sulle labbra. “Tiene la macchina così tu prendi solo l’altra. Tiene le carte di credito così tu prendi solo il lingotto d’oro e la miniera di diamanti.”
Porta le buste in cucina e vaga sul portico. Le meduse hanno invaso la spiaggia per la quarta o quinta volta, ma oggi gli uomini che devono ripulire hanno avuto l’idea di un falò. Non lontano dal promontorio si sta formando una grossa torre di corpi – cose senza testa e senza forma ammucchiate una sull’altra, inconsistenti sagome di creature prosciugate di ogni sostanza che inzuppano la scogliera del litorale. La troupe televisiva è tornata e sta filmando un servizio sul crinale delle dune. “Quello che possiamo aspettarci tra pochi minuti, Cathy, è una inflagrazione potenzialmente diversa da quelle che abbiamo visto finora.” “Una conflagrazione, Tim. Inflagrazione non vuol dire niente.”
Nicola osserva la piccola calca che si forma attorno al falò, gli uomini che scaricano palate sul mucchio. Il fuoco, quando sale, è di un fiacco e nauseabondo azzurro, riempie l’aria con un odore di bollito. Sul portico Nicola piega in due la lista che ha ancora in mano e sul retro trova uno scarabocchio scritto con una penna nera.
Nicola, per l’amor di Dio, cresci.
Ha finito il cibo, eccetto i cracker, che sono diventati molli perché li ha lasciati aperti. Non ha niente da fare e si addormenta nel primo pomeriggio sul pavimento della camera da letto. Prima sogna il suo matrimonio: i cocktail di gamberi nei bicchieri da Martini e Daniel che la fa girare su “Try a little Tenderness”. Cece fa un discorso sulla sua sorellina – Abbiamo sempre saputo che Nic avrebbe trovato una persona affidabile – e Nicola tenta di fare il suo brindisi, anche se a quel punto il sogno cambia e lei immagina di essere una medusa, una cosa cieca, che si può strappare come carta, che affonda nell’acqua nera in una notte febbrile e senza luna.
Prima che il padre morisse, l’aveva chiamata principessa, merce preziosa. Univa le mani e mimava l’inchino di un servitore.
“C’è una mancanza di autoconservazione in te,” aveva detto Cece, nel bel mezzo del funerale del padre, “che a dirla tutta è un vezzo. Dai per scontato che agli altri importi abbastanza da prendersi cura di te.”
Quando le aveva chiesto il divorzio Daniel le aveva detto che era almeno in parte colpa sua, lo sapeva. Curvo, con le mani sulle ginocchia, aveva parlato al pavimento del portico e spiegato che non aveva considerato le insidie che implicava prendersi davvero la responsabilità di qualcun altro. Lei gli aveva risposto, come aveva fatto la prima volta a cena, che sapeva badare a sé stessa, ma lui anche questa volta aveva solo scosso la testa e si era tolto la fede, come se niente fosse.
La sera Nicola esce di casa e s’incammina lungo lo stretto sentiero fino alla spiaggia. Il falò si è esaurito durante il giorno e ormai rimangono solo i resti. Una spirale di fumo indaco. La battigia è calma, pulita, come la prima volta che Daniel l’ha portata lì a passeggiare, tenendole la mano e il gomito per guidarla tra i buchi nella sabbia. Si fa strada da sola ora, ruota solo per attimo una caviglia sul pendio.
Oltre le dune, riesce a vedere il portico che circonda la casa, i piatti e le tazze che ha lasciato lì, la vestaglia appesa allo schienale di una sedia. L’avvocato di Daniel non apprezzerà il casino, immagina, quando tornerà domani, né la casa vuota o il fatto che ha lasciato la porta aperta e le finestre del lato nord e di quello sud spalancate, né le chiavi sotto lo zerbino.
La serata è dolce, i gabbiani notturni vorticano sull’acqua. Nella borsa tiene le matriosche della televendita, il timer da cucina con la sabbia colorata, la macchinetta contasoldi. Ha dovuto lasciare il gatto di porcellana perché è poco maneggevole da trasportare.
Sono da poco passate le dieci, non ha particolare fretta di andarsene. Si siede sulla sabbia, in un punto appena dopo la linea delle alghe, e giochicchia con la fede al dito ancora gonfio, la rigira in cerchi infruttuosi, senza oltrepassare la nocca. Arriveranno altre meduse. Più tardi, ad arenarsi nella tenue luce di mela che segue l’alba, prodotto della prima marea. Quando arriveranno lei sarà ancora lì, brinata della salsedine di una notte sulla spiaggia. Si stenderà, in attesa della convocazione. Meduse che si spiaggiano contro le sue braccia e le sue gambe, la cresta del corpo su un corpo delicato. La ricopriranno, saranno guanti sulle mani, le circonderanno le caviglie. A seconda della specie, una medusa può impiegare fino a cinquanta minuti per morire quando è fuori dall’acqua. Nella sottile corda di salvataggio di una marea calante questo tempo può facilmente triplicare. Nicola rimarrà con loro fino a mattino inoltrato, le loro campane pulsanti come tanti cuori addolorati. Coperta, quasi dalla testa ai piedi, sentirà la marea ritirarsi. Sentirà un tocco gelatinoso sulla punta delle dita, più morbido tra le membrane. Immaginerà di sprofondare, di diventare meno solida, di riversare le sue viscere sulla sabbia.
1 In inglese il collettivo per indicare un gruppo di meduse è smack, “schiaffo”. (N.d.T.)