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Quando avrà terminato

e compiuto il suo lavoro,
prezzemolo, salvia, rosmarino e timo,
chiedetegli di tornare per la sua camicia di tela, e allora lui sarà per me il vero amore.

(Ballata celtica)
 

Una voce si sovrappose a quelle di Riccardo e del Lupo. Pareva che nel bosco ci fosse qualcun altro che ascoltasse con calma i loro discorsi, aspettando il momento buono per inserirsi nella loro conversazione.

«La chiesa. Era una meraviglia, la nostra chiesa. Non avrei mai voluto abbandonarla, ma a un certo punto sono stato costretto a farlo.»

«Chi sei?» chiese Riccardo.

«Vedi che ho ragione io?» La voce di Lupo aveva una tonalità aspra, secca quanto una porta sbattuta. «Non riconosci più le voci dei boschi del tempo, sei troppo distratto da altre cose. Dici di amare l’armonia dei luoghi, ma la tua mente è rivolta altrove. Avresti dovuto riconoscere la persona che ha appena parlato, o perlomeno capire di chi si tratta!»

«Non è il caso di usare quel tono» disse di nuovo la voce tranquilla. «Può capitare a tutti di perdersi. In fondo, i boschi sono sempre qui, per offrire una certezza nei momenti pieni di dubbi. Sono Don Piero, l’ultimo parroco della vecchia chiesa». Il tono era pacato, ma solenne. Persino Lupo si zittì, e restò ad ascoltare.

«Non credevo che un giorno sarei stato costretto ad andarmene, ma a un certo punto non ebbi più scelta.» Anche del parroco si udiva solo la voce, ma era una voce da cui Riccardo non si sentiva minacciato. «Ero convinto che la Chiesa di S. Ansano fosse il regno della pace, del silenzio. Quasi troppo. Nel senso che, con quel sentiero impervio, era davvero faticoso per i parrocchiani venire a messa. Tanto che anziani e malati seguivano le funzioni da uno spiazzo sovrastante. La guerra era dappertutto, attorno a noi, ma mai avrei potuto immaginare che accadesse ciò che poi è accaduto: due eserciti ebbero a scontrarsi nell’ultimo inverno di guerra, le loro fila ci stritolarono, e io me ne andai. Ero l’ultimo. Chissà che fine avrei fatto, se fossi rimasto? Sarei esploso assieme a una bomba sganciata da un aereo, in quello che fino a poco tempo fa era il nostro cielo? Nostro, mio e dei parrocchiani. Il nostro cielo, solcato dalle bombe.

Avrei dovuto rimanere lì, come il capitano non abbandona mai la nave che affonda. Ma chi mai avrebbe voluto una manciata di coriandoli umani al posto del parroco? Allora me ne andai, mentre gli aerei oscuravano il cielo.

Ancora pochi giorni, e la chiesa sarebbe stata rasa al suolo. La nostra bella chiesa, le cui origini risalivano all’epoca romana. Era un luogo molto importante nei primi tempi del Cristianesimo, come riportato dai documenti carolingi.

Ci fu poi un complicato sistema amministrativo, in funzione del quale la chiesa passò attorno all’anno mille sotto la giurisdizione della Chiesa bolognese. Fu in seguito donata dal vescovo di Bologna al priorato dei Padri Serviti, che ne fecero un monastero fiorente.»

Riccardo immaginava monaci medievali durante le loro attività. Avrebbe voluto dipingere scene di vita al monastero: per una volta, i suoi dipinti sarebbero stati figurativi.

I monaci durante i momenti di preghiera.

I monaci mentre erano nell’atto di preparare il pane.

I monaci nell’orto, intenti a cogliere frutti e verdure per i loro pasti.

I monaci, immersi nel silenzio delle mura del convento, a sua volta immerso nella quiete del bosco.

Il parroco proseguì il suo racconto: «Era l’inverno del 1944. La zona di Brento era rimasta improvvisamente deserta. La guerra aveva seminato morte e distruzione, e chiunque fosse sopravvissuto era fuggito. Io ero rimasto fino all’ultimo, pensando che nessuno avrebbe mai scatenato la propria ira su questo luogo, povero, dove le coltivazioni erano faticose e i frutti magri e avari. Un posto così piccolo che, spesso, non compariva nemmeno sulle carte geografiche. Il parroco voleva restare. Volevo tenere la chiesa in ordine, per accogliere i parrocchiani quando, a guerra finita, sarebbero tornati in paese. Ma c’erano i militari, gli aerei, e le bombe, che cadevano sempre più vicine. Scappai, per fare ritorno solo dopo la Liberazione, ma quando tornai la chiesa non c’era più.»

 

Riccardo, pensando alla chiesa di S. Ansano, si era distratto dalle parole di Lupo, che declamavano l’utilità del progresso.

Il partigiano raccontava di Brintum, che era stata sede di insediamenti etruschi, poi galli e infine romani. Distrutta dalle orde barbariche, riprese sviluppo e conobbe di nuovo importanza a partire dal V e VI secolo dopo Cristo.

L’attenzione di Riccardo era calamitata da un ricordo più recente. L’attuale chiesa di S. Ansano, costruita alle pendici del Monte Adone da Padre Marella, rilevando l’antica parrocchia che era stata distrutta dalla II Guerra Mondiale.

Attorno alla chiesa nacque una nuova comunità, che fece sì che pian piano la zona del Monte Adone cominciasse a ripopolarsi. Il paese aveva una nuova chiesa, e la vita ricominciava. Ma non stava ricominciando daccapo. Si iniziava da un altro momento, da un altro posto. Dal centro del paese, più comodo da raggiungere. Una nuova parrocchia, a fare da fulcro per le attività del paese, quando la chiesa precedente, che era stata lì per quasi un millennio, era stata completamente distrutta. Ancora un paio di generazioni, e chi se la sarebbe ricordata più? E come si fa a sentire veramente veri i ricordi, se manca il richiamo ai luoghi? Attorno alla vecchia chiesa, piante incolte, sentiero dissestato. Un rudere a testimoniare l’esistenza di qualcosa che era stato molto importante, ma che poi era stato spazzato via. Il rudere era seminascosto dalla vegetazione che cresceva selvaggia, coprendo ogni cosa. Anche lo spiazzo antistante la chiesa era completamente ricoperto da cespugli intricati, alberi che si soffocavano a vicenda, erbacce. Il luogo era tristemente irriconoscibile, e Riccardo ne soffriva.

La chiesa non c’era più, questo lo si poteva anche accettare. Ma che anche il luogo in cui sorgeva la chiesa fosse trasformato, deturpato, irriconoscibile era una cosa intollerabile.

Riccardo avrebbe voluto chiedere aiuto.Avrebbe voluto bonificare il terreno circostante il rudere, ricavando di nuovo l’antico spiazzo antistante la chiesa. Il terreno, una volta ripulito, avrebbe dovuto essere coltivato a prato, in modo da creare un parco con il rudere al centro. In questo modo, le rovine della chiesa sarebbero diventate una sorta di monumento, in onore della memoria a ciò che l’antica chiesa era stata.

Un parco in cui sostare, voleva dire andare volentieri a rivedere ciò che restava della chiesa, che era rimasta lì per tanti secoli, per poi venire ridotta in polvere da una guerra inutile come tutte le guerre.

Vedere voleva dire mostrare anche ai turisti, e ricordare. Ricordare i monaci dell’ordine dei Serviti, che avevano scelto di vivere all’insegna della povertà, penitenza e preghiera.

E ricordare soprattutto l’antica imponenza della chiesa che non c’era più, e quello che aveva significato per la vita di comunità del paese. La comunità che ruotava attorno alla parrocchia e alle funzioni religiose, il buon parroco che accoglieva i fedeli, riconoscendoli per nome a uno a uno.

Poi c’era stata la guerra, e tutto era diventato polvere. Ma i ricordi non erano polvere, e bisognava farli rivivere.

L’idea di Riccardo comprendeva anche la pulizia dei sentieri che conducevano ai ruderi, in modo da renderli percorribili a piedi: costituivano il collegamento con i borghi e i paesi circostanti, scorciatoie per il trekking, ma anche le strade del tempo.

Se i sentieri fossero stati riassestati e definiti, sarebbe stato bello vederli utilizzare, in modo che chiunque li attraversasse potesse provare l’emozione di calpestare la stessa terra che antenati lontani avevano calpestato.

Sarebbe bastato lasciare che il vento lieve delle giornate di sole portasse con sé i ricordi, e sarebbe stato possibile immedesimarsi in modo così intenso da poter quasi davvero vedere antichi romani percorrere la via degli Dei, quella strada che era stata chiamata così perché i sentieri, tra le montagne, in alcuni punti davano e danno l’impressione di essere sospesi attraverso il cielo, vicini alle le divinità.