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La cotta di maglia era pesante. Marc non poté fare a meno di muovere le spalle con disagio, cercando di aggiustare quel fardello mentre Michel finiva di allacciarglielo addosso, ma non ne ricavò alcun sollievo. Sospirò. Aveva sognato mille volte di indossare l’usbergo da cavaliere e adesso si sentiva scomodissimo, forse perché nello stomaco aveva un peso ghiacciato.

Nel padiglione bianco e azzurro del Falco del Re erano presenti in pochi, per non disturbare il neo cavaliere che andava a sottoporsi al giudizio di Dio: c’erano suo padre, Michel e il conte di Grandpré, intenti in silenzio alla vestizione. Alex sedeva in un angolo in disparte, per non essere d’intralcio, e nemmeno lei parlava, col volto bianco e gli occhi gonfi dopo una notte insonne. Marc la guardò per darle e ottenerne incoraggiamento, ma riuscì solo a fare un sorriso tirato, che lei non ricambiò. Si stringeva le mani una nell’altra.

Michel terminò di allacciare l’usbergo e si fece indietro. Il conte di Grandpré osservò Marc con aria critica, girandogli intorno. «Bene, direi che sei a posto, nonostante questo usbergo non sia stato forgiato per te. È una fortuna che per ora tu abbia più o meno la mia stessa statura e che qui ci siano buoni fabbri: non c’è voluto molto per adattare la maglia al tuo fisico. Ti proteggerà a dovere.»

Marc alzò le braccia ricoperte di ferro per osservarle, ma non riuscì a sentirsi confortato. Il peso nello stomaco diventava sempre più gelido.

«Hai fatto un buon lavoro, Henri. Ti ringrazio di aver provveduto a tutto così in fretta» disse il Falco.

«Il resto, l’ho lasciato a te» replicò il conte e si spostò per fargli spazio.

Marc vide che suo padre aveva preso una cotta d’armi bianca e azzurra per fargliela indossare. Trattenne il fiato quando la cotta venne aperta e mostrò il falco d’argento ricamato sul petto.

«È una delle mie» confermò il Falco, intuendo la sua domanda silenziosa. «Non c’era tempo per cucirne una con il tuo blasone.»

Marc vestì la cotta sull’usbergo con reverenza.

«Però abbiamo potuto aggiungere il lambello qui» continuò suo padre e gli mostrò lo scudo con lo stemma di famiglia sul quale, durante la notte, era stato dipinto il simbolo rosso dentellato.

«Il vostro scudo…» mormorò Marc, riconoscendo i graffi sul metallo vissuto, ricordo di innumerevoli tornei.

«E la mia spada da battaglia» aggiunse il Falco, tendendo l’arma a Michel perché il ragazzo l’allacciasse al fianco del fratello.

«Non merito tanto onore» disse Marc.

«Non è un regalo, ma un prestito. Me la restituirai quando tornerai dal giudizio» rispose suo padre. Marc annuì solennemente. Michel terminò di vestirlo infilandogli in cintura il lungo pugnale chiamato Misericordia. «Questo invece è mio. Anch’io lo rivoglio indietro quando ritornerai vincitore» disse.

Marc ne sfiorò l’impugnatura con la mano ancora senza guanto e riconobbe sotto le dita i due piccoli falchi intarsiati che un giorno avrebbero distinto il blasone del secondogenito da quello del fratello maggiore. Michel era così fiero di quel pugnale che gli era stato regalato per il suo tredicesimo compleanno: da allora lo sfoggiava sempre in cintura nelle occasioni solenni.

Marc fu infinitamente grato a suo fratello, a suo padre e al suo ex tutore perché ciascuno di loro aveva voluto dargli qualcosa per affrontare il giudizio e gli sembrò che tutti e tre volessero dargli la loro forza e il loro coraggio insieme all’equipaggiamento.

Non doveva deludere le loro speranze. Doveva vincere, per tutti loro. Con l’aiuto del Signore, forse ce l’avrebbe fatta. Se lo ripeté mille volte, cercando di ricavarne maggiore determinazione. Indossò i guanti e Michel si assicurò per l’ennesima volta di avergli aggiustato addosso l’usbergo.

«Ecco, abbiamo finito» disse il Falco. Nessun altro parlò e la tensione si fece palpabile dentro al padiglione.

«È il momento di andare» esortò alla fine il conte di Grandpré. «Sei pronto?»

Marc annuì, benché sentisse il gelo estendersi anche nelle viscere. «Prontissimo.»

«Vuoi bere qualcosa prima di scendere in lizza?»

«Non ho sete. Non ho bisogno di niente.» Il suo unico cibo quella mattina era stata l’ostia dell’Eucaristia, eppure Marc sentiva lo stomaco così chiuso che non sarebbe riuscito a mandare giù altro, nemmeno un sorso d’acqua.

«Allora, andiamo» concluse il conte e uscì dal padiglione per primo. Il Falco indugiò ancora un istante come se volesse dire qualcosa, ma rinunciò. La sua espressione era già più eloquente di qualsiasi discorso. Michel lo seguì fuori portando l’elmo e lo scudo.

Marc rimase momentaneamente solo con Alex. «Anch’io voglio darti una cosa» gli disse lei, alzandosi in piedi di scatto. Si sciolse uno dei nastri azzurri che aveva nei capelli e glielo legò intorno al polso destro. «Elodie ha portato fortuna così a Laurent, quando lui ha fatto il suo primo torneo. Io spero di poter fare altrettanto con te» disse tutto d’un fiato.

Marc vide che le tremavano le dita così tanto da faticare a stringere il nodo. Non rifletté nemmeno un attimo: le prese la nuca nella mano e la tirò a sé, baciandola, impadronendosi della sua bocca. Con l’altra mano la strinse al petto così forte da temere di spezzarla in due contro l’usbergo, ma in quel momento aveva un bisogno lancinante di tenerla tra le braccia e non riuscì a controllarsi. Ora che forse c’era la morte ad attenderlo fuori dal padiglione, voleva portare con sé il calore della ragazza, il suo sapore e il suo respiro fino all’ultimo istante.

Quando le loro labbra si separarono, lei era senza fiato e lui aveva il cuore in gola. «Tornerò da te» promise, cercando di convincere prima di tutti se stesso. «Dopo, nessuno ci separerà più.»

Alex sembrava così agitata da non riuscire a rispondergli. Marc si sentì strappare in due al pensiero che forse non l’avrebbe più rivista. Accarezzò il nastro di seta legato al polso, poi uscì dal padiglione per andare incontro al suo destino.

Il cielo che schiariva era grigio e sembrava promettere nuova pioggia. Il sole non riusciva a sbucare dalla coltre uniforme di nuvole fredde.

La gente si accalcava già intorno alla lizza, ma l’atmosfera era molto diversa da quella dei giorni precedenti. Non c’era più il vociare allegro e concitato del pubblico che acclamava i cavalieri. Ora tutti parlavano a bassa voce, tesi e preoccupati. Molte donne si facevano il segno della croce pensando al piccolo Falco, il figlio di quel campione che tutti amavano ad Auxi, al ragazzo che andava ad affrontare così giovane il giudizio di Dio.

Alex rabbrividì, ma non per la folata di vento freddo che spazzò il panorama. Marc stava entrando da solo nella lizza e le sembrò abbandonato e indifeso contro un mondo ostile, anche se era armato da capo a piedi.

La lizza era stata cambiata per il giudizio di Dio. Durante la notte un piccolo palco coperto era stato montato in fretta e furia nel centro per ospitare lo scranno di re Luigi, il giudice supremo della contesa, colui che rappresentava la giustizia umana e divina sulla terra. Il palco era di fronte alla tribuna d’onore, e presiedeva il terreno sul quale i due sfidanti avrebbero combattuto a piedi, armati della sola spada, di uno scudo e un pugnale.

Luigi IX sedeva già al suo posto, sotto la copertura di tela e lo stendardo azzurro con i gigli d’oro tormentato dal vento capriccioso. Aveva le mani serrate sui braccioli dello scranno e la corona gli cingeva solennemente la fronte corrugata. A destra e a sinistra del re stavano due cavalieri del suo seguito, che avrebbero fatto da testimoni neutrali e sarebbero intervenuti in caso di necessità. Ai piedi del palco, il sacerdote di Auxi, padre Baptiste, sorreggeva una croce di legno scuro di almeno un metro, a testimonianza della sacralità dello scontro in procinto di iniziare.

Marc avanzò verso il palco, davanti al quale l’attendeva già il suo avversario. Il conte di Morlhon, armato e con l’elmo sottobraccio, non tradiva la minima inquietudine, solo una determinazione spietata. Ad Alex sembrò l’incarnazione della ferocia, con il suo usbergo completo, la spada potente cinta al fianco.

Morlhon aveva promesso di scannare Marc davanti al suo stesso padre e Alex sapeva che era più che mai in grado di farlo. D’impulso si accostò a Ian, che era in piedi come lei, davanti alla staccionata che divideva il campo dei cavalieri dal terreno del duello. Lui le mise per un attimo la mano sulla spalla, come aveva fatto con Marc prima di lasciarlo entrare in lizza e andare verso il combattimento. Alex lo sentì stringere forte, ma non provò conforto, perché negli occhi chiari dello zio leggeva la sua stessa angoscia. A due metri da lei, Michel osservava la scena imponendosi il contegno marziale richiesto a uno scudiero, ma pallido e muto. Il conte di Grandpré aveva incrociato le braccia sul petto.

Ian alzò lo sguardo verso la tribuna, là dove dama Isabeau era seduta accanto al conte Guillaume, alla cognata, alla nipote e a tutti gli amici che le si erano riuniti intorno. Alex riconobbe Laurent vicino a Elodie; Noelle e Nicolas tra i genitori; la piccola Béatrice stretta alla madre Angélique.

La luce nel cielo si fece più chiara. Il pubblico ammutolì poco a poco, per lasciare un silenzio così perfetto da essere inverosimile.

Marc si era fermato davanti al suo nemico e al re.

Alex sentì ogni nervo tendersi allo spasimo. Forse avrebbe visto Marc morire sotto i suoi occhi e quella consapevolezza la faceva impazzire. Avrebbe voluto correre da lui e urlare o mettersi in mezzo per impedire a ogni costo che il duello avesse luogo, ma sapeva che non sarebbe servito a niente. Eppure, doveva fare qualcosa, non poteva sopportare l’idea di perdere Marc, tanto più dopo aver scoperto che lui l’amava. Quel bacio preteso nella tenda prima di andare alla lizza non lasciava dubbi: lui l’amava e lei… anche.

Ne fu certa nel momento in cui lo vide alzarsi il camaglio sulla testa per affrontare il giudizio.

Per inverosimile che fosse, anche se si conoscevano da pochi giorni soltanto, Alex scoprì di amare Marc così tanto che il cuore le faceva male. Cosa faccio adesso? fu il pensiero irrazionale e disperato che le passò per la testa.

I due cavalieri accanto al re raggiunsero il bordo del palco e invitarono gli sfidanti a presentarsi. Marc e il conte di Morlhon annunciarono i loro nomi ad alta voce. «Dichiarate il motivo della vostra venuta a questo giudizio, perché il cielo e il mondo lo ascoltino» esortò uno dei cavalieri.

«Io, Marc de Ponthieu, dichiaro che il conte di Morlhon ha tentato di uccidere Sua Maestà re Luigi IX e con l’aiuto di Dio lo dimostrerò» disse Marc senza esitare e un mormorio passò tra il pubblico.

«Io, Sigert de Morlhon, dichiaro che quest’uomo mente sapendo di mentire e con l’aiuto di Dio lo dimostrerò» rispose Morlhon con altrettanta durezza.

I cavalieri reali si voltarono verso il sovrano. Lui non disse parola, ma fece un cenno di assenso col capo, mentre indagava i contendenti con occhi cupi, nel chiaro intento di distinguere l’innocente dal colpevole. I due cavalieri s’inchinarono per dimostrare di accettare la sua volontà e di nuovo si rivolsero ai duellanti e al pubblico. «Abbia luogo il giudizio» disse uno di loro. «Morte sia per chi dice il falso.»

Alex deglutì a vuoto.

Padre Baptiste avanzò verso i contendenti, tenendo la croce di legno alta davanti a loro. Marc e Morlhon si segnarono. «Tremi chi ha peccato, perché la giustizia del Signore vede nei cuori» ammonì il sacerdote. «Chi tra voi due sa di aver mentito, ritratti ora e implori la misericordia del cielo, finché è in tempo.»

Né Morlhon né Marc retrocessero di un passo.

Il sacerdote fece un’espressione afflitta. «Allora, non vi sia più pietà per chi non si è pentito davanti alla santa Croce» disse e tornò verso il palco per lasciare libero il terreno del duello. I due avversari si prepararono a combattere.

Accanto al recinto, Alex sentiva il cuore scoppiare. Guardò Ian per ricavare coraggio, ma lui stava sussurrando una preghiera mentre fissava Marc. Alex poté indovinare il suo pensiero più nascosto. Ian aveva davanti l’ultima immagine che conosceva di suo figlio, quella trovata sul libro stregato: Marc, cavaliere, con lo stemma del falco sull’usbergo. Da adesso, come aveva detto il giorno prima, poteva accadere qualsiasi cosa.

Nella lizza, Marc si sistemò il camaglio e indossò l’elmo, prima di imbracciare lo scudo e sguainare la spada.

Era il momento. Vincere o morire.

Il suo stesso respiro risuonò quasi assordante all’interno dell’elmo. Era buio in quel guscio chiuso di ferro: Marc si sentì prigioniero e solo, con la paura che aumentava. Guardò la spada di suo padre e vi strinse sopra le dita. Pregò di non disonorare quell’arma comportandosi indegnamente davanti al Signore, al re e al mondo. Subito dopo, lo sguardo gli cadde sul nastro azzurro annodato intorno al polso. Per farsi coraggio, si aggrappò al calore che quel nastro gli accendeva dentro.

Anche Sigert de Morlhon aveva indossato l’elmo e preparato le armi. La sua spada nuda rifletteva la scarsa luce del giorno nato dietro le nubi, mentre il cavaliere avanzava verso il nemico. Marc lo attese fermo, in guardia.

Morlhon scattò all’attacco con la sicurezza del veterano. Le spade stridettero per l’urto violento, quando si scontrarono. Marc sentì il braccio far male e il dolore ripercuotersi nel petto, ravvivando quello dei lividi e delle vecchie ferite. Si lasciò sfuggire un’esclamazione strozzata e capì che il dolore sarebbe stato un secondo nemico contro cui combattere in quel duello, forse terribile quanto il conte, forse addirittura di più. Sigert de Morlhon era un uomo forte ed era fresco di forze. Lui invece, oltre che con l’inesperienza, doveva fare i conti con le conseguenze delle torture subite solo tre giorni prima. In quei primi istanti di lotta, realizzò di avere forse solo metà della resistenza del suo avversario. Il secondo, spietato colpo che gli si abbatté sullo scudo confermò quella certezza, come una martellata sulle costole doloranti.

Marc indietreggiò, mentre si difendeva dall’assalto serrato. Sigert de Morlhon era veloce, velocissimo: la sua spada guizzava così rapida da essere parata soltanto a stento e ogni colpo faceva male come se fosse arrivato davvero a segno. Marc si ritrovò con il respiro spezzato quasi subito e vide che Morlhon se n’era accorto. Sapeva individuare i punti deboli e trarne vantaggio: i suoi attacchi sempre più violenti miravano a fiaccare la resistenza col dolore per crearsi il varco e arrivare poi a ferire a morte.

Marc strinse i denti, parò un affondo, un fendente e un altro colpo ancora, ma l’ultimo gli piombò addosso dall’alto e lo fece vacillare. Dovette piegare il ginocchio a terra per non cadere e si protesse a stento sotto lo scudo, poi si gettò di lato per disimpegnarsi. Morlhon gli mancò di un soffio la testa. Marc riuscì a rimettersi in piedi e balzò indietro, a distanza.

Non posso stargli alla pari, capì.

Il peso dell’usbergo sembrava aumentare ogni istante di più sulle spalle e sul petto indolenzito.

Morlhon aveva interrotto il suo assalto, ma non perché dovesse riprendere fiato: stava solo studiando l’avversario. Non mostrava la benché minima fatica o difficoltà. Di certo il peso delle sue colpe non stava frenando la sua spada in quel giudizio di Dio.

Marc si spostò qualche passo di lato, raccogliendo tutta la sua determinazione. Questa volta, Morlhon lo attese a piè fermo, limitandosi a ruotare su se stesso per tenerlo sempre di fronte.

Nonostante il dolore al petto, Marc attaccò. Affondò la sua lama e trovò lo scudo del conte. Tentò di nuovo, ma fu parato dalla spada. Sigert de Morlhon lo lasciò fare, ma non stava subendo la sua aggressione, tutt’altro: la sua difesa non aveva varchi, l’uomo aspettava che l’avversario esaurisse il suo impeto e si stancasse ancora di più. Marc se ne rese conto mentre portava il suo ennesimo attacco, trovando lo scudo sotto la lama. L’urto si riverberò sulle sue stesse costole, come un colpo di mazza.

Morlhon reagì subito dopo, con ferocia. Il suo fendente piegò il braccio che Marc aveva alzato sopra la testa a sua difesa, tanto fu violento. Marc sentì il suo stesso scudo cozzare contro l’elmo, si sbilanciò e si scoprì.

Morlhon lo colpì in piena faccia con lo scudo. La botta accecò Marc per un attimo. Barcollò e cadde di schiena. Riuscì a riaprire gli occhi in tempo per vedere la punta della lama lampeggiare in alto e a spostare la testa d’istinto. La spada del conte si piantò in terra a un soffio dalla sua gola. Il pubblico lanciò un urlo unanime.

Marc calciò indietro l’avversario. Morlhon mantenne l’equilibrio, arrivò ad affondare la spada per la seconda volta, ma solo con qualche istante di ritardo e Marc lo evitò di nuovo, rotolando di lato. Si rimise in piedi, aiutandosi anche con la spada e lo scudo, e tentò di allontanarsi. Morlhon gli fu addosso prima che fosse in posizione eretta, lo colpì al dorso e la sua lama lacerò la cotta, anche se non l’usbergo. Marc annaspò a quel dolore rovente e temette quasi di perdere la spada. Vacillò ancora, si girò e sostenne l’assalto per un paio di scambi, poi però si disimpegnò e si mise fuori portata.

«Non scappare!» gli gridò Sigert de Morlhon, tagliando invano l’aria con la spada.

Marc non gli rispose, stordito, senza fiato, sentendo il sapore del sangue e del sudore sulle labbra.

Non ce la faccio. Mi ucciderà.

Il suo nemico avanzò a grandi passi per riprendere il duello. Non mostrava ancora segni di stanchezza, anzi sembrava più agguerrito man mano che il tempo passava.

Marc indietreggiò ancora. Sigert de Morlhon l’assalì come una furia, tempestandolo di colpi che non riuscì a parare del tutto. Come prima, venne buttato in ginocchio dalla violenza del nemico e l’ultimo fendente gli lacerò la spalla sinistra, prima di scendere come un maglio a strappargli lo scudo dal braccio.

Marc urlò. Sigert de Morlhon alzò la spada sopra la testa per vibrare il colpo di grazia, ma Marc ruotò sul ginocchio poggiato a terra e spinse avanti la spada alla cieca. Non colpì l’avversario, però lo costrinse a fare un balzo indietro per mettersi in salvo, impedendogli di portare a termine il suo attacco. Morlhon arretrò per rimettersi in assetto di battaglia.

Marc recuperò lo scudo e si rialzò in piedi per la terza volta, ma ora il dolore stava avendo il sopravvento sulle sue forze: ogni respiro era una tortura per il torace e gli piantava aghi invisibili nei polmoni. Marc allentò e strinse la presa sulla spada per aggiustarsela nella mano. Al contempo sentì il braccio sinistro tremare nello sforzo di reggere lo scudo. La spalla ferita bruciava e il sangue colava attraverso la maglia di ferro. L’odore acre penetrava anche sotto l’elmo.

La mente adesso era vuota di ogni pensiero tranne la paura. Marc non ricordava più niente dei lunghi anni di addestramento alla spada, delle tecniche e tattiche che il suo tutore gli aveva insegnato. Non seppe pensare a una strategia per attaccare né calcolare le mosse per difendersi; sapeva soltanto che il suo nemico era più abile e forte di lui e quella certezza non lasciava spazio ad altro. Sentendosi impotente, andò verso Morlhon poiché non aveva altra scelta.

Le spade si scontrarono di nuovo, lanciando nell’aria un clangore raccapricciante. I due duellanti si contrastarono con rabbia per un tempo infinito, ma poi fu Marc a cedere di nuovo e a piegarsi in due sotto un calcio violento nel ventre. Con una botta del proprio scudo, riuscì ad allontanare la spada che voleva trafiggerlo, poi colpì, anche se sbilanciato. Raggiunse Morlhon al petto, ma gli lacerò soltanto la cotta e non gli fece alcun danno.

Sigert de Morlhon imprecò e si scostò, ma la sua ira sembrava raddoppiata dal prolungarsi del duello. Morlhon ruotò la spada e colpì di lato: la sua arma sbatté contro il pugnale di Michel infilato nella cintura e non riuscì a ferire. Marc gemette di nuovo, sotto l’urto, ma poté mettersi in salvo. Barcollò qualche passo lontano, ormai sfinito, con il dolore che gli straziava il petto e l’addome.

Adesso anche Morlhon ansava, ma non era affatto nelle sue stesse condizioni critiche. Marc capì che il prossimo scambio di colpi sarebbe stato quello decisivo e che non era certo lui a essere in posizione favorevole.

In quel momento seppe che sarebbe morto, perché non aveva più fiato per difendersi. Il giudizio divino, nella sua imperscrutabilità, aveva deciso il verdetto.

Pur soffrendo, Marc capì che doveva accettare il volere del cielo.

Signore, se io non merito di vivere, proteggi almeno i miei cari perché non paghino le mie colpe, pregò e, raddrizzando le spalle a fatica, si preparò all’ultimo assalto. Stranamente, la certezza di avere la morte davanti alleviò la paura per lasciar affiorare solo una lucida consapevolezza delle forze rimaste. Marc alzò la spada davanti a sé e attese, ormai pronto ad affrontare l’inevitabile.