XI

VISIBILE PARLARE

Il «visibile parlare» è un discorso che si percepisce non con l’udito ma con la vista, secondo la celebre formula dantesca del canto x del Purgatorio. Leonardo lo sapeva bene, perché la Commedia era stata un libro della sua giovinezza a Firenze negli anni Sessanta-Settanta del Quattrocento, ampiamente diffuso non solo nelle modeste librerie di mercanti e notai, ma anche nel milieu delle botteghe artistiche. Di piú, quel canto del Purgatorio era un testo chiave nel dibattito contemporaneo del “paragone delle arti”, fondato sul confronto tra il linguaggio verbale e il linguaggio delle arti visive.

Dante vi descrive infatti tre mirabili altorilievi (ispirati dall’iconografia classica e medievale), che gli si presentano alla vista mentre con Virgilio percorre la prima cornice dei superbi: tre grandi esempi di umiltà, per i quali viene usato un termine preciso (e poi comune nel lessico artistico del Rinascimento, e anche in quello di Leonardo), la parola «storia» (v. 52) o «istoria» (v. 71). Nell’ordine, si tratta dell’Annunciazione (ispirata probabilmente dalle sculture di Nicola Pisano nel Duomo di Pisa), del racconto biblico della processione dell’Arca guidata da un David danzante e salmodiante (dal ii Libro dei Re), e della novella di Traiano e la vedovella (da una lunga tradizione medievale che va da Paolo Diacono fino al Fiore de’ filosafi e al Novellino).

Dante descrive le «imagini», che sono prive di ogni corredo verbale (scritte, didascalie, epigrafi, cartigli) ma che gli appaiono cosí efficaci dal punto di vista comunicativo da essere non «imagine che tace» (v. 39) ma catalizzatrici di sensazioni uditive (le parole pronunciate dai personaggi, i suoni degli strumenti e della folla) e finanche olfattive (l’odore dell’incenso bruciato davanti all’Arca). Le parole di umile accettazione della volontà divina rivolte dalla Vergine all’angelo, «Ecce ancilla Dei» (Lc., 1 38), sono impresse nel suo stesso atteggiamento «come figura in cera si suggella» (v. 44).

Dante suggerisce inoltre una relazione profonda tra i primi due episodi (Maria e David). Che cosa sta facendo Maria quando viene sorpresa dalla visita di Gabriele? Il Vangelo non lo dice, ma è un dettaglio necessario per l’iconografia. Nella tradizione orientale la Vergine appare intenta a «opre femminili», domestiche, quotidiane, subalterne, come andare a prendere l’acqua con la brocca, o filare con il rocco e i fusi (che saranno ripresi da Leonardo molti anni dopo nella Madonna dei Fusi), di solito un telo rosso, che secondo gli Apocrifi è la tenda di porpora del Tempio. In quella occidentale, invece, a partire da san Girolamo, diventa abituale l’immagine di Maria “lettrice”, con un libro, aperto o chiuso, sulle ginocchia o su un leggio: un simbolo di condizione eccezionale, per la donna nel Medioevo, di partecipazione attiva alla sfera intellettuale. A questo punto, è legittimo chiedersi cosa stia leggendo Maria. Secondo la maggioranza degli interpreti, uno dei libri profetici dell’Antico Testamento (Isaia); secondo altri, il Salterio, letto e meditato come nella liturgia delle ore. E l’apparato illustrativo dei codici medievali del Salterio era spesso focalizzato sulla figura di David, con “storie” della sua vita, in particolare quella della processione dell’Arca.

Nell’esaltare la potenza dell’arte divina che supera anche la natura e umilia l’arte terrena, Dante offre allo stesso tempo una prova straordinaria dell’efficacia della parola nell’ecfrasis di un’opera d’arte, e quindi implicitamente della superiorità della parola sull’immagine. È questo, secondo me, il principale termine di confronto per i testi che Leonardo dedicò al tema, in parte consegnati al Codice A intorno al 1490-1492 e poi rielaborati nella prima parte del Libro di pittura (modernamente intitolata Paragone delle arti). Nella disputa tra il poeta e il pittore, è soprattutto con Dante che Leonardo si misura, come rivelano gli accenni alle materie trattate dal poeta: non solo battaglie e grandi gesta oppure paesaggi e «bellezze d’una donna» (temi appartenenti alla poesia epica e cavalleresca, e a quella lirica d’ascendenza petrarchesca), ma anche l’«opere de natura», i «diavoli ne l’inferno», le «infernali finzioni», le «cose che non sono», «l’inferno, o ’l paradiso, od altre delizie o spaventi».1

Scrive Leonardo che «la pittura è una poesia muta, che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura cieca, che si sente e non si vede»,2 ma allo stesso tempo interpreta in modo originale la sfida dantesca, e tenta davvero nelle sue opere di pittore di realizzare una maniera moderna di «visibile parlare» (che sarà riconosciuta dai contemporanei soprattutto nel “teatro” di gesti e passioni dell’Ultima cena): «le quali pitture, se saranno ben proporzionati li atti con li loro accidenti mentali, elle saranno intese, come se parlassino».3 A favore del primato della pittura giocano soprattutto l’immediatezza, la simultaneità e l’universalità del messaggio iconico:

Or guarda qual è piú propinquo a l’omo, o ’l nome de omo, o la similitudine d’esso omo? Il nome de l’omo si varia in varii paesi, e la forma non è mutata se non per morte.4

Nonostante le prese di posizione polemiche del Paragone, Leonardo sa comunque dimostrare, nella sua scrittura, quanto la parola sia importante, in perfetta complementarietà con l’immagine, fino al vertice straordinario del «figurare e descrivere» dei fogli di anatomia. È consapevole del fatto che il messaggio verbale ha un doppio canale di comunicazione, l’oralità e la scrittura. Quanto s’è detto di pittura cieca/ poesia muta è riferito a un contesto di oralità, mentre la ricezione della parola scritta passa attraverso lo stesso senso della pittura, l’occhio «signore de’ sensi», la «finestra dell’anima», il «senso piú nobile».5 Per il messaggio verbale, quindi, la migliore forma di registrazione e comunicazione resta la scrittura:

La pittura rapresenta al senso con piú verità e certezza l’opere de natura, che non fanno le parole o le lettere, ma le lettere rapresentano con piú verità le parole al senso, che non fa la pittura.6

Ovviamente, l’immagine ha sul destinatario un impatto piú efficace della parola scritta. Leonardo adduce l’esempio concreto (e diffuso al suo tempo) della scrittura (dipinta o incisa) su un’immagine sacra:

Pone inscritto il nome d’iddio in un loco, e ponvi la sua figura a riscontro, vedrai quale fia piú reverita.

E se tu scriverai la figura d’alcuni dèi, non sarà tale scrittura nella medesima venerazione che la iddea dipinta, perché a tale pittura sarà fatto di continuo voti e diverse orazioni, et a quella concorrerà varie generazioni de diverse provinzie, e per li mari orientali, e da tali si dimandarà soccorso a tal pittura, e non alla scrittura.7

La sfida lanciata da Dante nel x del Purgatorio è decisiva per un’altra ragione: perché la prima opera compiuta da Leonardo è proprio un’Annunciazione, un’opera complessa di significati e soluzioni tecnico-stilistiche in cui il giovane pittore sembra voler presentare se stesso alla comunità di artisti, committenti e intendenti nella quale comincia a muovere i primi passi (probabile anche il fatto che l’Annunciazione fosse l’unica sua opera esposta nel contesto pubblico di una chiesa fiorentina). Siamo intorno al 1472, Leonardo ha vent’anni, e il dipinto riflette perfettamente il clima della bottega di Andrea Del Verrocchio e della collaborazione con altri condiscepoli come Lorenzo di Credi (che riprenderà la composizione leonardesca nella predella della Madonna di Piazza a Pistoia).

L’Annunciazione era infatti il primo exemplum dantesco di umiltà e di «visibile parlare», e alcuni maestri del passato avevano pensato di rendere visibili anche le parole, dipingendole nella composizione o ai suoi margini (il saluto dell’angelo nell’Annunciazione di Simone Martini, l’invito devozionale di Beato Angelico nell’Annunciazione di San Marco a Firenze). Onnipresente il dettaglio del libro, di cui è affascinante seguire la metamorfosi nella pittura fiorentina di metà Quattrocento che Leonardo tentò di superare con la sua «storia», e in particolare nei Lippi, padre e figlio. Nell’Annunciazione Martelli (Firenze, San Lorenzo) fra Filippo Lippi ne lasciava scorgere solo l’orlo di una legatura rossa, mentre sul leggio-inginocchiatoio dell’Annunciazione delle Murate (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) ci fa vedere un libro aperto, voluminoso ma di piccolo formato (appena 8 righe per pagina): composizione fedelmente ripresa nel 1472 dal figlio Filippino, che nelle successive Annunciazioni imiterà invece il libro di Leonardo, moltiplicandolo nella forma di un improbabile studiolo umanistico, alla San Girolamo del Ghirlandaio. Successive a Leonardo, invece, tutte le altre Annunciazioni fiorentine (Lorenzo di Credi, Ghirlandaio, Botticelli, fra Bartolomeo), con vari tentativi di imitazione del libro di Leonardo.

Che restava però un oggetto inimitabile, straordinario (come il leggio verrocchiesco sul quale è poggiato, citato dal Ghirlandaio nell’Annuncio dell’Angelo a Zaccaria della Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella), riprodotto con estrema precisione miniaturistica, eseguito probabilmente dopo la balaustra retrostante (visibile attraverso la “trasparenza” di alcuni fogli). Quelle pagine che sembrano aprirsi da sole suggeriscono un’ascendenza diversa dalla scuola fiorentina: è la lezione di Antonello da Messina e dei meravigliosi libri aperti delle sue Annunciate.

La fedeltà di rappresentazione consente addirittura una descrizione codicologica del libro. Si tratta di un codice membranaceo, rilegato in cordovano rosso (materiale riservato alla legatura di volumi di pregio, e visibile nella legatura del libro dell’Annunciazione Martelli), di ampie dimensioni (in folio o in quarto grande), con la possibilità di distinguere anche approssimativamente il numero di fogli e la fascicolatura. Le dita della mano si appoggiano su un primo gruppo di dieci fogli, cui segue un secondo gruppo di sei fogli fortemente ondulati sul lato superiore, infine un terzo gruppo di 12 fogli. Il totale di 28 fogli lascia ipotizzare una fascicolatura in tre quaternioni e un binione, che può spiegare anche il naturale distanziamento tra secondo e terzo gruppo di fogli.

La scrittura è a piena pagina, circa 30 righe per pagina, con margini ridotti, senza giustificazione, e probabile assenza di rigatura. La scrittura è in inchiostro nero con rubriche in rosso, minuscola, con caratteri staccati, abbreviazioni, segni tachigrafici, segni di interpunzione (i due punti e il punto epigrafico). Si tratta di alcuni caratteri dell’alfabeto latino (le vocali i e o, le consonanti c l m n p q s), ripetuti in successioni che appaiono prive di senso, ma che danno l’impressione della scrittura ebraica (riprodotta invece fedelmente nel San Girolamo del Ghirlandaio), con puntini sovrapposti che imitano la notazione massoretica: un esercizio singolare da parte del giovane Leonardo, che negli stessi anni andava formando la sua straordinaria scrittura personale rovesciata, da destra a sinistra. Tra l’altro, non sono i caratteri della scrittura personale di Leonardo, che scriveva invece in una comune mercantesca. È un esperimento di scrittura segreta, esoterica. Forse la scrittura della Vergine? Nel 1503, tra le carte di Leonardo, arriverà una lettera del reggente dello Studio di Santa Croce a Firenze, maestro Giovanni, per certificare l’autenticità di una lettera scritta da Maria a sant’Ignazio di Antiochia, e conservata nella biblioteca del convento.

La Vergine dà l’impressione di stare voltando il libro al contrario, come un libro ebraico. Quella che per noi sarebbe la prima pagina, per lei è l’ultima; e il libro sul leggio corrisponderebbe, per dimensioni, consistenza e tipologia, a un prezioso salterio ebraico, con le didascalie in rubrica che segnano l’inizio di ogni salmo. Per noi, ha un valore particolare: è il primo libro che appare nel mondo di Leonardo, nella sua prima opera dipinta.

Altro «visibile parlare» è Ginevra de’ Benci. Il ritratto della giovane sposa fiorentina (ca. 1475) è un’immagine «parlante», perché comunica allo spettatore il nome della donna, con l’ostensione, alle sue spalle, di un albero di ginepro (genevero > Ginevra). La pianta, anzi, avvolgendone la chioma, si confonde quasi con il suo viso, in una relazione metamorfica che si avverte anche in un simile ritratto di Lorenzo di Credi, e che lega la Laura petrarchesca alla pianta dell’allorolauro. Era un senhal facilmente leggibile dai contemporanei, non segreto ma apertamente esibito, come rivela la produzione poetica contemporanea in celebrazione della bellezza di Ginevra (Lorenzo il Magnifico, Cristoforo Landino, Alessandro Braccesi).8

Il verso della tavola presenta un significativo esempio di scrittura dipinta da parte di Leonardo. Non sulle pagine di un libro, ma su un cartiglio che corre tra le figure di un emblema, creando quell’unione ingegnosa di parola e immagine, proiezione di una dimensione morale o esistenziale, che nel Cinquecento verrà detta “impresa”. Su un fondo di finto porfido rosso, l’impresa è costituita da due rami di alloro e palma piegati ad arco e intrecciati tra loro intorno a un ramo di ginepro, mentre la scritta sul cartiglio recita in lettere capitali «VIRTVTEM FORMA DECORAT» (‘la bellezza adorna la virtú’). Era il motto personale di Ginevra, e quindi si riferirebbe alla donna rappresentata sul recto. Ai raggi infrarossi, però, il cartiglio rivela un altro motto, inciso sul gesso, «VIRTVS ET HONOR», che coincide (con il motivo dell’intreccio di palma e alloro) con l’impresa del patrizio veneziano e umanista Bernardo Bembo, ambasciatore veneziano a Firenze nel 1475, protagonista di una pubblica relazione d’amore platonico con Ginevra, e probabile committente del ritratto a Leonardo.9

Nel complesso gioco di simboli, il sempreverde ginepro allude a un carattere solitario, schivo, irto e pungente, ma anche alla capacità di emanare un intenso profumo e di sopravvivere a condizioni estreme di caldo e freddo, come anche il resistente porfido (che richiama però anche, come pietra tombale, la fissità della morte). La palma e l’alloro, segni di vittoria e trionfo, derivano dalla canzone petrarchesca del sogno di Laura, Quando il soave mio fido conforto (Rvf, 359 7-8): «Un ramoscel di palma / et un di lauro trae dal suo bel seno». Nella prima versione del ritratto, avvolgono il ginepro insieme al motto Virtus et honor. L’amante avvolge la forma spirituale dell’amata, mentre il pittore ne ha reso incorruttibile la forma corporea.

L’ultimo esempio di parola dipinta occorre una decina d’anni dopo, allargando il confronto anche alla musica (come infatti avverrà nei testi del Paragone), con la rappresentazione di un’altra tipologia di libro e di un’altra speciale forma di scrittura, quella musicale.

Il Ritratto di musico dell’Ambrosiana è una delle prime opere eseguite da Leonardo a Milano. Già creduto ritratto di un duca di Milano, fu riconosciuto invece ritratto di un musico-cantore dopo il restauro-pulitura del 1905 che portò alla scoperta di uno spartito musicale nell’angolo inferiore destro. Anche in questo caso la precisione di dettaglio è impressionante. Lo spartito si presenta nel piccolo formato oblungo, che (per comodità d’uso rispetto ai grandi corali) è una novità della polifonia del Quattrocento per le parti separate di composizioni a piú voci come i mottetti, e come tale ispira le prime stampe musicali di Ottaviano Petrucci agli inizi del Cinquecento. Qui appare composto di due carte, unite nel punto d’appoggio delle dita della mano, con segni di piegature successive sul lato corto, evidenziate dalle diverse condizioni di luce e ombra (ancora una citazione da Antonello).

Nello spartito sono visibili tre pentagrammi con notazione musicale: in particolare, sul terzo rigo, si distinguono segni mensurali di tempo binario e ternario, e note semibrevi, minime, semiminime. All’inizio del primo rigo sembra di vedere una chiave di contralto (di do), seguita dal bemolle sulla riga del si, poi da un segno mensurale binario e da una successione di note in salita e in discesa. Il secondo rigo è completamente scomparso, tranne alla fine, con una successione di poche note illeggibili.

Alcune parole abbreviate compaiono nello spazio bianco tra il secondo e terzo rigo («Cant9 Ang» o «Cant9 An», che potrebbe essere sciolto in «Cantus Angelorum»), e prima dell’inizio del terzo rigo, nel margine interno del foglio («Cont», cioè «Contratenor», la parte che il cantore ha in mano). «Cantus Angelorum» sembra essere non una porzione di testo cantato, ma una specie di titolo del canto e di indicazione interpretativa del pezzo, che dovrebbe cercare di essere un vero “canto degli angeli”.

Solo il terzo rigo presenta (dopo il segno mensurale del semicircolo tagliato, tempus imperfectum diminutum) una notazione parzialmente leggibile: un esacordo discendente re-do-sib-la-sol-fa, un dettaglio cosí importante, per Leonardo, che appare oggetto di pentimento rispetto a una precedente versione (in cui la stessa figurazione si trovava due posizioni piú in basso). Nel prosieguo della notazione si distinguono chiaramente due indicazioni di proporzioni musicali, 3/2 (sesquialtera) e 2/3 (subsesquialtera).

Il confronto con altri esempi di righi musicali nei manoscritti di Leonardo (ad esempio nei cosiddetti “rebus”, in genere in chiave di fa su terzo rigo)10 conferma la sua conoscenza della teoria musicale (almeno di base), e del modo di scrivere e leggere la musica («La musica s’etterna con lo scriverla»),11 usando correttamente chiavi, segni mensurali e note. Costante è l’interesse per gli aspetti sia teorici (la teoria pitagorica e platonica dell’armonia proporzionale) che pratici della musica (la sperimentazione sul suono, la vibrazione, gli strumenti musicali). Del resto, è nota l’importanza della musica nella sua formazione, e nell’episodio leggendario della venuta a Milano per portare una lira d’argento a Ludovico il Moro insieme ad Atalante Migliorotti (come ricordano Vasari e l’Anonimo Gaddiano).

Il «visibile parlare» diventa quindi, per il Musico dell’Ambrosiana, un «visibile cantare», in cui le parole e la musica sono suggerite dalla porzione visibile di spartito (che al tempo di Leonardo doveva essere maggiore), richiedendo la collaborazione attiva di uno spettatore contemporaneo che fosse anche in grado di leggere la musica, o addirittura di conoscere quel brano. Non possono essere note dipinte lí a caso. Per questo motivo, credo che l’ipotesi di accostare quell’esacordo a simili figurazioni di Josquin des Prez abbia qualche fondamento, perché quell’esacordo è un carattere peculiare del suo stile, una firma facilmente riconoscibile all’ascolto.12 E il brano in cui queste figurazioni si rincorrono, da una voce all’altra, è Illibata Dei Virgo Nutrix, uno dei suoi piú importanti mottetti sacri, anche perché presenta nella prima strofa il nome dell’autore in acrostico: «josquindesprez». Pubblicato da Petrucci a Venezia nel 1508, ma già presente in un manoscritto musicale della Cappella Sistina verso il 1495,13 il mottetto è a cinque voci, e la parte corrispondente al cartiglio del Musico dell’Ambrosiana è quella del Contratenor primus.

Testo e musica rivelano una complessa asimmetria, perché le due strofe corrispondono a due parti molto diverse. La prima (una lunga introduzione) si basa su un tempo ternario, mentre la seconda, su tempo binario, è un “canto di angeli” di lode alla Vergine, «Ave virginum decus hominum / coeli porta, / ave lilium flos humilium / Virgo decora», concluso dalle parole evangeliche del saluto dell’angelo dell’Annunciazione, «Ave Maria gratia plena dominus tecum». È in questa seconda parte che il Contratenor primus canta un esacordo simile a quello riprodotto da Leonardo, con le parole «Vale ergo tota pulchra ut luna / electa ut sol clarissima gaude». Subito dopo (come nello spartito di Leonardo) si passa alla proporzione sesquialtera 3/2 («Salve tu sola cum sola amica / consola la mi la canentes in tua laude»), mentre la conclusione dell’Ave Maria torna alla proporzione subsesquialtera 2/3. Nel dipinto di Leonardo e negli antichi testimoni del mottetto la figurazione è simile, ma non identica. Ma il Musico è anteriore di almeno dieci anni alla sua prima attestazione manoscritta. Leonardo può aver attinto a una prima versione, o anche “scorciato” lo spartito a quegli elementi essenziali che rendevano riconoscibile lo stile di Josquin. Da notare l’uso delle frazioni numeriche per la scrittura delle proporzioni musicali, che è un’innovazione notazionale contemporanea di Franchino Gaffurio.14

Proporre che quella musica sia di Josquin non significa però risolvere il problema dell’identità del personaggio effigiato, che in genere, per le opere di Leonardo, è sempre un problema secondario: non trascurabile, certo, ma secondario rispetto a tutti gli altri livelli di rappresentazione e di significazione che il pittore vorrebbe comunicarci (i “moti dell’animo”, le luci e le ombre, i dettagli anatomici, precisi anche nelle pupille degli occhi; e si potrebbe dire lo stesso dell’intricatissima carta di identità di Monna Lisa).

Il Musico dell’Ambrosiana non è Josquin (che era sicuramente piú anziano del giovane effigiato nel ritratto, e che negli anni Ottanta, nonostante il legame con la corte sforzesca, era sempre piú frequentemente a Roma al seguito del cardinale Ascanio Sforza e presso la cappella papale). Né altre precedenti ipotesi appaiono realmente convincenti (Franchino Gaffurio, Jean Cordier, Angelo Testagrossa). Forse solo l’amico e allievo Atalante Migliorotti, l’eccellente musico che aveva accompagnato Leonardo a Milano nel 1482, avrebbe potuto posare per lui.15

L’assoluta originalità del dipinto risiede però in un altro elemento. Se si tratta di «visibile cantare», il canto dov’è? Se non ci fosse lo spartito, non sapremmo nemmeno che è un musico. Manca qualunque segnale visivo di evocazione della musica, comune invece in tutte le rappresentazioni pittoriche del canto, da Giotto in poi: la testa rivolta verso l’alto, la bocca aperta, le gote gonfie.

Il giovane cantore non sta infatti cantando. Le labbra ben chiuse (come quelle di Ginevra), ha appena finito, e il suo sguardo si rivolge verso un altrove che ci è ignoto. Nello spazio del dipinto, il silenzio gravido d’attesa e malinconia che segue l’improvvisa interruzione del canto. In sostanza, questo ritratto è un vero paragone tra pittura e musica, che anticipa quanto Leonardo scriverà nel Paragone:

Come la musica si dè chiamare sorella e minore della pittura. La musica non è da essere chiamata altro che sorella della pittura […]. Ma la pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non more immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica, anzi, resta in essere, e ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superfizie.16

Solo la musica polifonica, come la pittura, riesce a farci sentire la bellezza sublime delle proporzioni armoniche:

Sí come di molte varie voci insieme aggionte ad un medesimo tempo, ne risulta una proporzione armonica, la quale contenta tanto il senso dello audito, che li auditori restano con stupente admirazione quasi semivivi.17

Nel nostro ritratto, è lo stesso musico che guarda con «stupente admirazione» qualcosa al di fuori del campo visivo dello spettatore. È forse un’immagine sacra, come suggerisce altrove Leonardo: «Con questa [la pittura] si fa li simulacri alli dii; d’intorno a questa si fa il culto divino, il quale è ornato con la musica a questa servente».18

Essa deve essere direttamente legata al mottetto di Josquin, in un’occasione straordinaria che potrebbe essere il suo svelamento pubblico, nella festa dell’Immacolata:

Or non si vede le pitture rapresentatrici delle divine deità essere al continuo tenute coperte con copriture di grandissimi prezzi? E quando si scoprano, prima si fa grande solennità ecclesiastiche de vari canti con diversi suoni. E nello scoprire, la gran moltitudine de’ populi che quivi concorrono immediate se gittano a terra, quella adorando e pregando per cui tale pittura è figurata, de l’acquisto della perduta sanità e della etterna salute, non altramente che se tale iddea fusse lí presente in vita.19

È lo stesso mottetto di Josquin a suggerirci quale sia la grande immagine sacra che riesce a vincere la stessa musica. Illibata Dei Virgo Nutrix è la celebrazione dell’Immacolata Concezione di Maria, una composizione nata tra Milano e Roma negli anni in cui il dibattito teologico si fece piú acceso, con la partecipazione di due autorevoli ecclesiastici legati al convento milanese di San Francesco Grande, Bernardino de’ Busti (un parente di Cecilia Gallerani) e Francesco Neri Sansone, piú tardi generale dell’ordine francescano. In quella chiesa che oggi non esiste piú, nella cappella dell’Immacolata Concezione, in una grande cornice di legno dorato che comprendeva anche le figure degli angeli in atto di cantare e suonare («Cantus Angelorum») dipinte da Francesco Napoletano e Giovanni Ambrogio de Predis, apparve cosí, agli occhi del Musico, la pala d’altare che noi oggi conosciamo come la Vergine delle Rocce.