IX

«ALLEGA PLINIO»

A Milano, quando era impegnato nel progetto del grandioso monumento equestre di Francesco Sforza, Leonardo pensò di concorrere all’attribuzione di un altro importante incarico, l’esecuzione delle porte bronzee del Duomo di Piacenza. Iniziò la minuta di una relazione o di una lettera, lasciata però incompiuta, e forse mai spedita. Il nucleo dell’argomentazione è molto semplice: si esortano i deputati della Fabbrica del Duomo a valutare con attenzione le candidature pervenute da parte di una banda di incompetenti («chi è maestro da boccali, chi di corazze, chi campanaro, alcuno sonaglieri, e insino a bombardiere»), perché quelle porte (come ogni grande monumento) potrebbero essere per la città motivo di gloria, oppure (se mal eseguite) di infamia. Piacenza, dice Leonardo, è come Firenze «terra di passo dove concorre assai forestieri», all’incrocio di importanti vie di comunicazione; e Firenze («dotata di sí belle e magne opere di bronzo, infra le quali le porte del loro battisterio», realizzate da Andrea Pisano e Lorenzo Ghiberti) ha saputo ben dimostrare la propria eccellenza con l’autopromozione culturale e artistica. Guarda caso, a Milano c’è giusto un maestro chiamato da Firenze,

Lonar‹do› Fiorentino, che fa il cavallo del duca Francesco di bronzo, che non ne bisogna fare stima, perché ha che fare il tempo di sua vita, e dubito che, per l’essere sí grande opera, che non la finirà mai.1

Leonardo gira il foglio, e riprende l’ultimo argomento:

Ecci uno il quale il Signore per fare questa sua opera ha tratto di Firenze, che è degno maestro, ma ha tanta, tanta faccenda: non la finirà mai.

Che credete voi che differenzia sia a vedere una cosa bella da una brutta? Allega Plinio.

A sorpresa, per nobilitare il suo discorso, Leonardo chiama in campo Plinio il Vecchio. Il passo che avrebbe voluto citare è nel libro conclusivo della Storia naturale (XXXV 5), nella parte dedicata alla statuaria in marmo: una pagina sull’Afrodite di Cnido, capolavoro di Prassitele, la prima scandalosa rappresentazione della dea nuda. Leggiamone il testo nella traduzione del Landino:

Ma innanzi a tutte non solamente quelle di Praxitele ma etiam di quelle di tutto el mondo è Venere, la quale accioché potessino vedere molti sono navigati in Gnido. Lui n’havea facte due, una coperta di vestimento la quale elessono gl’huomini di Coo a’ quali erono state date le prese stimando quello esser cosa severa e pudica. Quegli di Gnido comperorono l’altra con gran differentia di Fama. Di poi Nicomede Re la volle comperare da lloro tutta quella pecunia la quale loro havono debito che era grande et prometteva di pagarla. Ma loro vollono piú tosto sopportare ogni cosa et meritamente perché con quella statua Praxitele havea nobilitato Gnido loro patria. El tempicciuolo dove è questa statua si può aprire tutto accioché si possa vedere da ogni parte la statua a che lei come credono presta favore. Né è minore l’admiratione da qualunche parte. Dicono che uno s’inamorò di questa statua che vi rimase nascoso una nocte et che l’abbracciò, il che dimostra la macchia rimasavi.

La Venere di Cnido è un ottimo esempio di un’opera artistica che, con la sua bellezza, è in grado di nobilitare la città e la comunità in cui si trova. Il suo potere di fascinazione erotica attira enormi folle di ammiratori, fino all’esito imprevisto e imbarazzante dell’incontenibile atto di libidine. E qui, improvvisamente, Leonardo lascia perdere la relazione ai Fabbriceri di Piacenza. Forse aveva capito che quell’accostamento tra la mitica statua di Prassitele e le porte bronzee di una cattedrale (tradizionalmente scandite da “storie” bibliche e edificanti) sarebbe potuto sembrare un po’ dissacrante. Ma l’immagine di Venere sarebbe tornata un giorno per la visione di un altro mito, quello di Leda.

Per noi, l’«Allega Plinio» ha un altro valore. Leonardo ha cercato di comportarsi come un «omo di lettere», come un umanista che rafforza i suoi argomenti “allegando” la citazione di un autore antico. E l’autore che chiama in soccorso è un vecchio amico. Il suo nome compare la prima volta in un breve elenco di libri nel Codice Trivulziano (ca. 1487), e torna nelle due liste del Codice Atlantico (ca. 1495) e del Codice di Madrid II (ca. 1503): ma è probabile che Leonardo conoscesse l’opera già prima, dagli anni fiorentini.

La Storia naturale non è solo la piú ampia enciclopedia divulgativa di scienze naturali del mondo antico (dalla cosmologia alla zoologia e alla botanica), ma è anche un’inesauribile miniera di notizie fantastiche e meravigliose sospese tra scienza e magia, e di considerazioni morali sull’uomo e sul suo rapporto con la natura. Di piú, i libri conclusivi dell’opera (XXXIII-XXXVII) trascorrono dallo studio di minerali e metalli alla storia delle arti che nel corso della civiltà umana si sono sviluppate per mezzo dell’uso di quei materiali: l’oreficeria, la scultura fusoria, la pittura, la plastica, la scultura in marmo e in pietra, la gioielleria. Nel libro XXXV, in particolare, Leonardo leggeva le storie e le leggende della pittura antica, e la vita del pittore piú grande di tutti i tempi, Apelle, che per lui era diventato un modello ideale da raggiungere e superare.

Plinio era anche un autore di punta dell’umanesimo contemporaneo, oggetto di cure filologiche e interpretative da parte di studiosi come Poliziano ed Ermolao Barbaro, che cercavano di correggerne il testo. Leonardo non era a quel livello, anzi, non avrebbe nemmeno potuto leggere Plinio se non avesse avuto a disposizione la prima traduzione in volgare, pubblicata a Venezia da Nicolò Jenson nel 1476 e poi piú volte ristampata; opera di Cristoforo Landino, che la dedicò al re di Napoli Ferdinando d’Aragona, con un proemio in cui rendeva evidente l’ampliamento del pubblico agli «ignari delle latine lettere», affinché «Plinio di latino diventi thoscano et di romano fiorentino», tradotto nella «lingua comune a tutta Italia et a molte externe nationi». Una precisazione che per Leonardo, toscano a Milano, era altrettanto importante, per rivendicare la piena padronanza di quella “lingua comune” che era anche la sua lingua materna.2

Landino, anello di congiunzione tra cultura umanistica e volgare, legato ad altri personaggi che furono in contatto con il giovane Leonardo a Firenze (Lorenzo il Magnifico, Bernardo Bembo, Bernardo degli Alberti), resterà per lui un costante punto di riferimento, come dimostrano le altre sue opere presenti nella biblioteca vinciana: il commento della Commedia di Dante, il Formulario di pístole, e la traduzione della Sforziade di Giovanni Simonetta. L’ultima opera, pubblicata a Milano nel 1490, ripresentava in volgare un’epistola prefatoria dell’umanista Francesco Puteolano che affermava la superiorità delle lettere sulle arti per eternare le gesta dei grandi uomini, che probabilmente fu spunto polemico per alcuni dei proemi e dei testi del Paragone.3

Il proemio a Plinio, esaltazione del sapiente spinto da un’inesauribile sete di conoscenza a trascorrere con la mente l’intero universo, sembra inoltre proporre un programma intellettuale e di vita che avrebbe potuto entusiasmare il giovane Leonardo, tra l’altro proprio con l’immagine del volo:

Né rimane paziente l’animo, di natura cupido delle cose infinite, di rinchiudersi in sí brevi termini, ma per restringere l’ardentissima sete del sapere passeggia tutto l’oceano […] dal quale da poi con le platoniche ale levandosi a volo passa prima per questo a noi contermine et piú grosso aere.

Alla fine il sapiente arriverà, con un viaggio ascensionale simile a quello di Dante nel Paradiso, «nel supremo cielo dove come in propria patria ridocto per l’assidua contemplatione mai gli occhi torcie da quello che è et di sé et di tutto l’universo creatore».4

Negli anni successivi, a Milano, Leonardo incrocerà un altro genere letterario, da lui amatissimo: le favole. Tra i suoi autori compare Esopo, presente nelle liste di libri anche in diverse edizioni, in diverse lingue e in diversi formati, fornite di ricchi apparati illustrativi: all’inizio almeno una delle traduzioni in volgare disponibili a stampa (quelle di Fazio Caffarelli, Cosenza 1478, o di Francesco Del Tuppo, Napoli 1485), e poi una versione poetica in latino e in volgare (di Accio Zucco, Verona 1479), e una in francese (Lione 1484).

Leonardo non è un lettore passivo, che si addormenta a letto col libro in mano. Mentre legge, comincia a fantasticare, e a comporre dentro di sé le favole che poi, a distanza di tempo, mentre è chino sui suoi taccuini allo scrittoio o intento all’osservazione di un fenomeno naturale, gli scivolano di nuovo sulla punta della lingua e della penna. Le prime favole compaiono nel Codice Forster III tra 1487 e 1490, e, in forma meno episodica, in alcuni fogli del Codice Atlantico tra 1490 e 1493: negli anni decisivi, cioè, in cui Leonardo decide di diventare uno scrittore.5

Nella scelta di attori e tematiche, Leonardo innova e quasi rovescia la tradizione favolistica, dando la preferenza a piante, elementi naturali e oggetti della vita quotidiana (mentre in Esopo, al primo posto, venivano animali ed esseri umani), e accentuando caratteri morali (superbia, esuberanza, pigrizia, vanagloria) e “passioni” (pianto, pentimento, preghiera, riso, rabbia). Le favole nascono a stretto contatto con l’attività intellettuale e artistica di studio e imitazione della natura, e si basano quindi su precise conoscenze scientifiche, dallo studio del ciclo dell’acqua a quello del movimento e della natura della fiamma, della caduta dei gravi e del volo degli uccelli; le favole sulle piante, anche nella loro brevità, presuppongono attente osservazioni botaniche (ad esempio, su specie come il ligustro e la vitalba).6

A Esopo, quindi, andrà di volta in volta accostata la suggestione di altri libri aperti sulla scrivania: di nuovo Plinio, ma anche la Metaura di Aristotele (volgarizzata con il commento di san Tommaso e di Alberto Magno), e il trattato di agricoltura di Pietro Crescenzi. Gli oggetti dello studio (la carta, la penna, l’inchiostro, il lume e la candela), le umili cose quotidiane che prendono magicamente vita (il laveggio e lo specchio, il coltello e il rasoio e l’acciaiuolo) fanno invece pensare all’immaginario della poesia del Burchiello. Tra le possibili fonti compare Leon Battista Alberti, con gli Apologi e le Intercenali (almeno per la favola della pietra che, per non restare sola, rotola sulla strada, accanto agli altri ciottoli, per finire calpestata, ripresa da Lapides), aprendo ulteriori interrogativi su come Leonardo potesse accedere all’opera latina dell’Alberti confinata in una ristretta circolazione sotterranea. Infine, le favole sono anche un importante banco di prova per l’evoluzione dello stile di Leonardo scrittore, con la sua predilezione per le strutture brevi, scorciate, essenziali ed esatte anche nel minimo dettaglio, che possono ampliarsi e drammatizzarsi nei dialoghi tra i personaggi: un consiglio che poteva venirgli anche da qualcuno dei manuali di stile e retorica che acquistava in questi anni (in particolare, i Praeexercitamina di Prisciano).

La vicenda narrata è quasi sempre la stessa: la sopraffazione e la violenza di una creatura su un’altra, o la superbia di chi vuole porsi al di sopra o al di fuori dell’ordine naturale delle cose; con inevitabile rovesciamento e punizione degli uni e degli altri. È la stessa visione che domina in un testo di poco successivo, un bestiario, compilato in modo unitario nel 1494 nel Codice H, e probabilmente finalizzato alla composizione di imprese e allegorie figurative per la corte sforzesca al tempo della decorazione pittorica del Castello Sforzesco e del castello e della piazza di Vigevano.7

Il bestiario era un genere di ampia fortuna nella cultura tardomedievale, derivato dall’antico Physiologus, e disponibile anche in un volgarizzamento toscano. Leonardo preferisce però crearsi un suo bestiario personale, consultando, collazionando e contaminando tre fonti diverse: Plinio, il Fiore di virtú, e l’Acerba di Cecco d’Ascoli, il grande avversario di Dante, medico e astrologo commentatore di Sacrobosco e Alcabizio, in fama di mago e negromante (si diceva che aveva fatto un patto col diavolo sui Monti Sibillini), bruciato vivo a Firenze nel 1327. E non si dimentichi che tra i libri di Leonardo compaiono altri testi sulle meraviglie della natura: un lapidario, un erbolario, il Tractato delle piú maravigliose cosse e piú notabili che si trovano in le parte del mondo di Jean de Mandaville, il volgarizzamento del Liber agregationis seu secretorum de virtutibus herbarum et animalium quorundam attribuito ad Alberto Magno, e lo stesso Morgante del Pulci. Tutte opere in cui Leonardo ritrova un costante senso di meraviglia per l’opera immensa della natura «aiutatrice de’ sua vivi»,8 e per il “libro della natura” che è infinitamente piú vasto di quelli degli uomini: «Come è piú difficile a ’ntendere l’opere di natura che un libro d’un poeta»; «La natura è piena d’infinite ragioni che non furon mai in isperienzia».9

La prima parte del bestiario del Codice H deriva dal Fiore di virtú, opuscolo morale trecentesco che in gran parte si serve di esemplificazioni tratte dal mondo degli animali.10 Tra i molti incunaboli esistenti, è possibile identificare l’edizione utilizzata (quella stampata a Firenze da Bartolomeo Libri nel 1491), grazie al fatto che un’immagine di quel libro (un calandrino che, portato a un infermo in una strana gabbietta sferica, lo fa subito guarire) viene ripresa da Leonardo come emblema della speranza, con la scritta «I pensieri si voltano alla speranza».11 Nel Codice H la trascrizione di testi dal Fiore riguarda all’inizio solo una serie di massime e spunti per allegorie,12 e poi si allarga alle sezioni dei capitoli che presentano gli exempla degli animali.

Anche l’Acerba è un libro che racconta la natura, onnipresente come colei «che contempla ogni secreto», mirabile produttrice di infinite forme, animali, mostri, monti e vulcani, fenomeni atmosferici e geologici. Sentenze e versi dell’Acerba, forse imparati a memoria, zampillano qua e là nei manoscritti di Leonardo: «Chi perde il tempo e virtú non acquista, / quanto piú pense l’animo piú s’attrista […] Non vale fortuna a chi non s’affatica, / perfetto don non s’ha senza gran pena, / colui si fa felice che vertú investiga» (L’Acerba, II 7 31-32, 1 43-45);13 «o quanti amici o quanti / parenti si» (II 9 25-26: «O quanti amici, o quanti parenti / si vede l’omo nel felice stato»);14 «se di diletto la tua mente pasce» (III 15 53).15 L’ultimo verso è proprio un appunto di bestiario, un frammento del finale del capitolo sul castoro che si strappa i genitali per sfuggire ai cacciatori: «Et se ’l dilecto la toa mente pasce / pensa che de dolceza pena nasce». Nel Codice H Leonardo riprende gran parte dei capitoli del terzo libro, dedicato agli animali e alle pietre preziose, con un originale metodo di riscrittura che procede simultaneamente con la condensazione delle immagini e la riduzione in una prosa scorciata simile a quella delle favole brevi.16

Mentre sta trascrivendo dall’Acerba un lungo testo sul «grande ellefante», riapre finalmente Plinio, e continua con gli animali esotici o fantastici dell’VIII libro della Storia naturale: dragoni, serpenti, leoni, pantere, leopardi, tigri, cammelli, coccodrilli, basilischi, anfesibene, ippopotami, camaleonti. Animali che non vedrà mai, ma sui quali continuerà a sognare.17

Nel Codice Forster III compariva anche uno strano appunto di favole:

favole

Il dipintore disputa e gareggia con la natura

Il coltello, accidentale armadura, caccia dall’omo le sua unghie, armadura naturale.

Lo specchio si groria forte tenendo dentro a sé specchiata la regina e, partita quella, lo specchio riman vile.18

Di cosa avrebbe potuto disputare il pittore con la natura, cercando di superarla? Certo di tematiche affini al Paragone, dove si dice che il pittore supera le opere di natura sottraendole alla corruzione del tempo.19 Ma anche in un altro campo: la critica dell’interpretazione ottimistica della natura come madre benevola di tutti i viventi (sia degli uomini che delle altre creature dell’universo), come si legge in un altro testo del Codice Forster III: «La natura pare qui in molti o di molti animali stata piú presto crudele matrigna che madre, e d’alcuni non matrigna ma piatosa madre».20

Il tema sarebbe stato ripreso alcuni anni dopo in una delle “profezie” in cui Leonardo rappresenta la follia e la crudeltà degli uomini:

Delli asini bastonati.

O natura instaccurata, perché ti se’ fatta parziale, facendoti ai tua figli d’alcuni pietosa e benigna madre, ad altri crudelissima e dispietata matrigna? Io veggo i tua figlioli esser dati in altrui servitú sanza mai benifizio alcuno, e in loco di remunerazione de’ fatti benifizi, esser pagati di grandissimi martiri, e spender sempre la lor vita in benifizio del suo malefattore».21

L’opposizione madre-matrigna (luogo comune della letteratura volgare: Petrarca, Niccolò da Correggio, Serafino Aquilano, il commento di Landino alla Commedia) si leggeva in un passaggio strategico della Storia naturale, la prefazione al VII libro dedicato all’uomo:

Cominceremo da l’uomo per cagione del quale pare che la natura abbi prodotto tutte l’altre cose, ma non sanza gran prezzo ci ha dato tante cose, et con crudeltà ha voluto ci sieno coste troppo care, in forma che difficilmente si può giudicare se migliore madre inverso di noi è stata, o piú crudel matrigna.

E ancora Plinio (l’apertura del XXXIII libro) avrebbe ispirato la profezia sulla follia degli uomini che sfidano la natura per cercare avidamente metalli come l’oro o il ferro, che poi si ritorceranno a loro danno.22

Negli anni, Plinio continuerà a essere un autore importante per Leonardo, che ricorre alle sue pagine per i piú svariati appunti di geografia, di scienza naturale, di etnografia.23 E non piú solo in volgare. Leonardo si è accorto che qualche volta la traduzione del Landino omette porzioni del testo originale, e allora si serve anche dell’edizione latina per controllare dei brani che per lui hanno un’importanza particolare, per ragioni tecniche o artistiche.

Un esempio per tutti. A Milano Leonardo era stato coinvolto nell’organizzazione di feste e spettacoli per la corte sforzesca, come le due rappresentazioni della Festa del Paradiso di Bernardo Bellincioni (1490) e della Danae di Baldassarre Taccone (1496). Il suo allievo ed eccellente musico Atalante Migliorotti si era portato alla corte dei Gonzaga a Mantova per un tentativo (non realizzato) di allestimento dell’Orfeo di Poliziano a Marmirolo. Ora, proprio l’Orfeo presentava un problema non facile di presentazione scenica, con un passaggio dai quadri ambientati in un paesaggio aperto, naturale e bucolico, a quelli chiusi dell’oltretomba in cui scende Orfeo nel tentativo di strappare Euridice alla morte. Leonardo riprenderà il progetto a Milano verso il 1507 per il governatore francese Charles d’Amboise, con l’ingegnosa soluzione di una montagna che si apre facendo ruotare le due metà su se stesse e scoprendo al suo interno una scena infernale, chiamata il Paradiso di Plutone.24

L’idea dell’Inferno (e dell’oltretomba) come grande macchina architettonica derivava ovviamente dalla tradizione fiorentina di studi danteschi, e in particolare da Antonio di Tuccio Manetti, che aveva composto un dialogo sul Sito, forma, et misure dello Inferno, stampato nel 1506 a Firenze dal savonaroliano Girolamo Benivieni. Leonardo utilizza un progetto di struttura girevole di quasi quindici anni prima, a Milano, con il disegno di anfiteatro composto da due metà unite da un sistema di cardini:

Truovo apresso delle magne opere romane essere fatto due anfiteatri che si toccano nella loro schiena e poi con tutto il popolo si voltavano e si chiudevano insieme in forma di teatro e facevano questa forma.25

La fonte si riconosce in un passo della Storia naturale (XXXVI 24) sul teatro mobile di Curione nell’antica Roma. Solo il testo latino presenta il dettaglio della posizione addossata delle due metà del teatro, omesso invece nella traduzione del Landino (forse per la difficoltà di interpretazione). Leonardo non si lascia però intimidire dall’auctoritas dello scrittore antico, e dopo un po’ di calcoli e disegni conclude: «Questa tale inventione non fu molto sottile: piú difficile per la gravità». Quel girare dei semiteatri («con tutto il popolo» sopra) gli sembrava un po’ pericoloso, e per evitare disastri preferí riservare l’invenzione alla sola macchina scenografica del Paradiso di Plutone. Al massimo, se le cose fossero andate male, il capitombolo sarebbe toccato a non piú di due o tre attori (Orfeo, Aristeo, Euridice).

Un’ultima volta Leonardo “allegherà” Plinio: in latino. Intorno al 1513, su un foglio colorato d’azzurro, scrive tre strane parole: «astrapen / bronten / ceraunobolian».26 In greco, significano ‘fulmine, tuono, fòlgore’, e si leggono, esattamente nella stessa forma, in Plinio, nel passo della vita di Apelle in cui si celebrava il pittore greco per essere riuscito a rappresentare in pittura ciò che va oltre ogni capacità di rappresentazione: «Pinxit et quae pingi non possunt, tonitrua, fulgetra fulguraque, Bronten, Astrapen et Ceraunobolian appellant [Graeci]» (XXXVI 29). Una vera sfida dell’arte alla natura (come quella del «dipintore che disputa e gareggia con la natura»), che ora ispira le ultime grandi visioni apocalittiche, i disegni e le descrizioni dei Diluvii (che infatti sono pieni di cose difficilmente rappresentabili in pittura: venti, uragani, fulmini, saette…).

Dall’altra parte del foglio, uno dei piú sconvolgenti disegni di Leonardo: un giovane angelo col braccio levato (bozzetto di un’opera perduta, l’Angelo dell’Annunciazione, e preludio al San Giovanni del Louvre). La testa (che ricorda quella di Salai) è reclinata e sorridente, incorniciata da una lunga capigliatura di riccioli neri, il braccio destro scorciato in avanti con la mano appena abbozzata nel gesto di indicare verso l’alto, l’altra mano ripiegata sul petto a trattenere un velo trasparente che ricade verso il basso. Il seno è accennato con caratteri marcatamente femminili, mentre sotto il velo è visibile un membro virile in erezione. L’angelo, quasi annunciatore delle forze invisibili della Natura, esibisce la doppia natura di uomo e di donna.

L’angelo androgino rende visibile il mito platonico dell’ermafrodito, della creatura primordiale in cui l’unità originaria non era ancora divisa nelle due entità separate del maschile e del femminile: un mito diffuso al tempo di Leonardo, attraverso gli insegnamenti di Marsilio Ficino e le traduzioni di testi ermetici come il Pimandro (volgarizzato da Tommaso Benci).

Ma l’icona veniva forse da molto lontano. Sulla soglia del Codice F compare il seguente appunto: «pianta d’Ellefante d’India che l’ha Antonello merciaio».27 Elefanta era un’isola in India scoperta da poco dai Portoghesi (1509), sede di un mirabile tempio di Shiva con sculture scavate nella roccia e credute allora immagini di Dioniso. Nell’interno, tenebroso come una caverna, l’altorilievo di Shiva Ardhanarisvari, il dio androgino in piedi, sorridente e col braccio alzato: la stessa posa dell’angelo androgino e del San Giovanni, lo stesso sorriso di Monna Vanna e del San Giovanni-Dioniso nel deserto.

Leonardo avrebbe potuto venirne a conoscenza, per mezzo di una relazione o di un disegno d’accompagnamento alla planimetria («pianta») del tempio di Elefanta. Un’ipotesi non improbabile, visto che i navigatori portoghesi erano spesso accompagnati (e finanziati) da mercanti fiorentini e toscani, come Giovanni da Empoli e Andrea Corsali, in relazione con Leonardo e Giuliano de’ Medici; e che la Roma di Leone X nel 1514 era il crocevia di molte delle loro relazioni di viaggio. Nel febbraio di quell’anno vi giunse una straordinaria ambasceria portoghese con una carovana di doni dalle Indie: un elefante e altri animali fantastici, spezie, gioielli. Era il mondo fantastico di Plinio che tornava a essere reale.