Quattro anni dopo la morte di Leonardo, il 6 marzo 1523, un gentiluomo ferrarese, Alberto Bendidio, in difficile missione diplomatica a Milano, scrive al duca di Ferrara Alfonso d’Este. Partecipando a una giostra cavalleresca, ha incontrato un giovane aristocratico della famiglia Melzi, ha scoperto che è fratello di Francesco, e non ha perso tempo per avvicinare e frequentare l’ultimo allievo di Leonardo:1
Un fratello di questo che ha giostrato fu creato de Leonardo da Vinci et herede, et ha molti de’ suoi secreti, et tutte le sue opinioni, et dipinge molto ben per quanto intendo, et nel suo ragionare mostra d’aver iuditio et è gentilissimo giovane. L’ho pregato assai volte ch’el venghi a Ferrara, promettendogli che V.S. li vederà con bona ciera, et dopo ch’io son venuto l’ho replicato ad un suo barba gentilhomo molto da bene et honorato, che a lui non ho potuto dirlo, perché sta in villa per la febbre quartana. Se piacerà a V.E. ne farò ancora maggiore instantia. Credo ch’egli habbia quelli libricini de Leonardo de la notomia, et de molte altre belle cose.
Come faceva il Bendidio a essere cosí bene informato? Chi aveva diffuso a Ferrara informazioni su quei «libricini de Leonardo de la notomia, et de molte altre belle cose»? L’emissario estense, amico dell’Ariosto, era stato per diversi anni al servizio del cardinal Ippolito, che in gioventú aveva conosciuto personalmente Leonardo, ed era stato suo corrispondente (a lui è indirizzata la già citata lettera del 1507 di mano del Vespucci). Appena tornato dall’Ungheria, ospite del castello sforzesco di Vigevano nel 1494, Ippolito aveva adottato un’ingegnosa impresa poi celebrata dai contemporanei, l’immagine di un falcone e un meccanismo d’orologio col motto «fal con tempo», ideato da Leonardo.2
Alla corte di Ferrara era inoltre presente e attiva una principessa che nella conservazione di un’insigne collezione libraria aveva trovato una forma di compensazione morale alla sventura politica e personale che aveva colpito lei e i suoi familiari: Isabella Del Balzo, già regina di Napoli, vedova dell’ultimo re aragonese Federico III (morto esule in Francia nel 1504), riparata a Ferrara presso la cognata Eleonora d’Aragona, e proprietaria di quel che restava della grande biblioteca aragonese di Napoli (dopo la sua morte, nel 1533, la raccolta sarebbe passata al figlio Ferdinando viceré di Valencia in Spagna, ed è oggi alla Biblioteca Universitaria di Valencia).
La «infelicissima regina Isabella» era stata ricordata piú volte in un diario di un viaggio per l’Europa in cui si racconta la cronaca di un incontro col vecchio Leonardo a Cloux. Si tratta del viaggio (iniziato il 9 maggio 1517 a Ferrara, e concluso il 26 gennaio dell’anno successivo sempre a Ferrara) del cardinal Luigi d’Aragona, cognato di Isabella, narrato giorno per giorno dal segretario Antonio De Beatis. Il cardinale, a sua volta, doveva avere già incontrato Leonardo a Roma, quando l’artista era stato ospitato in un appartamento del Belvedere da papa Leone X (dal 1513 al 1516).
L’11 ottobre 1517 il cardinale e il suo seguito visitano la biblioteca del castello reale di Blois, notando la presenza di tanti manoscritti che ancora recavano le armi degli Aragona o degli Sforza, evidentemente sottratti dai sovrani conquistatori, Carlo VIII e Luigi XII, nelle imprese di Napoli e di Milano, o anche acquistati alla vedova regina Isabella quando questa era ancora in Francia:
Tra dicti libri ne son molti che per le arme de le ciappecte se monstrano esserne già stati del re Ferrando primo et del duca Ludovico Sforza; quelli del re Ferrando comprati in Franza da la infelicissima regina Isabella do poi la morte de re Federico, et l’altri credo guadagnati ne la invasione del ducato de Milano.3
Subito dopo, i viaggiatori si trovano di fronte a uno splendido ritratto di donna:
Vi era anche un quatro dove è pintata ad oglio una certa signora de Lombardia di naturale assai bella, ma al mio iuditio non tanto come la signora Gualanda.
È l’unico dipinto ricordato nella giornata di Blois. Il segretario De Beatis azzarda un sorprendente paragone tra la bellezza della «signora di Lombardia» (la Belle Ferronnière del Louvre?) e quella di una certa «signora Gualanda», il cui nome misterioso affiora per la prima e unica volta nelle pagine del diario.
In una nota a margine, però, De Beatis è piú preciso: si tratta della «S.ra Isabella Gualanda», una gentildonna nata a Napoli verso il 1491 da un matrimonio (organizzato nel backstage diplomatico del matrimonio di Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza) tra il cavaliere pisano Ranieri Gualandi e la dama milanese Bianca Gallerani (figlia di Pietro da Gallarate, cortigiano sforzesco già oratore a Napoli e amico di Leonardo a Milano; suo fratello Filippo ebbe l’onore di portare a Ludovico il Moro l’ordine dell’Ermellino). Orfana ad appena un anno, era stata accolta nella corte aragonese sotto la tutela di Alfonso d’Aragona, duca di Calabria e poi re di Napoli; giovane sposa e poi vedova, Isabella si era presto rimaritata col nobile napoletano Giovanni Alfonso Picciolo. Un accenno cosí diretto e quasi familiare da parte del De Beatis («al mio iuditio») suggerisce una frequentazione diretta, avvenuta negli anni precedenti, a Roma, dimora di Luigi d’Aragona e anche di Leonardo.4
Ma dove si trovava Isabella alla fine del 1517? A Napoli, occupata a preparare il suo guardaroba per la grandiosa festa di nozze di Bona Sforza regina di Polonia, figlia di Isabella d’Aragona duchessa di Milano e di Bari, che si sarebbe svolta nel Castel Capuano il 6 dicembre 1517. La grande sala del castello avrebbe accolto le donne piú belle e potenti del tempo: Costanza d’Avalos duchessa di Francavilla e sua nipote Costanza duchessa di Amalfi, Isabella de Requesens moglie del viceré Raimondo de Cardona, sua nipote Giovanna d’Aragona, Vittoria Colonna. Di fronte a loro, Isabella non doveva sfigurare: si sarebbe presentata con «una gonnella di tela d’argento con seggie di fuoco d’oro de martiello con un grosso collaro d’oro, et barretta de raso bianco con certe seggie di fuoco correspondenti alla gonnella semenate per le pieghe».5 La veste di gala esprimeva in modo trasparente un messaggio umano e politico al tempo stesso: la fedeltà, nella memoria e nella riconoscenza, a casa d’Aragona, agli antichi principi di Napoli, e in particolare ad Alfonso duca di Calabria, padrino di battesimo del fratello di Isabella (chiamato con lo stesso nome di Alfonso) e tutore dei due bambini rimasti orfani dopo la morte del padre Ranieri nel 1492. La ‘sedia di fuoco’ (il sillo perilloso) era infatti un celebre emblema aragonese, e lo stesso Leonardo l’aveva utilizzata (chiamandola «focosa cadrega») nella veste del gentiluomo e poeta veneziano Antonio Grifo, partecipante al torneo organizzato da Galeazzo Sanseverino in occasione delle nozze di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este nel 1491 (Codice Arundel, c. 250r).6
Il giorno prima della sosta a Blois, il 10 ottobre 1517, il cardinale e il suo seguito avevano visitato Leonardo ad Amboise, come registra fedelmente De Beatis:7
Da Turso, dove se dimorò per tucte le nove del mese, do poi pranso se andò ad Amboys distante vii leghe, quale si bene è poca villa, è allegra et ben posta; lei è in piano, ma ha un castello in un pogetto, che si non è di forteza, di stantie è commodo et ha bellissima prospectiva. Llí il roy Carlo che fu in Napoli stava molto volentieri, roy Luysi il patre in Turso, et lo roy Ludovico successore in Bles. In uno de li borghi el signore con noi altri andò ad videre messer Lunardo Vinci firentino, vecchio de piú de lxx anni, pictore in la età nostra excellentissimo, quale mostrò ad sua Signoria Illustrissima tre quatri, uno di certa donna firentina, facta di naturale, ad instantia del quondam magnifico Iuliano de Medici, l’altro di san Iohanne Baptista giovane, et uno de la Madonna et del figliolo che stan posti in gremmo de sancta Anna, tucti perfectissimi. Ben vero che da lui per esserli venuta certa paralesi ne la dextra non se ne può expectare piú cosa bona. Ha ben facto un creato milanese, chi lavora assai bene. Et benché il prefato messer Lunardo non possa colorire con quella dulceza che solea, pur serve ad fare disegni et insignare ad altri. Questo gentilhuomo ha composto de notomia tanto particularmente cun la demostratione de la pictura, sí de membri, come de muscoli, nervi, vene, giunture d’intestini, et di quanto si può ragionare tanto di corpi de huomini come di donne, de modo non è stato mai anchora facto da altra persona. Il che habbiamo visto oculatamente; et già lui ne disse haver facta notomia de piú de xxx corpi tra mascoli et femine de ogni età. Ha anche composto de la natura de l’acque, de diverse machine et d’altre cose, secondo ha referito lui, infinità de volumi, et tucti in lingua vulgare, quali si vengono in luce, saranno profigui et molto delectevoli. Esso ultra le spese et stantie da re di Franza ha 1000 scuti l’anno di pensione et lo creato trecento.
Non dobbiamo pensare alla visita del cardinale come a quella di un reverendo uomo di chiesa. Luigi d’Aragona, nel corso del suo viaggio, si presentava sempre con l’aspetto elegante di un principe del Rinascimento, “diffarzato” (cioè in farsetto, la corta giubba in uso all’epoca) o con una lunga veste rosa fasciata di velluto nero (solo alla presenza di Carlo d’Asburgo e di Francesco I aveva indossato l’abito rosso da cardinale). Di piú, la visita a Cloux può essere stata quasi un’invasione. La comitiva del cardinale era composta da una decina di gentiluomini, tutti con i loro garzoni al seguito, furieri, cuochi, intendenti, interpreti, palafrenieri e stallieri, e il segretario Antonio De Beatis (in tutto, trentacinque persone a cavallo).
Ma Leonardo è abituato alla “conversazione” con i principi, e in particolare con quella categoria speciale costituita dai principi della Chiesa, monsignori, cardinali e papi (Ippolito d’Este, Raymond Perauld, Rodrigo Borgia, Giovanni de’ Medici), e non si fa certo impressionare. Ha probabilmente già incontrato a Roma Luigi d’Aragona, intendente d’arte e animato da una fervida curiosità e da un sincero desiderio di conoscenza (motivazione profonda del suo viaggio europeo), ed è per questo che lo ammette con tanta familiarità nel suo studio. Gli fa vedere subito tre quadri, non tutti quelli che aveva con sé, ma solo quelli che potevano apparire «perfectissimi», cioè ormai compiuti (rispetto a un precedente incontro a Roma?): il San Giovanni, la Sant’Anna, e «uno di certa donna fiorentina, facta di naturale, ad instantia del quondam magnifico Iuliano de Medici».
Il terzo quadro è un ritratto di donna «di naturale», che prelude a quello della «signora di Lombardia» che sarà ammirato a Blois il giorno dopo. È legittimo pensare alla Gioconda del Louvre, il ritratto di Lisa Gherardini (moglie del mercante fiorentino Francesco del Giocondo) iniziato nel 1503, rimasto però incompiuto e mai consegnato al committente, per molti anni un laboratorio aperto dell’attività del maestro, che nel tempo continua ad aggiungere elementi di paesaggio e altri dettagli (le modifiche alle stesse fattezze del viso, il movimento delle dita della mano, e infine le trasparenze di un velo, estraneo ai costumi fiorentini almeno fino al 1512).8
L’espressione usata da De Beatis ha tutta l’aria di riprodurre una frase detta dallo stesso Leonardo, con qualche omissione dovuta alla fretta della scrittura diaristica (o all’incertezza del ricordo, quando a distanza di qualche anno De Beatis mise in bella copia il suo diario nei manoscritti che si sono conservati).9 Il senso corretto dovrebbe comunque essere: «un ritratto [cominciato come ritratto] dal vivo di una certa donna fiorentina [e portato a compimento] a richiesta di Giuliano de’ Medici». La nuova committenza ci riporta ancora a Roma nel 1514, e all’ultimo patrono di Leonardo, Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e fratello minore del papa. Perché Giuliano si sarebbe dovuto appassionare cosí tanto al ritratto di una «certa donna fiorentina» iniziato dieci anni prima? Di certo, a distanza di piú di dieci anni, l’identità della donna fiorentina per cui il ritratto era cominciato non interessava piú a nessuno: né al cardinale né a Leonardo.
Il viso della Monna Lisa del Louvre è simile a quello che ci guarda da una versione del dipinto in cui la donna appare scandalosamente nuda (la cosiddetta Gioconda nuda, conosciuta solo da copie di allievi, e ispiratrice della Fornarina di Raffaello), incarnazione di un’istanza erotica rivelata dallo stesso Leonardo:
E già intervenne a me fare una pittura che rappresentasse una cosa divina, la quale, comprata dall’amante, volle levarne la rappresentazione di tale deità per poterla baciare senza sospetto, ma in fine la coscienza vinse i sospiri e la libidine, e fe’ forza ch’ei se la levasse di casa.10
Da un’altra fonte (il canzoniere del poeta parmense Enea Irpino) sappiamo che Leonardo intorno al 1514 ritrasse «in carte» (cioè in un disegno su carta) una donna che frequentava la cerchia di Costanza d’Avalos e Vittoria Colonna tra Roma, Napoli e Ischia: una giovane vedova della quale il poeta parmense Enea Irpino celebra sia la bellezza che il ritratto leonardesco. Il nome che affiora nel canzoniere dell’Irpino è Isabella: lo stesso della «signora Gualanda» ricordata dal De Beatis.11
La corte di Costanza d’Avalos era stata, nei primi difficili anni del Cinquecento e dopo la caduta degli Aragonesi di Napoli, luogo di rifugio per chi fino ad allora viveva presso la corte aragonese, come gli orfani Alfonso e Isabella Gualandi, insieme alla madre vedova Bianca Gallerani. Nel network di relazioni e corrispondenze intessuto dalle principesse e gentildonne italiane dell’epoca, non doveva sfuggire il fatto che la ragazza fosse legata a Cecilia Gallerani, la Dama dell’ermellino. Al centro di quella rete era Isabella d’Este, che ambiva a conquistare il primato nella ritrattistica contemporanea, tentando invano di convincere lo stesso Leonardo a completare il ritratto iniziato a Mantova nel 1500: nel 1494, dopo aver dato un giudizio negativo del ritratto di Mantegna, aveva inviato a Costanza d’Avalos quello eseguito da Giovanni Santi, mentre nel 1498 aveva ottenuto in prestito da Cecilia il ritratto di Leonardo;12 e tra ottobre 1514 e marzo 1515 risiedeva anche lei a Roma (con un passaggio a Napoli nel dicembre).
Se Isabella Gualandi (lodata per la sua bellezza anche da Paolo Giovio e Iacopo Campanile) era veramente la «cosa divina» dipinta da Leonardo a istanza di Giuliano, che legame avrebbe potuto avere con Roma nel 1514? Resta la circostanza singolare che, proprio su un foglio romano di Leonardo, torna il nome di Cecilia, in un testo d’altra mano ed elegante grafia umanistica che esalta la bellezza di Roma e della Campania, sopra il disegno di una bella donna di profilo: «M. da Cecilia / S / Amantissima mia Diva Lecta la tua Suavissa».13
Isabella era legata all’aristocrazia napoletana e alla duchessa Isabella d’Aragona (a sua volta in relazione privilegiata con Leonardo, fin dal suo arrivo a Milano nel 1490, quando l’artista aveva organizzato per lei la splendida Festa del Paradiso), e nel 1517 avrà l’onore di far parte del seguito di Bona Sforza. Nel 1514 anche l’attenzione della politica papale era rivolta verso il Mezzogiorno, con la prospettiva di un insediamento del magnifico Giuliano sul trono di Napoli. Vi furono trattative per un suo matrimonio con Bona (proposta da Ferdinando il Cattolico), o con la ventiduenne Giulia figlia di Federico d’Aragona e Isabella del Balzo (allora a Ferrara). La seconda ipotesi era stata caldeggiata al papa nel settembre 1514 dallo stesso cardinal d’Aragona, che in altre occasioni si rivelava intimo di Giuliano.14 Era forse in una di queste occasioni che Isabella Gualandi era venuta a Roma e aveva conosciuto Giuliano: al seguito di una delegazione napoletana incaricata delle trattative matrimoniali e composta da gentiluomini fedeli alla casa d’Aragona, come avrebbe potuto essere il fratello Alfonso Gualandi. Ma agli inizi del 1515 tutta la trama si dissolse. Giuliano partí per Torino, dove sposò il 10 febbraio Filiberta di Savoia, zia di Francesco I, diventando duca di Nemours. Ammalatosi pochi mesi dopo, avrebbe lasciato questa scena terrena il 17 marzo 1516.
Nell’ottobre 1517 il cardinale dunque vede (o rivede) i capolavori di Leonardo. Ma il cuore della visita è un altro: la presentazione che lo stesso autore fa dei suoi libri, i disegni e i quaderni di anatomia, e l’«infinità di volumi» sulla natura delle acque, sulle macchine e su altri argomenti, «et tucti in lingua vulgare, quali si vengono in luce, saranno profigui et molto dilectevoli». La prospettiva di pubblicazione, nei tardi anni francesi, inizia a sembrargli possibile, grazie alla collaborazione del Melzi. Per quanto i suoi manoscritti siano testimonianza di una testualità unica e irripetibile, Leonardo è pienamente consapevole della rivoluzione del sistema della comunicazione avvenuta con l’introduzione della stampa. Un tempo aveva criticato quella nuova tecnologia che, producendo piú copie di uno stesso libro (chiamate «infiniti figlioli»), sembrava comportare una perdita di “aura” del prodotto intellettuale, ma poi aveva valutato la possibilità dell’incisione su lastra metallica, e si preoccupava della diffusione degli studi di anatomia:
E acciò che tal benefizio ch’io do agli uomini non vada perduto, io insegno il modo di ristamparlo con ordine, e priego voi, o successori, che l’avarizia non vi costringa a fare le stampe in ‹…›.15
Nel caso dei disegni dei fogli di anatomia, la soluzione migliore sarebbe stata la lastra metallica, e qualcosa dovette essere effettivamente stato eseguito, forse già a Roma, se il Giovio attesta la loro riduzione in tabellis da stamparsi typis aeneis. Prova della loro esistenza, alcune copie fedeli di Albrecht Dürer nel Codice di Dresda, databili al 1517: immagini speculari, come se derivassero appunto da lastre metalliche pronte per la stampa.
Ai fogli anatomici è dunque riservata un’attenzione speciale anche in occasione della visita di Luigi d’Aragona. Il cardinale doveva esserne a conoscenza, perché si trattava di un’attività che non era passata inosservata a Roma negli anni precedenti. La pratica dell’anatomia era ancora vietata dalla Chiesa, al di fuori di speciali autorizzazioni concesse a indagini svolte all’interno di strutture ospedaliere o universitarie. Leonardo aveva tentato di proseguire le sue ricerche all’ospedale di Santo Spirito, presso il Vaticano, ma un infido collaboratore tedesco di nome Giovanni le aveva di fatto impedite, mettendo in giro maldicenze: «Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola, e cosí allo spedale».16 E saranno questi i «libricini» di anatomia di cui si sarebbe saputo a Ferrara, dopo il ritorno del cardinale, e che il Bendidio avrebbe cercato di ottenere qualche anno dopo, nel suo fortuito incontro col Melzi.
Leonardo appare ai visitatori invecchiato («vecchio de piú de LXX anni», mentre ne aveva 65), e sembra avere anche una paralisi alla mano destra. Ma, nonostante tutto, è ancora pieno di vitalità. Parla a ruota libera dei suoi dipinti, dei suoi codici e delle sue ricerche (come suggeriscono le espressioni «et già lui ne disse» e «secondo ha referito lui»), proiettato sempre nel futuro, verso nuovi progetti, verso nuove sfide, come poteva essere la pubblicazione della «infinità di volumi»: una bella rivincita per un «omo sanza lettere». Non pensa alla «picciola vigilia del rimanente», alla vita che volge al termine, e allontana da sé l’idea della fine, della conclusione.
Una sera d’inverno, piú di un anno dopo la visita del cardinale. Lo studio di Cloux è illuminato dai bagliori del fuoco nel camino e del lume sullo scrittoio: ma i cavalletti su cui poggiavano Monna Lisa, Sant’Anna e San Giovanni sono tristemente vuoti. Leonardo gira il suo sguardo fuori dalla finestra, laggiú, verso le luci del castello reale di Amboise: la Gioconda è lí, ora, e sorride a un’altra icona appena arrivata, un dono del papa portato al re da un altro cardinale, Bernardo Dovizi da Bibbiena, e presentato come ritratto di Isabella di Requesens e come opera di Raffaello (ma in realtà di Giulio Romano, e derivata da un perduto abbozzo vinciano).17 Nel loro muto dialogo, le due “cose divine” sorridono, sapendo di condividere il segreto di un’origine comune.
Anche Leonardo non può fare a meno di sorridere, mentre il suo respiro si condensa sul vetro freddo. Si è liberato di quell’ingombrante Lisa, e allo stesso tempo è riuscito ad avvolgerla di una tale nebbia di messaggi sovrapposti e ambigui che, a distanza di secoli, avrebbe continuato a confondere gli interpreti, a perderli senza speranza sulle tracce di un’identità perduta, come gli errabondi cavalieri dell’Ariosto. Il suo nome è già leggenda: è diventata la Joconda (come scriverà il notaio nell’inventario del morto Salai nel 1525, correggendo un precedente La Honda). Uno scherzo ben riuscito, non c’è dubbio.
Su un foglio tinto d’azzurro Leonardo torna al suo lavoro, ricopiando con cura uno studio geometrico. Alla fine della pagina interrompe la scrittura con un eccetera, e aggiunge subito il motivo di quell’interruzione: «perché la minestra si fredda».18 Dalla cucina (contigua allo studio) Mathurine sta chiamando a cena il maestro. Nella sera della vita, Leonardo si alza dallo scrittoio, ma lascia lí il foglio, aperto, come tante altre volte, in attesa che la mano riprenda la penna, e continui il cammino di quella scrittura infinita.