XII

«L’ETÀ CHE VOLA»

Non sappiamo quale sia stato il primo libro che Leonardo ha aperto nella sua fanciullezza, in una delle case della sua strana famiglia, tra Vinci e Firenze. Ma sappiamo con certezza qual è il primo libro che registra nei suoi manoscritti, con tanto di nota di possesso, in un foglio del Codice Atlantico databile a Firenze intorno al 1478: «questo libro è di Michele di Francesco Bernabini e di sua disciendenza». La nota è preceduta da alcune trascrizioni, che rivelano il contenuto del libro:1

O Greci, io non penso ch’e miei fatti vi sieno d‹a raccor›dare, però che voi li avete veduti. Dica U‹lisse› gli suoi, ch’egli fa senza testimoni, de’ gua‹li› è sola consapevole la oscura notte.

O tempo consumatore di tutte le delle cose, o antichità tu divori ciò che si vede, e o invidiosa antichità tu consumi distruggiete e guasti ciò che si vede,

e consumate ogni cosa.

O tempo consumatore delle cose e o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le co‹se› e consummate tutte le cose da’ duri denti della vecchieza a pocho a pocho con lenta morte. Elena quando si specchiava vedendo le vizze grinze del suo viso fatte per la vecchiezza piagnie e pensa seco perché fu rapita du’ volte.

O tempo consumatore delle cose e o invidiosa antichità, per la quale tutte le sono consummate.

Ulisse, il tempo, Elena. Si tratta di testi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, nel volgarizzamento di Arrigo de’ Simintendi da Prato (ca. 1330), disponibile in un’ampia tradizione manoscritta di area toscana, in un contesto socioculturale di produzione e fruizione molto simile a quello del giovane Leonardo e della sua famiglia.2

Mentre trascrive, Leonardo rielabora sempre il testo. La forte componente di oralità, dominante nella sua formazione culturale e linguistica, influisce nel passaggio mentale da testo scritto a testo scritto, da antigrafo a copia, in una sorta di “dettatura interiore” ana154 loga al processo di rielaborazione dell’immagine: «Ma tu, scrittore delle scienzie, non copii tu con mano scrivendo ciò che sta nella mente, come fa il pittore?».3

Leonardo aggiunge qualche parola e cambia l’ordine di altre, ma conserva alcuni minimi dettagli che confermano l’identificazione della fonte, e anzi la sua appartenenza a una famiglia specifica di manoscritti fiorentini, dei quali il Laurenziano Mediceo Palatino 106 sembra offrire la lezione piú vicina. Non è il “libro” di Michele Bernabini (a c. 198r è la sottoscrizione di un differente copista-possessore: «Questo libro scrisse Simone di Nicholo Salviati ed è suo»), ma ci dà un esempio concreto di quello che Leonardo poteva trovarsi di fronte: un volume cartaceo di 200 fogli e di grandi dimensioni (in quarto grande), rilegato in velluto azzurro, in una scrittura mercantesca di metà Quattrocento che si distende su due colonne con rubriche e capilettera in rosso, e l’incipit a c. 2r «Comincia il primo libro d’Ovidio Maggiore traslatato in volgare» (il testo integra alla fine di ogni libro le allegorie di Giovanni del Virgilio, anch’esse tradotte). Il libro di Leonardo doveva però recare il titolo grecizzante che compare nell’elenco del Codice di Madrid II, «Ovidio Metamorfoseos», che si riscontra all’inizio di altri manoscritti del volgarizzamento di Simintendi (nell’incipit o nella tavola),4 e che apriva anche l’altra diffusa traduzione in volgare, quella di Giovanni Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos vulgare (1375-1377).

Il primo brano è tratto dall’inizio del XIII libro (vv. 12-15), il discorso di Aiace che contende a Ulisse il possesso delle armi di Achille:

Ma o Greci io non penso ch’e miei fatti vi sieno da raccordare, però che voi gli avete veduti. Dica Ulixe li suoi, ch’elli fa sanza testimonio, de’ quali è consapevole sola la notte.5

Uniche varianti di Leonardo (rispetto a tutti i codici): l’inversione sola consapevole, e l’aggiunta dell’aggettivo oscura.

Leonardo salta dal XIII libro al XV e conclusivo dell’opera, selezionando un passo sull’inesorabile fuga del tempo (VV. 232-36), di fronte al quale anche la grande bellezza si corrompe e svanisce:6

Poi fu valente et veloce, e passò lo spatio della gioventú, e passati gli anni del mezzo tempo, discorse per la inchinevole via della cadevole vecchiezza.

Questa gli tolglie e distruggie le forteze della prima etade. Lo vechio avolo piangnie quando vede quelle sue menbra indebolite, le quali pareano in giovinezza di forti fiere, et simiglianti / a quelle d’Ercole per forza. Elena, quando à vedute nello spechio le vizze del suo volto, fatte per la vecchiezza, piangnie, e pensa seco perch’ella fu presa due volte. O tenpo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, voi distruggiete tutte le cose, et consumate tutte le cose morse da’ denti della vechiezza, a poco a poco, colla lenta morte. E questi, che voi chiamate elimenti, nonne stanno fermi: atendete, e io v’amaestro le vicende che fanno.

Questa volta le variazioni sono piú consistenti: l’apostrofe al tempo e all’invidiosa antichità viene riscritta tre volte in modo diverso, con l’aggiunta di nuove parole ed espressioni che segnano un rafforzamento dell’immagine distruttiva del tempo, nella visione di un mostro “divoratore” che agisce soprattutto nel campo del “visibile”: «divori ciò che si vede e guasti ciò che si vede». L’esempio di Elena, posposto, è ulteriormente rielaborato, con un’insistenza sul decadimento del volto («le vizze grinze del suo viso») e la sostituzione di rapita a presa.

Le Metamorfosi di Ovidio, nel volgarizzamento di Simintendi, sono state il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta. All’inizio dell’opera Leonardo poteva leggere la storia delle origini del mondo, dal caos originario alla creazione, la successione delle età dell’oro, dell’argento, del rame e del ferro, il parallelo procedere di civiltà e corruzione dell’uomo che si allontana dalla primitiva innocenza naturale con l’invenzione della navigazione e dell’estrazione dei metalli e con la guerra, fino ai miti dei giganti e del diluvio. Una lunga eco che approderà fino alle profezie e ai tardi testi e disegni dei diluvi, attraverso testi programmatici per il Libro di pittura nei primi anni Novanta come il Modo di figurare una fortuna, che riprende un altro luogo ovidiano, la descrizione della tempesta che travolge la nave di Ceice nell’xi libro:

Ecco e’ larghi ventipiovoli caggiono delle risolute nebbie; e potresti credere che tutto il cielo cadesse nel mare; e che l’enfiato mare salisse nelle contrade del cielo. Le vele sono bagnate delle piove; e l’acque del mare si mescolano coll’onde del cielo. L’aria è sanza lumi: la cieca notte è preuta per le sue tenebre, e per quelle della tempesta. Ma le minaccianti saette cacciano queste, e danno lume: l’acque ardono per gli fuochi delle saette.7

Nel libro vi la tela di Aragne è una sintesi visiva della storia degli amori di Giove, di cui Leonardo si occuperà direttamente almeno in due casi, per la rappresentazione della Danae di Baldassarre Taccone, e per la composizione della Leda:

E dipinse come Giove giacque con Asterile, trasformato in aguglia; e con Leda, in figura di cecino: e come, celato in magine di satiro impregnò la bella Etiopia, figliuola del re Nitteo, la quale partorio Ceto e Amfiona; e come, trasfigurato in oro, ebbe a fare con Danne.8

La visione delle baccanti come furie infernali (ripresa nell’allestimento teatrale dell’Orfeo) comparirà nel racconto del mito di Orfeo nei libri x-xi.

Il libro che appassiona di piú Leonardo è l’ultimo, in gran parte occupato dal lungo discorso di Pitagora che espone le ragioni di un’alimentazione basata sulla rinuncia al consumo di carne (un tema caro a Leonardo, che secondo i contemporanei era vegetariano).9 Pitagora è il grande modello di sapiente e filosofo naturale che Leonardo vorrebbe diventare, in grado di illustrare

i cominciamenti del grande mondo, e le cagioni delle cose, e che cosa è la natura, e che cosa è iddio; onde sono le nevi; qual sia lo nascimento della saetta; o se Giove o venti tuonano percotendo e nuvoli; che cosa è quello che fa muovere le terre; con quale legge vanno le stelle; e qualunque cosa è quella che si nasconde.10

Le parole con cui Pitagora si scaglia contro l’alimentazione carnivora sono le stesse che Leonardo riprende in vari suoi scritti, a cominciare dalla disputa sulla legge di natura:

O come è scellerata cosa nascondere le budella nelle budella, e ingrassare l’affamato corpo del manicato corpo: e l’uno animale vivere della morte dell’altro! In tante ricchezze, le quali la terra, ottima madre, hae parturite, non vi giova di manicare altro con crudeli denti, e di riferire e costumi de’ Ciclopi, se no le triste ferite? e non potete saziare gli digiuni del ventre divoratore, se voi non uccidete altrui?11

Nell’esortazione a non aver paura della morte («Tutte le cose si mutano, nessuna cosa muore»),12 Pitagora espone poi i principi della variazione universale:

Niuna cosa è in tutto il mondo che stia ferma. Tutte le cose discorrono: ogni immagine è formata vagante. Gli tempi medesimi si volgono con continovo movimento, non altrimenti che faccia il fiume. Il fiume non può stare fermo, né la lieve ora: ma sí come l’onda è cacciata dall’onda; e quella medesima che viene è costretta, e costrigne quella che le va innanzi; cosí fuggono igualmente i tempi, e igualmente seguitano; e sempre sono nuovi: però che quel che fu dinanzi, è lasciato, ed è fatto quello che non era stato: e tutti e movimenti si rinovano.13

Con la metamorfosi degli elementi primordiali le forme della natura cambiano continuamente:14

E la natura rinnovatrice delle cose rende dall’altre cose altre figure: e credetemi, che niuna cosa perisce nel mondo, ma isvariasi, e rinnuova la faccia: e chiamasi nascere lo incominciare ad essere altro che quello che fu prima; e chiamasi morire il finire d’essere quello che era prima; con ciò sia cosa che forse quelli elimenti sieno tramutati qua, e questi colà; ma pure stanno fermi nel loro stato. Ma non credo che alcuna cosa basti lungo tempo in una medesima immagine: cosí, o secoli, siete voi venuti dall’oro al ferro; cosí è volta molte volte la fortuna de’ luoghi. Io ho veduto quello che di qui adrieto era fermissima terra, essere mare: viddi quello ch’era mare, essere fatta terra; e li nicchi marini sono trovati di lungi dal mare, e l’antica àncora è trovata negli alti monti. E ’l corso dell’acque fece valle quello che fue campo; e per lo discorrimento, lo monte è menato nel mare: e la terra pantanosa è diventata secca, toltile e sughi; e’ luoghi ch’erano secchi, sono fatti pantani.

È la stessa visione che in quel periodo Leonardo riprende in alcuni fogli del Codice Atlantico e del Codice Arundel.15 I testi, letti nella sequenza in cui sono stati composti, rendono lo sviluppo di un racconto di filosofia naturale, e dell’incontro del giovane Leonardo con la natura. Il primo stadio della meditazione, intitolato Essempli e pruove dell’accrescimento della terra, è un’osservazione empirica dell’accrescimento del terreno in un vaso che si allarga alla visione del mondo che cresce come un organismo vivente, inghiottendo le stesse vestigia di antiche civiltà umane:

Or non vedi tu negli alti monti i muri delle antiche e disfatte città essere da l’accrescimento della terra occupate e nascoste? Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento avere inghiottito una appoggiata colonna, e scalzata co’ taglienti ferri, e, quella tràttane, avere lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?16

Sullo stesso foglio capovolto (e sulle prime righe della facciata successiva), Leonardo si rivolge direttamente a un mostro marino, simbolo e strumento della smisurata forza della natura, ma allo stesso tempo simbolo della natura che deve anch’essa piegarsi alla legge superiore e misteriosa della necessità.

Nel quadro successivo la visione presenta infatti il mostro («potente e già animato strumento dell’arteficiosa natura») vinto dal tempo e dalla morte, arenato su una grande spiaggia, la grande carcassa disseccata che, ricoperta dalla terra che “cresce”, si trasforma in un’immane montagna.17 Per la composizione di questa visione, Leonardo combina diversi tasselli tratti dai capitoli del libro ix della Storia naturale di Plinio dedicati alle balene e ai mostri che popolano gli oceani, mirabili strumenti di natura; e anche l’immagine finale della carcassa vuota diventata una grande cavità inglobata nella montagna. Ma soprattutto utilizza le stesse parole dell’apostrofe ovidiana al tempo trascritte insieme al discorso di Aiace e alla vecchiaia di Elena:

O tenpo, consumatore delle cose, in te rivolgiendole dài alle tratte vite nuove e varie abitationi. O tenpo veloce pledatore delle cleate cose, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti, e quante mutationi di stati e vari casi sono seguiti, po’ che la marav‹i›gliosa forma di questo pesce qui morí.18

Sulla pagina di fronte torna il tema dell’accrescimento della terra, che aumenta talmente le proprie dimensioni da restringere lo spazio dell’aria, imprigionare l’acqua nelle sue viscere e raggiungere i confini della sfera del fuoco, che ridurrà la superficie terrestre in una landa riarsa e senza vita: «e questo fia il termine della tereste natura».19 La profezia della fine del mondo e della vita, fondata sulle conseguenze necessarie di leggi naturali, si colora di accenti che erano caratteristici della predicazione e della letteratura tardomedievale sull’Apocalisse e sul Giudizio finale (da Antonio Pucci a Luigi Pulci), e che si ritrovano anche nel Trionfo dell’eternità di Petrarca.

Girando lo stesso foglio, Leonardo riprende l’immagine della caverna vivente (già prefigurata nella vuota carcassa del mostro marino, armatura della grande montagna). L’inizio del brano riscrive piú volte una serie di immagini collegate a un grande vulcano in cui lottano tra loro gli elementi della terra, dell’aria e del fuoco: di nuovo il discorso di Pitagora nel xv libro delle Metamorfosi, che descrive «la crudele forza de’ venti, rinchiusa nelle cieche caverne, disiderando d’uscire fuori da alcuna parte»;20

Lo monte Enna, lo quale arde con fornaci di solfo, non sarà sempre di fuoco, e non fu sempre di fuoco: però che, o vero che la terra è animale e vive e ha fessure che mandano fuori la fiamma per molti luoghi; ella puote mutare le vie del soffiare, e quante volte si muove per tremuoto, puote finire queste caverne, e aprire quelle: o vero che gli lievi venti sono costretti nelle spilonche di sotto, e perquotono e sassi co’ sassi, e materia ch’ha semi di fiamma; rappacificati e venti, le spilonche saranno lasciate fredde: o vero che le forze del bitume pigliano gl’incendi, e’ solfi del loto ardono con piccoli fumi; ma quando la terra non darà gli cibi e’ grassi notricamenti alla fiamma, consumate le forze per lo lungo tempo, e alla divoratrice natura mancherà lo suo notricamento, ella non sosterrà la fame; e abandonata abandonerà gli fuochi.

Qui, in prima persona, Leonardo presenta se stesso all’ingresso della caverna:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifitiosa natura, ragiratomi alquanto infra gli onbrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna, dinanzi alla quale restato alquanto stupefatto e igniorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi feci ten‹ebre› alle abbassate e chiuse ciglia, e spesso piegandomi in qua e illà per ‹ve›dere se dentro vi disciernessi alcuna cosa, e questo vietatomi ‹per› la grande oscuri‹t›à che là entro era, e stato alquanto, subito sa‹l›se in me 2 cose, paura e desidero: paura per la minac‹cian›te e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcu‹na› miracolosa cosa.21

Combattuto fra il desiderio d’entrarvi e di scoprire le ragioni seminali delle cose, e la paura irrazionale dell’oscurità, che poi è forse la paura che, in realtà, la caverna sia vuota, che non nasconda alcun mirabile segreto, Leonardo sembra intuire che alla base dell’immensa macchina del mondo non vi sia altro che il nulla, il vuoto.

La meditazione arriva a una conclusione (provvisoria), dopo un pensiero sui “nicchi” (sempre legato al movimento universale degli elementi: «Per le 2 linie de’ nicchi bisognia dire che la terra per isdegnio s’attuffassi sotto ’l mare e fè il primo suolo, poi il diluvio fè il secondo»), in una vera e propria disputa sulla legge di natura con le voci di due interlocutori precedute (come in un dibattimento scolastico) dalle didascalie contra e pro.22 Alla prima obiezione del contra («Perché la natura non ordinò che l’uno animale non vivessi della morte dell’altro?»), il pro risponde riprendendo lo spunto iniziale dell’accrescimento, al quale la stessa natura sembra porre rimedio ordinando «che molti animali sieno cibo l’uno de l’altro», e con altri cataclismi come «cierti avelenati vapori e pestilentie e continua peste sopra le gran moltiplicationi e congregationi d’animali e massime sopra gli omini, che fano grande acrescimento perché altri animali non si cibano di loro». Ribattendo a una nuova obiezione del contra, il pro conclude:

Or vedi, la speranza e ’l desidero del ripatriarsi e ritornare nel primo chaos fa a similitudine de la farfalla a’ lume, dell’uomo che con continui desideri senpre con festa aspetta la nuova primavera, senpre la nuova state, senpre e nuovi mesi e nuovi anni, parendogli che le desiderate cose, venendo, sieno troppo tarde. E non s’avede che desidera la sua disfatione. Ma questo desidero ène in quella quintessenza spirito degli elementi, che, trovandosi rinchiusa per anima dello umano corpo, desidera sempre ritornare al suo mandatario. E vo’ che sapi che questo medesimo desiderio è ’n quella quinta esenza conpagnia della natura, e l’uomo è modello dello mondo.

Un’altra eco del Convivio di Dante (ii 12 13: «lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio»), in cui però il «ripatriarsi e ritornare» non è a Dio creatore, ma «nel primo chaos».

«A similitudine de la farfalla a’ lume»: la piccola farfalla notturna che si consuma a contatto col fuoco ha già colpito la fantasia di Leonardo, che vi vede il «desiderio del ripatriarsi e ritornare nel primo caos», la fusione di conoscenza, piacere, morte e dissolvimento. Ma il vero protagonista del racconto di Leonardo, lo strumento della necessità, è il tempo, superiore alla stessa natura: è lui che muta ogni forma, la vita e la bellezza, e che rende possibile il fluire delle cose: «Col tempo ogni cosa va variando».23 Nel tempo si svolgono tutte le sperientie e i fenomeni descritti nel racconto: l’accrescimento della terra, la sparizione delle civiltà umane, la grandiosa corsa del mostro marino sulle onde, la sua morte e trasformazione in montagna, il dettaglio dei nicchi, dei fossili che erano stati creature viventi, e infine della stessa terra, che si trasforma in un deserto senza vita. Nel trionfo del tempo viene superata anche l’idea della morte. Con precisione, Leonardo usa la parola disfazione: per la creatura come per il mondo, per il microcosmo come per il macrocosmo, si tratta del dissolvimento dell’unità di ossa, nervi, panniculi, organi, dell’insieme di particelle e atomi, e della loro ricombinazione in nuove unità, in nuove forme.

Torniamo al foglio dal quale siamo partiti.24 Le citazioni da Ovidio sembrano non casuali, ma inserite all’interno di una meditazione interiore di Leonardo sulla natura, sul tempo, e anche su se stesso, con un forte coinvolgimento personale, in un momento di crisi profonda. La forte allocuzione di Aiace sembra un’autodifesa che intende richiamare fatti avvenuti davanti agli occhi di tutti, alla luce del sole, a differenza delle azioni di Ulisse, nascoste nelle tenebre della notte e di un comportamento occulto. Il pianto di Elena davanti allo specchio per la sua bellezza perduta viene ripreso anche in un foglio del Codice Forster III, dove sotto la caricatura di una vecchia raggrinzita compare il verso «cosa bella mortal passa e non dura»; l’ottavo verso di un sonetto di Petrarca, Chi vuol veder quantunque Natura, sulla bellezza di Laura, prodotto mirabile dell’opera della natura e del cielo destinato però a invecchiare e perire (Rvf, CCXLVIII).

Dopo l’ex libris di Michele Bernabini, leggiamo un frammento di scrittura, che sembra non una prova di penna ma il frammento di una lettera in cui si chiedono informazioni su una certa Caterina: «Dí, dí, dí, dimmi come le cose passano di costà, e sappimi dire se la Caterina vuole fare / dí, dimmi come le cose».

Sulla colonna di destra, un testo enigmatico, seguito da prove di penna e da una nota sui colori:

De no’mm’avere a vil ch’i’ non som povero. Povero è quel che assai cose desidera. Dove mi poserò dove. Di qui a poco tempo tu ’l saprai, rispusi, per te stessi, di qui a poco tenpo.

Si tratta in realtà di versi, ritagliati e messi insieme. I primi sono tratti da un’opera di Luca Pulci, le Pístole (originale rielaborazione in terzine volgari delle Eroidi di Ovidio), e in particolare dalla lettera di Polifemo a Galatea, in cui il bestiale e deforme Ciclope cerca di convincere la ninfa del suo disperato amore (VIII 130-33):

I’ ho di cose varie ancora un gruzolo

piú ch’altro amante assai, qual considera

a rispetto del mar quasi uno spruzolo.

Amore, o Galatea, m’arde e m’assidera.

Deh non m’avere a vil ch’io non son povero,

povero è quel che assai cose desidera.

Dove mi poserò?25

Senza soluzione di continuità, come se fossero la risposta all’angosciosa domanda del ciclope, due versi di Petrarca dal Trionfo d’Amore, nel punto in cui il poeta, dopo la prima visione della processione trionfale, chiede al suo interlocutore chi siano i prigionieri di Amore (i 66-72):

Dimmi per cortesia, che gente è questa?

– Di qui a poco tempo tel saprai,

per te stesso – rispose – e sarai d’elli:

tal per te nodo fassi, e tu nol sai;

e prima cangerai volto e capelli

che ’l nodo di ch’io parlo si discioglia

dal collo e da’ tuo’ piedi anco ribelli –.

In basso, capovolto e reso illeggibile da una grande macchia d’inchiostro (intenzionalmente estesa a coprire la scrittura), d’altra mano, un abbozzo di sonetto caudato in cui qualcuno (un allievo, un ex amico?) chiede perdono a Leonardo per una colpa misteriosa, forse aver messo in giro un’accusa o una maldicenza per fargli disonore (non era la prima volta: nel 1476, a seguito di una denuncia anonima, Leonardo era stato processato per sodomia):26

Lionardo mio, non havete f[…]

Deh Lionardo, perché tanto penate?

Deh Lionardo, non [mi vogliate incolpa]re

[per la mia m°neto et non per errore]

[Ché quello ch’ho facto è stato per errore],

ch[‘ho facto questo per farvi] disonore

[e saprete che in fuora al vo]stro onore

[saprà serbar quel ch’] ancor meritate.

perché voi [li avete caro lo core]

E [voi che ’n pensier ravidi ’nve]chiate
per [sprofundarne al rio furore]
e [divor]armi le oss[a con dolore],
perché [non obliate e perdon]ate?

Ah, non [sia che] voglia[te racon]tare,

Orsú [se ’l dire è men che ’l fare]

ché mi [terreste per cotal ma]rtire
che [a molti ne fa in tormenti] stare

e forse [alla fine vicino a] morire,
e ire a l’inferi [dove si sa p]urgare,

chi ha mal facto

per che non vogliatel piú [oltr]e seguire.

Chiarir si vuole il dire:

adunque [fa ch’io non sia condanato],
che a chi s’emenda gli l’è perdonato.

Se giriamo il foglio, scopriamo (prima di una serie di ricette di bottega) un’altra trascrizione finora sconosciuta:

l’età che vola discorre nascostamente e inganna altrui e niuna cosa è piú veloce che gli anni figlioli del t‹enp›o e chi semina virtú fama ricoglie.

È l’inizio del x libro delle Metamorfosi, che si apre con il mito di Venere e Adone:

Della iddea Venus e d’Adonis.

L’età che vola discorre nascosamente e ’nganna altrui, e niuna cosa è piú veloce che gli anni. Quelli nato della serocchia e del suo avolo, lo quale nuovamente era nascosto nell’àlbore, e nuovamente era nato, aguale era bellissimo fanciullo; già è fatto uomo; già è piue bello di se medesimo; già piace alla dia Venus, e vendica gli fuochi della madre.27

È sempre lo stesso tema della fuga del tempo “consumatore”, ma in questo caso si riferisce alla miracolosa crescita di Adone, divenuto in brevissimo tempo un «bellissimo fanciullo», di cui si innamora la dea Venere.

A sorpresa, dunque, il giovane Leonardo ferma la sua attenzione di lettore sul mito di Adone. Perché? Come molte favole antiche, è il racconto di un amore illegittimo. Adone era il frutto dell’incesto fra Mirra e suo padre Cinira, che sarebbero dunque non solo la madre e il padre del fanciullo, ma anche la sua «serocchia» (sorella) e il suo «avolo» (nonno). Fu Mirra (su irrefrenabile impulso di Venere) a innamorarsi del padre, riuscendo a ingannarlo e a giacere con lui fingendo un’altra identità. Scoperta dopo il delitto, sarebbe stata salvata da Venere che la trasformò in albero (quello di Mirra, appunto), dalla cui corteccia nacque miracolosamente Adone.28

Non è il solo mito di nascita illegittima che percorre la vita di Leonardo. Da giovane aveva dipinto una testa di Medusa, effettivamente documentata nella collezione di Cosimo I de’ Medici come «una testa di megera con mirabili et rari agruppamenti di serpi» (Anonimo Gaddiano), e «una testa d’una Medusa, con una acconciatura in capo con uno aggruppamento di serpe, la piú strana e stravagante invenzione che si possa immaginare mai» (Vasari); un’invenzione simile a quella con cui (secondo il racconto di Vasari) aveva spaventato ser Piero da Vinci, dipingendo su una rotella portatagli dal notaio un drago mostruoso, ricavato dall’unione delle parti di molti insetti e animali, «lucertole, ramarri, grilli, farfalle, locuste, nottole», e mostrato a ser Piero con un sapiente gioco di luci che faceva apparire l’animale vivo e pronto a balzare fuori dall’oscurità.

Ma la Medusa era un personaggio importante del mito di Perseo, l’eroe che affrontò il mostro capace di pietrificare chiunque lo guardasse, armato di un corredo magico che gli avrebbe permesso di vincere: lo scudo levigato a specchio in cui guardare Medusa, un falcetto di diamante, l’elmo dell’invisibilità e i sandali alati. Un Perseo volante è forse la figura virile nuda slanciata come in volo che (accanto a una piccola testa eroica e preceduta dalla frase «Io Morando d’Antonio sono chontento») compare sopra un abbozzo di paesaggio di rocce e fiume con un ponte al verso del primo paesaggio datato di Leonardo, la vista della valle dell’Arno dalle colline di Vinci «Dí di santa Maria della neve addí 5 d’aghosto 1473».29

Perseo, a sua volta, ci porta al mito di sua madre, Danae. La donna era stata reclusa in una torre inaccessibile dal padre Acrisio, re di Argo, terrorizzato da un oracolo che gli aveva predetto la morte per mano del futuro figlio di Danae: vana precauzione, perché il solito Giove, trasformatosi in una pioggia d’oro, riuscí a penetrare nella torre e a fecondare Danae, che partorí Perseo. Madre e figlio scamparono anche dall’ira di Acrisio che li aveva chiusi in una cassa alla deriva nel mare. Approdati nell’isola di Serifo, Perseo trovò un nuovo padre adottivo, e, dopo le imprese della Medusa e della liberazione di Andromeda, tornò finalmente con Danae e Andromeda ad Argo. Aveva perdonato il nonno Acrisio, fuggito intanto a Larissa, ma senza volerlo lo uccise durante una gara di lancio del disco. La stessa storia che Leonardo farà rappresentare a Milano nel gennaio 1496, nel palazzo di Gianfrancesco Sanseverino, sulla base di un libretto del cortigiano sforzesco Baldassarre Taccone (con la variante del lieto fine in cui Giove salva subito Danae, trasformandola in stella, e perdona Acrisio, interpretato dall’amico Gian Cristoforo Romano).30

E, ancora, il mito di Leda: anche lei sedotta da Giove tramutatosi in cigno, e madre di quattro bambini che nascono da due grandi uova, da una parte i Dioscuri Castore e Polluce, dall’altra Elena e Clitemnestra.31 Verso il 1505 Leonardo ne concepí la visione di uno scultoreo nudo femminile (prima inginocchiato, poi in piedi, chiaramente influenzato da una copia antica della Venere di Cnido) abbracciato al corpo sinuoso del cigno, simbolo di eros e di maternità. Nello stesso periodo l’immagine del cigno si sovrapponeva con quella della prima macchina volante che avrebbe dovuto lanciarsi nel vuoto, verso Firenze, dall’alto del Monte Ceceri, come si legge in margine al celebre Codice del Volo degli Uccelli: «Del monte che tiene il nome del grande uccello piglierà il volo il famoso uccello ch’empierà il mondo di sua gran fama»; «Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magno Cecero, e empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture, e groria eterna al nido dove nacque».32

In quell’ossessionante osservazione del volo degli uccelli, un uccello dominava in realtà su tutti gli altri: il nibbio, il piccolo rapace dalla grande coda caratterizzato dal volo planare in cerchi ampi e lenti, protagonista della «prima ricordatione» dell’infanzia di Leonardo (che tanto affascinò Freud):

Questo scriver sí distintamente del nibio par che sia mio destino perché ne la prima ricordatione della mia infantia e’ mi parea che essendo io in culla che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocha cholla sua coda e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra.33

Su due fogli contemporanei, in scrittura regolare da sinistra a destra, Leonardo registrò freddamente la morte di ser Piero da Vinci. Sul primo omise ogni indicazione di parentela: «Mercoledí a ore 7 morí ser Piero da Vinci a dí 9 di luglio 1504 / Mercoledí vicino alle 7 ore»; sul secondo, solo alla fine del primo periodo, e prima del conto dei figli legittimi ed eredi, aggiunse la nota «mio padre»: «Addí 9 di luglio 1504 in mercoledí a ore 7 morí ser Piero da Vinci notaio al palagio del Podestà. Mio padre, a ore 7. Era d’età d’anni 80. Lasciò 10 figlioli maschi e 2 femmine».34

La «prima ricordatione» appare dunque essere non un vero ricordo infantile ma la proiezione fantastica di un momento drammatico, coincidente con la morte di ser Piero, ed espresso in una forma enigmatica che si avvicina al discorso profetico o al racconto onirico. E infatti, tra i libri di Leonardo, c’era anche un libro di interpretazione dei sogni, registrato nell’elenco del Codice di Madrid II come «sogni di Daniello», volgarizzamento di un testo mediolatino di interpretazione dei sogni, il Somniale Danielis, stampato a Firenze intorno al 1492-1496 col titolo E sogni di Daniel profeta. Vi si legge con precisione cosa significa sognare un nibbio: «Nebio vedere significa morte de toi parenti». Il nibbio che sembra perseguitare Leonardo è un simbolo di morte (e non proiezione positiva e rassicurante dell’immagine materna, come proponeva Freud). Anche nel bestiario del Codice H il nibbio era associato al vizio dell’invidia, che lo spingeva a beccare i propri figlioli nelle costole e a lasciarli senza mangiare.35

Chi era il padre di Leonardo? I documenti antichi non sembrano lasciare dubbi. La sua nascita (con il successivo battesimo) era registrata da Antonio da Vinci alla fine di un protocollo notarile di famiglia in cui aveva già annotato le nascite dei suoi figli: «1452. Nacque un mio nipote figliuolo di ser Piero mio figliuolo a dí 15 aprile in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo». Il nome della madre e la condizione di «non legiptimo» compaiono invece nella sua portata del catasto nel 1457: «Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui et della Chaterina che al presente è donna d’Achattabriga di Piero del Vaccha da Vinci, d’anni 5». Il giovane non fu mai legittimato dal padre, che intanto si era sposato e risposato piú volte, con Albiera Amadori († 1464), Francesca Manfredini († 1473), Margherita di Guglielmo († 1486) e Lucrezia Cortigiani (con numerosa figliolanza, legittima, dalle ultime due mogli, sei figli ciascuna). Una condizione non facile, nella Firenze dell’epoca, e che avrebbe potuto creargli imbarazzo anche solo nel portare il nome della famiglia da Vinci. Nei documenti fiorentini fino al 1481 Leonardo è sempre indicato come «Lionardo di ser Piero da Vinci», ma poi, a Milano, diventa «Lionardo da Vinci» (cosí si firma nel contratto della Vergine delle Rocce nel 1483), «Leonardus Florentinus», «Magistro Leonardo Fiorentino», «Leonardus de Fiorentia», «Leonardo de Venci».

Nell’infanzia a Vinci Leonardo aveva avuto effettivamente molte “madri” che si erano prese cura di lui (la madre naturale Caterina, il cui nome ricompare nel 1493-1494, indizio del fatto che la vecchia madre, vedova e senza altri mezzi di sussistenza, avrebbe raggiunto il figlio a Milano, e lí sarebbe morta, come suggerisce la lista di spese per la «sotterratura di Caterina»;36 la nonna Lucia; Albiera prima moglie di Piero), ma anche molti “padri” (ser Piero, lo zio Francesco, e anche il nonno Antonio).

Tanta confusione continuerà anche oltre la sua morte, quando qualcuno comincerà a raccogliere informazioni sulla sua vita. L’Anonimo Gaddiano (che dovette rivolgersi a qualcuno della famiglia, a qualche fratellastro di Leonardo che gli mostrò l’originale del testamento e gli raccontò che non aveva trovato tutti i soldi che dovevano esserci sul conto corrente di Santa Maria Nuova) comincia in un modo ben strano: «Lionardo da Vinci cittadino fiorentino, quantunche fussi legittimo figluolo di ser Piero da Vinci, era per madre nato di bon sangue». Ma non s’era detto (e lo confermano tutti i documenti) che era illegittimo? Di solito, prima di fussi, gli editori moderni inseriscono ‹non›, ipotizzando una lacuna involontaria del copista.

Ancora piú strana la prima redazione della vita di Vasari, nell’edizione torrentiniana del 1550:

Lionardo nipote di ser Piero da Vinci, che veramente bonissimo zio e parente gli fu nell’aiutarlo in giovanezza. […] Acconciossi per via di ser Piero suo zio nella sua fanciullezza all’arte con Andrea del Verrocchio […]. Dicesi che ser Piero da Vinci zio di Leonardo essendo in villa […]. Finita questa opera, che piú non era ricerca nè dal villano nè dal zio.

Nella giuntina del 1568 Vasari cambiò sempre nipote in figliuolo, e zio in padre. Ma perché nel 1550 aveva sistematicamente parlato di nipote e zio? Aveva fatto confusione fra Piero e Francesco? Aveva raccolto qualche antica testimonianza fiorentina, risalente ai fratellastri che non avevano molto piacere nel ricordare quel congiunto illegittimo e irregolare (pure macchiato nel 1476 da un’accusa e da un processo per sodomia), e perfino in odore di eresia («fece nell’animo un concetto sí eretico, che e’ non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai piú lo esser filosofo, che cristiano», dice Vasari nel 1550)?

Nel primo libro della sua vita, le Metamorfosi di Ovidio, il giovane Leonardo aveva tante volte trovato se stesso nei miti che leggeva. Era nato e rinato in forme favolose, immaginando di essere figlio di un dio che si era congiunto di nascosto con fanciulle bellissime (Danae, Leda), e di essere un eroe (Perseo) che aveva vinto creature terrificanti (la Medusa e il mostro marino guardiano di Andromeda), e vendicato i torti subiti dalla madre (Danae), uccidendo i suoi importuni pretendenti e infine anche il nonno (Acrisio), colpevole di aver perseguitato la madre.

Solo una volta cita invece il mito di Adone, sul verso del foglio in cui aveva trascritto i brani ovidiani del discorso di Aiace, della fuga del tempo e della vecchiezza di Elena, accanto alle altre citazioni da Pulci e Petrarca sul tema della forza incontrastabile del tempo e dell’amore, e a un abbozzo di lettera in cui chiede informazioni su una Caterina (la madre?); e il foglio presentava anche quel sonetto con cui qualcuno gli chiedeva perdono di una colpa oscura.

Per un breve momento Leonardo si identificò in quel «bellissimo fanciullo» (Adone) che scaturiva miracolosamente dalla corteccia di un albero, frutto dell’incesto tra un padre (Cinira) e sua figlia (Mirra). Nella sua immaginazione si confondevano le carte di quel gioco di tarocchi che era la sua vita, rivelando come in un sogno le figure di una storia inconfessabile: una madre che sarebbe stata una sorella (illegittima: la Caterina), un nonno-padre (Antonio), e uno zio-fratello (Piero) che avrebbe dovuto fingere per sempre di essergli padre.