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Dall’espressione frustrata di suo padre Marc capì che l’aveva previsto. Per questo aveva tentato di zittirlo a ogni costo: sapeva che un attacco diretto non avrebbe portato a nulla. Si erano bruciati ogni possibilità, davanti al re in persona.

Sentì il gelo lungo la schiena. Se Sigert de Morlhon usciva indenne da quella faccenda, la rovina si sarebbe abbattuta sui Ponthieu perché Morlhon avrebbe fatto di tutto per vendicarsi e sbarazzarsi di chi sapeva il suo segreto. Forse il peggio non sarebbe accaduto subito, poiché il re avrebbe mostrato clemenza verso chi l’aveva salvato dal destriero imbizzarrito, ma Morlhon non avrebbe certo esitato a esercitare la sua influenza contro l’accusatore e i suoi parenti: il Falco, forse Michel e il conte Guillaume, di sicuro Alex. Adesso doveva soltanto escogitare un complotto diverso per fare piazza pulita.

Marc non volle nemmeno immaginarsi che cosa il futuro potesse riservare ai suoi cari. Sapeva soltanto che era colpa sua.

Inspirò per sopportare quel pugno nello stomaco e infine aprì bocca. Non gli restava altra scelta. «Sire, se non volete credermi, allora io invoco il giudizio di Dio sulle mie parole» dichiarò. «Se ho sbagliato, ne accetterò le conseguenze.»

Era l’unico modo: attirare ogni responsabilità su di sé soltanto, distogliendola dai suoi familiari. La legge degli uomini e della Chiesa non permetteva che la colpa di chi si sottoponeva al giudizio ricadesse su altri.

Se il Signore lo avesse ritenuto degno della sua benevolenza, lo avrebbe aiutato a dimostrare la verità anche senza prove; in caso contrario, si sarebbe preso la sua vita, punendolo così della sua presunzione. In un modo o nell’altro però, al resto della famiglia e ad Alex sarebbe stato risparmiato il disonore e forse tutti loro sarebbero stati in salvo. Se lui avesse fallito la prova, forse il conte di Morlhon, scagionato pubblicamente, avrebbe rinunciato a prendersi altra vendetta contro i rimanenti familiari.

Forse.

«No!» si oppose il Falco e stavolta nemmeno il conte Guillaume poté trattenerlo o convincerlo alla calma. Andò a mettersi tra Marc e il conte di Morlhon. «Non ci sarà nessun giudizio.»

«Sì, invece» insisté Marc.

Suo padre si voltò verso di lui. «A tal punto vuoi disubbidirmi!» ruggì.

Marc capì di aver alla fine oltrepassato il limite di ciò che suo padre era disposto a perdonargli. Deglutì, eppure ripeté: «Io invoco il giudizio di Dio».

«Te lo proibisco» ordinò il Falco, ma Marc non arretrò.

«Accetto il giudizio» disse invece Sigert de Morlhon.

La folla rumoreggiò. Persino re Luigi si voltò a guardare Morlhon e questi sostenne il suo sguardo con la massima decisione. «Il mio nome è stato infangato, benché da fantasie senza fondamento. Adesso pretendo che venga lavata via ogni onta e, se il ragazzo non ritratta, sarà la mano del Signore a restaurare il mio onore.»

Il Falco fece un passo avanti. «Allora prenderò io il posto di mio figlio.»

«No!» esclamò Marc.

«No» disse in contemporanea Morlhon. «Mi sottoporrò al giudizio di Dio poiché non ho nulla da nascondere, ma accetterò soltanto il ragazzo come mio avversario. Non è una fanciulla inerme: non ha bisogno di un campione che lo difenda.»

«Ma non è un cavaliere.»

Marc ebbe un fremito, perché nella foga di trovare una soluzione non aveva pensato che la sua condizione di scudiero potesse diventare un ostacolo. Pregò con tutte le forze che suo padre non venisse accettato a sostenere il giudizio, a rischiare la vita al posto suo.

«Ha l’età per diventarlo ed è stato addestrato per questo» ribatté il conte di Morlhon.

«Monsieur Jean, vostro figlio ha invocato il giudizio e dovrà assumersene la responsabilità» intervenne il re, severo.

«Se ha detto la verità, non ha nulla da temere poiché avrà la benedizione del cielo a proteggerlo» aggiunse Morlhon con sfida.

Marc vide suo padre tacere e capì che era stato messo con le spalle al muro. Aveva una tale collera negli occhi da farlo rabbrividire. Vedi che cosa hai fatto!, lo accusò con lo sguardo e Marc capì che quel contrasto di volontà tracciava un solco profondo, forse insanabile, tra lui e il genitore.

«Non puoi opporti» disse il conte Guillaume al fratello. «Devi pensare agli altri tuoi figli» aggiunse a bassa voce.

Marc riuscì a udirlo e capì che lo zio aveva fatto il suo stesso ragionamento. Il capo dei Ponthieu stava consigliando al fratello di rassegnarsi per la salvezza del resto della famiglia.

Il Falco non cedette subito. Fissava Marc, ma non gli disse più una parola. Si voltò invece verso il conte di Grandpré e l’altro cavaliere gli rispose con un cenno del capo che lo invitava ad accettare l’inevitabile. Ormai non c’era più altro da fare.

Impotente, furioso, il Falco si scostò da Marc. «Allora, Henri, fa’ ciò che devi. Qui. Adesso» esortò e si allontanò anche dal conte di Grandpré, da tutti, come se non volesse avere parte in ciò che stava per accadere.

Il conte di Grandpré avanzò, sguainando la spada, e si vedeva che anche lui era amareggiato. Forse, pensò Marc, perché riteneva di aver fallito come maestro, visto che il suo allievo e scudiero si era dimostrato tanto riprovevole.

«In ginocchio» ordinò il cavaliere, secco.

Marc obbedì e chinò il capo. Il suo tutore gli mostrò la lama. «Su questa spada tu giuri di onorare Dio, la religione e la cavalleria?»

«Sì, mio signore» rispose Marc e si accorse che la sua voce era incrinata.

Era tutto sbagliato: né suo padre né il suo tutore volevano vederlo cavaliere, eppure gli stavano concedendo l’investitura perché potesse sostenere il giudizio che aveva preteso. Aveva forzato la mano a entrambi e ora temeva che non l’avrebbero mai perdonato.

Non era così che avrebbe voluto diventare cavaliere… Non a quel prezzo, deludendo tutti.

«Allora possa il Signore sorreggerti e indicarti la via» disse il conte di Grandpré e spostò la spada nell’altra mano per avere la destra libera e impartire al novizio la collata, l’ultima offesa che un cavaliere poteva ricevere invendicata.

Marc subì lo schiaffo sulla nuca e chiuse gli occhi, ma non per il colpo che fu comunque duro, piuttosto per la vergogna che gli provocò l’idea di ottenere il titolo di cavaliere in quel modo. Gli sembrò di averlo rubato e si odiò per essere tanto indegno. Non osò rialzare la testa nemmeno quando il conte disse: «In nome di Dio, di san Michele e di san Giorgio, io ti rendo cavaliere.»

Nessuna manifestazione di gioia seguì quell’annuncio, ma solo un profondo silenzio.

«E adesso, che il Signore ti aiuti» aggiunse il conte di Grandpré, a bassa voce. Questa volta Marc lo guardò, appellandosi a chi l’aveva guidato in tanti anni, ma nel suo tutore trovò rammarico, dolore e nessun conforto. Il conte ripose la spada e si fece da parte.

Marc dovette rialzarsi in piedi. Era cavaliere, ma mai come in quel momento si sentì solo, con un muro a dividerlo dal suo tutore e soprattutto da suo padre, che rimaneva lontano senza proferire parola, con i pugni serrati, lo sguardo furente.

I presenti sbirciarono il Falco, come aspettandosi che dicesse qualcosa, ma il cavaliere tacque. Anche Alex era in silenzio timoroso. Michel, dal canto suo, non aveva osato accorciare le distanze, per rimanere al fianco di Laurent e dei conti di Bar e di Sancerre.

«Il cavaliere Marc de Ponthieu affronterà il giudizio di Dio» annunciò Henri de Grandpré al re e ai presenti.

«Io, Sigert de Morlhon, affronterò il giudizio di Dio» replicò l’uomo freddamente.

«Così sia. Il confronto avrà luogo domani mattina all’alba» stabilì Luigi IX. «E che il cielo abbia pietà delle vostre anime, se avete peccato.»

Marc non disse niente. Il conte di Morlhon fece per replicare, ma Luigi IX lo zittì e lo mantenne a distanza con un’occhiata severa. Tutti capirono che il re di Francia non si sarebbe lasciato avvicinare da chi aveva sul capo l’ombra di un giudizio, finché la sentenza avesse avuto luogo. Nemmeno se si trattava di un futuro membro della sua stessa famiglia. Morlhon dovette retrocedere e sottomettersi alla volontà del sovrano.

Luigi IX si allontanò senza più voltarsi indietro, scortato dai cavalieri del suo seguito. «Fate sparire ogni traccia di questo scempio!» lo sentirono ordinare, mentre passava accanto alla carcassa sanguinante del suo destriero. Sigert de Morlhon se ne andò subito dopo, non senza aver gettato un’ultima occhiata feroce al suo accusatore. I cavalieri si dispersero, mormorando, per andare a rassicurare le dame o i parenti che avevano assistito alla lunga scena dalla tribuna.

In mezzo alla lizza rimasero Marc, la sua famiglia e gli amici. Alex guardava il Falco tormentandosi le mani. Lui era ancora a distanza da tutti, e la sua immobilità faceva molta più paura di qualsiasi manifestazione aperta di collera. I suoi compagni lo sbirciavano in un silenzio che nessuno osava spezzare per primo.

Per Marc però, quel silenzio era un coltello nella carne. «Padre…» tentò, ma il Falco non lo lasciò continuare. «Hai già detto anche troppo per oggi, non ti basta? Ora taci e va’ a ripulirti» ordinò. «Andrai a pregare in chiesa, come ci si aspetta da chi vuole essere degno di portare il titolo di cavaliere: chiedi perdono e aiuto per ciò che hai fatto e prega che ti vengano concessi entrambi.»

Marc ingoiò tutte le parole che avrebbe voluto dire. Suo padre si allontanò verso il bordo della lizza. Nessuno osò trattenerlo.

Marc si pentì di aver aperto bocca. Il conte di Sancerre ebbe compassione di lui e gli si accostò. «Jean» chiamò, sperando di far voltare l’amico, ma il Falco fece finta di non sentire e continuò per la sua strada. Sancerre lasciò ricadere la mano alzata. Sospirò. «Ragazzo mio, ho visto tuo padre in quello stato solo una volta, in vent’anni che lo conosco.»

E io non l’avevo mai visto, pensò Marc con onta.

«Lasciatelo andare a fare ciò che deve. Suo padre gli ha dato un ordine» disse il conte di Ponthieu.

«Non siate drastico anche voi: ha avuto fegato, ha salvato il re» obiettò il conte di Sancerre, ma l’altro cavaliere ammonì anche lui con uno sguardo intransigente, prima di fare cenno al nipote di affrettarsi a obbedire. Marc subì anche quell’ultima vergogna senza proferire parola.

«Andiamo, Etienne, noi non abbiamo l’autorità per interferire» disse il conte di Bar ed esortò Laurent perché lo seguisse. Sancerre guardò torvo sia lui sia Grandpré che continuava a tacere, ma poi si risolse a lasciare Marc da solo, seguendo Ponthieu e i de Bar. Laurent si voltò indietro verso Marc e gli espresse la sua solidarietà con lo sguardo.

«Non avrei mai pensato di dover assistere un giorno a una scena come questa» disse il conte di Grandpré, rimasto di fronte al suo ex scudiero. La sua voce era molto amara. «Non è questo che ti ho insegnato, né per quanto riguarda l’assennatezza né per quanto riguarda l’obbedienza.»

«Mi dispiace» rispose Marc.

«Ormai non serve dirlo. Sei cavaliere e non più un bambino.»

Marc non aggiunse altro. Sì, davvero non c’era più niente da dire, niente da fare. Solo pagare le conseguenze della sua stupida avventatezza.

«Ti aspetterò per armarti, domattina. Penserò al tuo equipaggiamento per il giudizio» disse ancora il conte.

«Grazie» rispose Marc.

Grandpré si rivolse ad Alex. «Venite, madame. Dovete venire anche voi.»

Lei andò prima da Marc. Era pallidissima, spaventata. «Provo io a parlare a tuo padre» gli disse.

Marc gliene fu grato, ma scosse la testa. «Non ti preoccupare per me. Pensa a stare bene.»

Il conte di Grandpré richiamò la ragazza da lontano. Alex indietreggiò, sempre guardando Marc, poi però si voltò e oltrepassò il conte per correre nella direzione in cui era andato il Falco.

Rimase per ultimo Michel. Strinse la spalla del fratello con la mano, ma Marc si sottrasse subito. «Non merito la tua compassione. Lasciami andare per la mia strada. Non devi fare niente per me.»

«Posso parlare anch’io a nostro padre. È arrabbiato, ma si calmerà, vedrai» rispose Michel, ma si vedeva che era spaventato a morte da quanto era accaduto. «Sono sicuro che ti perdonerà.»

«Questa volta no» replicò Marc. «E ne ha tutte le ragioni. Sono andato contro tutto ciò che lui mi ha insegnato e l’ho fatto consapevolmente, in pubblico. Ho messo in pericolo la nostra famiglia e me stesso e per cosa? Credevo di poter assicurare un assassino alla giustizia e invece lui mi ha superato in astuzia, rendendomi ridicolo. Come unica speranza, mi è rimasto il giudizio di Dio, ma per poterlo affrontare ho dovuto estorcere il titolo di cavaliere nel più vergognoso dei modi.»

«Tu non hai estorto niente. Sono anni che ti addestri: il titolo di cavaliere ti spettava.»

«No. Non so comportarmi da vero cavaliere, semplicemente non ne sono all’altezza: devo rassegnarmi all’idea. Quello che è accaduto oggi l’ha dimostrato a tutti. Non merito né il titolo né il perdono di nostro padre.»

Michel rimase in silenzio. Marc indugiò ancora a guardare la lizza e i servi corsi a rimuovere il cadavere di Neige, poi raddrizzò le spalle per affrontare come meglio poteva il futuro che lui stesso si era tracciato davanti. Si passò la mano sul petto dolorante, ma dentro gli faceva molto più male il ricordo di suo padre che si allontanava senza voltarsi indietro. «Giurami che tu non lo deluderai mai come ho fatto io» pretese a bassa voce.

Michel annuì in silenzio. Marc si allontanò.

Alex individuò Ian anche nel movimento concitato che si era creato tra la tribuna e la lizza: non andava dalla moglie e scacciava i servi e le guardie che gli andavano incontro. Stava cercando un luogo dove stare da solo e calmarsi, capì Alex. Lo seguì e lo trovò dietro la tribuna, in un angolo ancora isolato. Era immobile, con le mani appoggiate contro la struttura di legno, eppure sembrava una tigre in gabbia.

Alex esitò un attimo, ma poi raccolse il coraggio e si fece avanti.

«Non è il momento» ammonì Ian, senza nemmeno voltarsi, ma lei non si lasciò scoraggiare. «Cos’è il giudizio di Dio? Che vuole fare Marc?»

Ian non si staccò dal muro e non si voltò. «Un duello. All’ultimo sangue. Chi vince è innocente e vive. Chi perde è colpevole e muore.»

Alex raggelò. «Non possono determinare la colpevolezza di un uomo in questo modo.»

«È un mondo diverso, questo. Qui la maggioranza degli uomini crede all’intervento divino in questo genere di confronti. È stato insegnato loro che la Provvidenza non lascerà mai indifeso un innocente. È ciò in cui spera anche Marc.»

«Ma allora perché il conte di Morlhon ha accettato di…»

«Quell’uomo era già cavaliere prima che Marc avesse l’età di brandire una spada. Credi che abbia paura di affrontare in duello un ragazzo inesperto? Che, avendo progettato di assassinare il re, creda alla superstizione popolare e tema il giudizio di Dio?»

Alex tacque.

«Quel bastardo non mi ha voluto come avversario. Non ha voluto rischiare con qualcuno che poteva stargli alla pari.» Ian strinse i pugni sulla parete di legno. «Non saremmo arrivati a questo, se solo avessimo potuto indagare. Se mi avesse lasciato il tempo di fare qualcosa, di trovare prove. Adesso è troppo tardi.»

«Ma con tutto quello che è successo, Marc non aveva scelta» obiettò Alex.

«Non è vero» scattò Ian e si voltò. «Poteva starsene zitto! Poteva dire che aveva visto Neige diventare nervoso, che gli sembrava troppo suscettibile, qualsiasi cosa per insospettire il re, ma non accusare il conte di Morlhon senza prima assicurarsi le prove. Aveva salvato il re, non gli bastava? Morlhon non avrebbe ritentato l’assassinio subito: avevamo tutto il tempo per incastrarlo.»

«Pensavamo che le prove fossero a portata di mano…»

«E secondo voi uno che ha progettato di uccidere il re di Francia sotto il naso di tutti, non ha pensato anche a far sparire subito ogni indizio sul luogo del misfatto? Si è volatilizzato da Clois eludendo le ricerche serrate di cavalieri esperti e credevate che si sarebbe lasciato sorprendere da due ragazzini con l’arma del delitto in mano?»

Alex si morse le labbra.

«Quello aveva già preso tutte le sue precauzioni e di sicuro le ha raddoppiate, sapendo che Marc era a guardare il torneo. Possibile che non ci abbiate pensato, razza di incoscienti?»

«Mi dispiace» mormorò Alex.

Ian tacque a lungo, guardò altrove. «Adesso è troppo tardi» ripeté e la sua voce tremò, non più solo per la collera.

Alex avanzò ancora. «Ma perché sei così spaventato? Non può accadere nulla a Marc. Nessun altro lo sa, ma tu sì. Tu conosci il futuro dei tuoi figli, li hai visti entrambi cavalieri.»

«Marc è appena diventato cavaliere!» esclamò Ian. «E questa era l’ultima cosa che sapevo di lui! Da adesso in poi, può accadergli qualsiasi cosa.»

Alex si sentì mancare il fiato a quell’idea cui non aveva pensato. Ian fece un lungo respiro e si passò le mani sul viso. «È diventato cavaliere oggi e domani potrei perderlo» mormorò.

Alex rabbrividì. Ed è tutta colpa mia: l’ho coinvolto io in questa storia.

«Come dirò a Isabeau che nostro figlio rischia di morire domani?» si domandò Ian a mezza voce.

Alex non seppe cosa rispondergli.