VI

«IN CASSA AL MUNISTERO»

Firenze, ottobre 1503. Leonardo ha avuto dalla Signoria l’incarico di dipingere la Battaglia di Anghiari nella grande Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio (l’attuale Salone dei Cinquecento). È un momento decisivo per la sua vita, registrato anche da un contemporaneo che ha avuto modo di conoscerlo direttamente, e di collaborare con lui alla Battaglia. Si tratta di Agostino Vespucci, segretario di Machiavelli (uno dei promotori della committenza a Leonardo), che gli aveva scritto la “sceneggiatura” di quello che doveva essere raccontato nel grande dipinto, il resoconto della battaglia tratto e tradotto da un poemetto latino di Leonardo di Piero Dati, il Trophaeum Anglaricum.1 Sul margine d’un suo libro (una vecchia edizione delle lettere familiari di Cicerone, stampata a Bologna nel 1477), leggendo di un’immagine di Venere del mitico pittore greco Apelle compiuta solo nella parte superiore ma considerata comunque un capolavoro sublime, pensa subito a Leonardo e alla sua abitudine di lasciare le opere incompiute, e scrive cosí, in latino:

Apelles pictor. Ita Leonardus Vincius facit in omnibus suis picturis, ut est caput Lisae del Giocondo, et Annae matris Virginis. Videbimus quid faciet de aula Magni Consilii, de qua re convenit iam cum Vexillifero 1503 Octobris.2

Leonardo ottiene anche una nuova sistemazione per il suo studio, un ambiente molto spazioso in cui sia possibile preparare i cartoni della pittura murale, e predisporre ogni cosa insieme ai numerosi allievi e garzoni: la Sala del Papa nel convento domenicano di Santa Maria Novella, con i locali attigui che diventano anche l’alloggio del maestro e della sua brigata. L’artista ne riceve le chiavi il 24 ottobre 1503, ed è presumibile che vi trasferisca parte delle sue cose, fino ad allora ammucchiate in modo provvisorio (anche a causa dei continui spostamenti dal 1500) nel convento servita della Santissima Annunziata (dove prima lavorava a una grande pala con la Sant’Anna, la Vergine e il Bambino).

Singolare documento del parziale trasloco di Leonardo sono gli inventari del contenuto di alcune casse, composti sui fogli iniziali del Codice di Madrid II, dopo alcuni rilievi cartografici del basso corso dell’Arno e del territorio circostante eseguiti nell’estate 1503. Il primo elenco «in cassa al munistero» ci presenta i capi piú preziosi del guardaroba di Leonardo, testimonianza del suo pieno inserimento nella vita delle corti contemporanee.3 A differenza di altri artisti eccentrici o solitari, Leonardo amava la compagnia e la conversazione di principi e cortigiani, e si vestiva come loro, con abiti alla moda e intessuti di stoffe pregiate. Nella cassa finiscono almeno due gabbanelle (corti cappotti da viaggio con maniche larghe e cappuccio, o con fodera di taffettà), un albernuzzo (l’ampio mantello con cappuccio derivato dagli arabi attraverso gli Spagnoli), una veste catalana di colore rosa chiamata catelano, una cappa viola scuro con cappuccio di velluto, e un’altra cappa di foggia francese già appartenuta a Cesare Borgia (e forse donata proprio da lui, quando Leonardo era al suo servizio, tra 1502 e 1503), vari giubboni di colori sgargianti (violaceo e cremisi), di raso o cammellotto (tessuto di lana simile al pelo di cammello), calze rosa, viola e nere, una berretta e una camicia di lino finissimo, oltre a un telo dipinto che doveva essere servito come copertura d’un arazzo. Ma la cassa riserva una sorpresa. Non è solo roba di Leonardo. Su venti capi, ben tre (due gabanelle e un giubbone) sono di Salai (anch’essi di foggia elegante, alla francese), e confermano il forte intreccio della vita del maestro e dell’allievo. Qualcosa era di recente manifattura: l’8 aprile Leonardo aveva dato a Salai ben tre ducati d’oro per fargli confezionare «un paio di calze rosate co’ sua fornimenti», e il 20 aprile 21 braccia di tela per camicie.4 Lo stesso Leonardo (ricorda l’Anonimo Gaddiano) amava l’abbigliamento elegante, e usava portare «uno pitocco rosato corto sino al ginocchio».

In cassa al munistero

Una gabanella di taffettà

Una fodera di velluto a uso di gabanelle

Uno albernuzzo

Una gabanella di rosa secha

Un catelano rosato

Una cappa scura pagunazo con mostre larghe e scaperuccia di velluto

Una gabanella di Salai allazata alla francese

Una cappa alla franzese fu del duca Valentino

Una gabanella di bigio fiandresco di Salai

Un giubon di raso pagonazo

Un giubone di raso chermisi alla franzese

Un altro giubon di Salai con manici di velluto

Un giubon di ganbellotto bagonazo

Un pa’ di calze pagonaze scure

Un pa’ di calze in rosa secha

Un pa’ di calze nere

Due berrette rosate

Un capello di grana

Una camicia di rensa lavorata alla francese

e uno ussciale d’arazo

Giriamo il foglio, sempre procedendo a ritroso (come faceva Leonardo), e ci troviamo di fronte a un disegno di una roccaforte nei pressi di Pisa (la Verruca, di grande valore strategico nella guerra di Pisa, qui chiamata «Verrucola»),5 e a uno strano elenco di «libri», che ci dà non i titoli ma il loro quantitativo, ripartito per dimensioni:

25 libri picholi

2 libri magg‹i›ori

16 libri piú grandi

6 libri in cartapechora

1 libro con coverta di camoscio verde

48.6

Leonardo ne fa anche la somma, e scrive 48 (sbagliando, perché la somma esatta è 50). Anche in questo caso, la ripartizione per dimensioni fa pensare a un problema di stivaggio. È normale suddividere in questo modo i libri quando abbiamo poco spazio, nel sistemarli in una valigia o una cassa. Quel che è probabile, invece, è che si tratti dei «libri» piú preziosi per Leonardo, cioè proprio dei suoi «libri», i suoi quaderni autografi, il cui censimento, alla fine del 1503, arriverebbe al numero considerevole di cinquanta.

Ora, se consideriamo i codici vinciani oggi conosciuti, non arriviamo a piú di venti unità databili a prima del 1503. Questi venti manoscritti, a loro volta, possono essere ripartiti in dieci «libri piccoli» (i taccuini tascabili in 16°: codici Forster III, Forster II-1, Forster II-2, H1, H2, H3, I1, I2, M e L), un «libro maggiore» (in ottavo: il Codice Forster I-1), 7 «libri piú grandi» (i quaderni in quarto: codici B, Trivulziano, A, Madrid II-2, Madrid I-1; Madrid I-2; e uno in folio, il Codice C), piú qualche ampio contenitore floscio in pergamena o pelle per gran parte dei fogli sparsi (oggi raccolti nel Codice Atlantico, nel Codice Arundel e nei fogli di Windsor). L’appunto del Codice di Madrid II ci dà dunque la malinconica certezza che piú della metà degli autografi di Leonardo è andata perduta (con percentuali di perdita piú alte per i taccuini tascabili, di cui sopravvivono appena 10 dei 25 censiti nel 1503).

Voltiamo un altro foglio. Su due pagine affrontate compare la piú ampia lista di libri che l’artista abbia redatto nel corso della sua vita. Il primo elenco di 98 libri, scritto a penna in due colonne, inizia sulla c. 2v, preceduto dall’intestazione «richordo de’ libri ch’io lascio serrati nel cassone», e si conclude sulla colonna centrale della c. 3r. Leonardo aggiunge in seguito (a sanguigna) varie note d’orientamento topografico nei luoghi in cui si trova a girare in quel periodo, per i sopralluoghi militari affidati dalla Signoria. Una lista di nomi di luoghi tra Empoli, Fucecchio e Montecatini che si intreccia curiosamente con la lista di autori e di titoli, e con i luoghi dell’infanzia e adolescenza di Leonardo, Vinci e Cerreto. Dopo queste note, un secondo elenco di libri, con la stessa intestazione della cassa dei vestiti, «in cassa al munistero»: diciotto titoli caratterizzati dalla convergenza su interessi tecnici e artistici. In totale, sommando le tre liste, ben 166 libri, di cui almeno 50 sarebbero i codici autografi di Leonardo (cui si dovrebbero forse aggiungere, messi da parte nel secondo elenco di libri «in cassa al munistero», «un libro d’ingegni colla morte di fori», «un libro di cavalli schizzati pel cartone», un «libro di mia vocaboli», un «dell’armadura del cavallo», e un «libro di notomia»).

Anche in questo elenco sono ricordate persone in relazione diretta con Leonardo, Guglielmo de’ Pazzi e maestro Giovanni del Sodo, a cui sarebbero stati prestati il De re militari di Antonio Cornazzano e un libro d’abaco. Interessante la relazione con Guglielmo, cognato di Lorenzo il Magnifico, membro superstite della famiglia rivale dei Medici travolta dalla repressione della congiura del 1478 e quindi in esilio fino al 1494, quando tentò un modesto rientro nella vita politica della Firenze repubblicana.

Molti sono i testi già presenti nell’elenco del Codice Atlantico, e molti quelli che (assenti nella lista del 1495) erano comunque documentabili come fonti nei codici vinciani: bisogna sempre avvertire, però, che l’elenco potrebbe non essere esaustivo (è solo l’inventario del contenuto di due casse lasciate in convento), e che allo stesso tempo non tutti i libri registrati (magari capitati casualmente tra i suoi libri, come doni occasionali di amici) corrispondono a un medesimo grado di interesse o di lettura da parte di Leonardo. Interessante invece la comparsa di indicazioni che in precedenza Leonardo non sentiva il bisogno di registrare: la lingua, il genere letterario, il materiale scrittorio, le dimensioni, la legatura, le illustrazioni, le condizioni di conservazione, e infine l’origine.

Il «latino» è ricordato esplicitamente per il Fasciculus medicinae, mentre il «vulgare» è utile per specificare che si tratta di volgarizzamenti (l’Alcabizio e i primi tre libri degli Elementa di Euclide); il «Donato vulgare e latino» indica precisamente un’edizione bilingue dell’Ars minor (pubblicata a Venezia nel 1499), mentre il francese è attestato per le favole di Esopo «in lingua franciosa» (di cui si registra anche una versione «in versi»).

In una pesante legatura «in asse», cioè con copertine rigide di legno, si presentano un libro di grammatica latina («regole gramatice»), un testo devozionale («de tentatione») e un grande libro d’abaco, mentre all’esterno di un codice di macchine e di invenzioni (di Leonardo o forse di un altro ingegnere del Quattrocento) campeggia l’inquietante immagine della morte («un libro d’ingegni colla morte di fori»).

Per le dimensioni, Leonardo annota «grande» per l’erbolaio e il libro d’abaco rilegato in tavole di legno, «mezzano» per un altro abaco, «piccolo» per un vocabolista, e «libretto vecchio d’arismetrica» («vecchio» è anche un libro «d’Amelia»). Forse sono tutti libri cartacei, perché solo una volta leggiamo «vocabolista in cartapecora», cioè la piú costosa pergamena. Per distinguere un altro abaco, Leonardo aggiunge «dipinto», cioè illustrato con miniature colorate.

Infine, l’origine milanese è indicata per il grande abaco e un «de chiromantia», mentre un «libro da Urbino matematico» sembra essere una piú recente acquisizione al tempo del servizio presso il Valentino (e del saccheggio della biblioteca di Urbino).

Nonostante l’incompletezza e la disomogeneità delle liste, è possibile comunque tentare un parziale bilancio, anche nel confronto con l’elenco del Codice Atlantico. Si conferma innanzitutto l’importanza dello scaffale letterario, con l’aggiunta di parecchi testi a quelli già registrati nel 1495. Un’attenzione non episodica è riservata alle favole di Esopo, in diverse edizioni che comprendono volgarizzamenti italiani e francesi e una riduzione in versi. Tra le forme metriche, prevalgono le ottave narrative del poema di Luca Pulci Ciriffo Calvaneo e della traduzione della Pharsalia di Lucano a opera di Luca Manzoli da Montichiello; in ottave è anche il fortunato Geta e Birria, riduzione dell’Anfitrione di Plauto attribuita a Filippo (ma in realtà Ghigo di Ottaviano) Brunelleschi e Domenico da Prato: un testo rappresentativo della tradizione popolare fiorentina a cui Leonardo sente di appartenere. In terzine era il De re militari di Antonio Cornazzano. Per la poesia lirica, a Petrarca (letto probabilmente in un’edizione di Canzoniere e Trionfi, e affiorante qua e là nei manoscritti) 7 si accosta ora l’edizione dei Rithimi dell’aristocratico milanese amico di Bramante, Gasparo Visconti.

La narrativa in prosa, tra storia e racconto fantastico e mitologico, è rappresentata dall’Aquila volante attribuita a Leonardo Bruni (compendio di storia romana anch’esso derivato da Lucano), l’Atila flagellum Dei (sulla selvaggia figura dei re degli Unni), il Guerin Meschino, e (manoscritti) i volgarizzamenti del Romulion di Benvenuto da Imola e delle Metamorfosi di Ovidio. Sullo scaffale dei novellieri vediamo ora il Novellino di Masuccio Salernitano, che però doveva essere tra i libri di Leonardo già da molti anni. Compare la Vita civile di Matteo Palmieri, importante trattato sulla formazione del cittadino e sulla vita associata a Firenze, che poteva provenire dalla biblioteca del Pandolfini. Presenza sorprendente è infine quella di un best seller europeo non ancora tradotto in italiano, la Nave dei folli di Sebastian Brandt, sferzante satira del mondo contemporaneo che avrebbe un giorno ispirato l’Elogio della follia di Erasmo. Oltre all’originale latino (Stultifera navis), ne erano disponibili edizioni in tedesco e in francese: tutte con un ricco apparato illustrativo, al quale aveva collaborato anche il giovane Albrecht Dürer (e al Dürer mi piacerebbe pensare come donatore del libro a Leonardo, in un loro incontro a Milano o a Venezia, dal quale l’artista tedesco ricavò idee preziose sulle proporzioni della figura umana e modelli decorativi e anatomici).

Piú ricco è anche lo scaffale delle grammatiche latine, dei manuali di stile e di retorica, dei vocabolari: strumenti che continuano ad avere una loro utilità di consultazione, per chi è consapevole di non essere ancora diventato un «omo di lettere». In aggiunta ai titoli presenti nel 1495 troviamo i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti (già posseduti però all’inizio degli anni Novanta), un libro di Regulae latinae di Francesco da Urbino (ne possedeva una copia la biblioteca di San Marco), la grammatica di Prisciano, le Regulae grammaticales di Guarino da Verona, il «Donadello» e il «Donato gramatico», le Varietates sententiarum seu synonima di Stefano Flisco da Soncino, gli Exempla exordiorum di Gasparino Barzizza, il Catholicon del Balbi, il Vocabulista ecclesiastico volgare latino di Giovanni da Savona, le Elegantiolae di Agostino Dati. Al già nutrito scaffale di epistolografia (Landino e i due Filelfo) si aggiunge il volgarizzamento delle Epistole de Phalari, cioè una raccolta di lettere falsamente attribuite ab antiquo al tiranno agrigentino Falaride, tornate di moda nell’umanesimo e tradotte sia da Giovanni Andrea Ferabos che da Bartolomeo Fonzio.8 Ma non sembra che con l’aiuto di tanti prodotti della scuola umanistica Leonardo abbia avanzato oltre il livello di base nella capacità di comprendere un testo latino, o di tradurlo in volgare.

Nuovi libri d’ambito religioso testimoniano i continui contatti con il mondo ecclesiastico, soprattutto a Firenze e Milano: il De civitate Dei e i Sermoni di sant’Agostino tradotti in volgare, un libro di prediche, san Bernardino da Siena, una Passione di Cristo (forse di Bernardo Pulci), un De tentatione, una Leggenda di santa Margherita, un Del tempio di Salamone, la Vita et li miracoli del beatissimo Ambrogio di Paolino Milanese. Il «libro dell’Amandio» è stato giustamente ricollegato alla Vita e conversazione angelica del beato Amadio Ispano, cioè il mistico portoghese d’origini ebraiche Amadeo Mendes da Silva, residente nel convento milanese di San Francesco per il quale Leonardo aveva dipinto la Vergine delle Rocce, e autore di testi come il Liber revelationum e l’Apocalypsis Nova che avrebbe potuto influenzare la creazione del capolavoro vinciano.9

La grande novità, però, rispetto all’elenco del Codice Atlantico, è il maggior peso della cultura scientifica e filosofica (ormai quasi la metà dei libri censiti, tra i quali aumenta anche il numero di quelli disponibili solo in latino). Autori e titoli rispecchiano il prodigioso allargamento degli interessi e delle ricerche di Leonardo alla fine del Quattrocento. Grazie all’incontro e alla collaborazione con Luca Pacioli (ricordato nella lista con la Summa, già acquistata nel 1494 per 119 soldi) gli è ora possibile accedere a una traduzione dei primi tre libri degli Elementa geometriae di Euclide, mentre si affollano i libri d’abaco. Matematica e geometria dovrebbero fornire gli strumenti per una fondazione teorica del progettato Libro di pittura, e sullo sfondo resta la caccia al grande libro di Archimede, evocato in sfide intellettuali come quella della «quadratura del circulo» (possibile rinvio all’edizione del Tetragonismus id est circuli quadratura di Luca Gaurico del 1503, che pubblicava per la prima volta il De mensura circuli di Archimede, tratta da un manoscritto di Pietro Barozzi vescovo di Padova).

Nel campo della letteratura scientifica e medica Leonardo ha acquistato i testi che hanno avuto maggior diffusione nelle università e nel pubblico colto. Precisa dunque di possedere l’edizione latina del Fasciculus medicinae attribuito a un Johannes Ketham e pubblicato a Venezia nel 1491. Altri testi medici sono il Tractatus de urinarum iudiciis di Bartolomeo Montagnana, il De natura humana di Antonio Zeno, gli Anatomice sive historia corporis humani libri v di Alessandro Benedetto, cui s’aggiunge anche un «libro di medicina di cavalli» (un manoscritto del volgarizzamento di Vegezio Renato, o di Giordano Ruffo?). Allo studio della figura umana è dedicato il Liber phisionomiae di Michele Scoto, ed è presente anche l’onirocritica, ampiamente diffusa nella cultura popolare tardomedievale, con l’essenziale manuale di interpretazione dei sogni intitolato Sogni di Daniello.

Sempre forte la presenza di Aristotele (i Problemata, le Propositiones e i Meteorologica, quest’ultima opera in un volgarizzamento fiorentino trecentesco ancora manoscritto e intitolato Metaura) e della tradizione aristotelica medievale, da Alberto Magno e Alberto di Sassonia fino a Walter Burley. Il misterioso «libro di Giorgio Valla» potrebbe riferirsi sí all’opus maius dell’umanista, la ponderosa enciclopedia De expetendis et fugiendis rebus stampata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1501 (utilizzata da Leonardo anche per un tentativo di volgarizzamento).10 Resta però aperta la possibilità che si tratti di una delle sue traduzioni e edizioni, tappe importanti della divulgazione umanistica della tradizione aristotelica: il De philosophia naturalis (1496), citato come «filosofia d’Aristotile»;11 l’edizione di opuscoli greci di logica, geometria, astronomia, musica, medicina, tra i quali compare per la prima volta la Poetica di Aristotele, insieme al De mundo di Cleomede (1498);12 e l’edizione dei Problemata (1501), traduzione latina compiuta già diversi anni prima e dedicata a Giovanni Marliani (altra vecchia conoscenza di Leonardo).

Per la conoscenza del mondo e del cosmo, Leonardo registra il possesso dei trattati arabi di astrologia, Alcabizio (tradotto in volgare da Francesco Sirigatto)13 e Albumasar, un opuscolo astrologico di Firman de Beauval (il De mutatione aeris), un «quadrante» e la Cosmografia di Tolomeo, mentre lo studio parallelo delle acque e dei fluidi del corpo umano si avvale di una traduzione dei Pneumatica di Filone di Bisanzio. Infine, tra i testi tecnico-artistici, il nome «Francesco da Siena» si riferisce senz’altro a Francesco di Giorgio, il cui trattato fa compagnia a quelli di Leon Battista Alberti, il De re aedificatoria, i Ludi mathematici e il perduto De navi.