Impronte di uccelli sulla neve rossa di terra (Ballata celtica)
«Riccardo, ti ho già detto che il senso di appartenenza non deve riguardare solo i luoghi, ma anche le persone. Se non sono riuscito a renderti il concetto, mi spiegherò meglio con un esempio. Tu dove vivi? Dov’è la tua casa?»
«Lupo, sai benissimo dove vivo. A circa cento metri da qui, non di più.»
«Bene. Fin qui ci siamo. Ma cosa sai dirmi della tua casa?»
«È stata costruita dopo la guerra, sullo stesso terreno dove c’era stata l’abitazione della stessa famiglia che, al ritorno dallo sfollamento, aveva trovato la propria abitazione distrutta.»
Un’altra voce si levò dal profondo del bosco.
«Bravo, Riccardo.» Quel timbro risuonava per la prima volta in quella giornata, eppure per Riccardo non era affatto una voce sconosciuta.
«Celso!» esclamò, riconoscendo colui che, in paese, era stato il suo primo amico.
«Certo, sono io. Riccardo, tu hai perso i ricordi, quindi hai perso anche il tuo tempo.»
Possibile che tutti gli dicessero la stessa cosa? Eppure, Riccardo era certo di non aver dimenticato nulla.
Celso cominciò a parlare, come era solito fare quando Riccardo era piccolo.
E Riccardo tornò piccolo. Era piccolo e spaventato. Era successa una cosa, una cosa terribile, che non aveva il coraggio di raccontare a nessuno.
«Celso, io vorrei stare sempre qui. A Bologna ho paura.» Riccardo stringeva forte la mano dell’uomo ormai anziano, certo che il vecchio lo avrebbe consolato, offrendogli il conforto che cercava, ma senza fargli troppe domande.
Celso capiva che il ragazzo custodisse dentro di sé un terribile segreto. Segreto che sarebbe rimasto tale: per una sorta di pudore misto a vergogna, Riccardo non si sarebbe confidato ad anima viva.
L’unico aiuto che Celso poteva dargli consisteva nell’infondergli speranza nel futuro. E l’unico modo era parlargli del passato, della storia di quei luoghi, una storia di posti, ma anche di persone. Storie di guerra, ma anche e soprattutto storie di solidarietà tra uomini, donne, anziani e ragazzi che vivevano la stessa quotidianità e anche, purtroppo, le stesse tragedie.
«Mio caro, hai ragione a voler vivere qui. Da noi, tutto potrebbe sembrare difficile a un occhio superficiale e distratto. Ma se osservi bene, ti accorgi che in realtà è il contrario. Quassù, tutto è più semplice» disse Celso, ricambiando la stretta del ragazzino.
Riccardo arrivava ogni domenica con i genitori, i quali amavano l’Appennino, con i suoi panorami mozzafiato, la natura incontaminata e i borghi antichi dall’atmosfera un po’ magica.
Con papà e mamma, pranzava alla Trattoria Monte Adone poi, mentre i genitori si attardavano a tavola, lui andava nel giardinetto vicino, portando con sé un pallone. Ogni volta, incontrava Celso in compagnia del suo cane, un meticcio di taglia media. Impossibile definire la mescolanza di razze che componevano la genetica del cagnolino, ma la razza non aveva nessuna importanza, né per l’anziano padrone né per il ragazzino, che amava rincorrere il pallone in compagnia dell’animaletto e non si dispiaceva troppo quando il cane era più svelto di lui ad agguantare la palla, finendo per rovinarla con i suoi canini acuminati.
Correndo con il cane, il bambino forse un po’ troppo serio e posato per la sua età, finiva per trovare una spensieratezza che altrimenti gli era sconosciuta.
Quando i genitori raggiungevano Riccardo nel giardino, lo trovavano seduto su una panchina, mentre conversava compostamente con Celso. A mamma e papà non sfuggiva l’espressione serena del figlio, ed erano lieti di unirsi alla conversazione. Ogni volta, al termine della corsa sfrenata, Celso faceva appena in tempo ad aiutare Riccardo a ricomporsi prima dell’arrivo dei genitori, che lo trovavano seduto e in ordine.
Il vecchio raccontava ai signori, che venivano dalla città, di come quel giardinetto facesse parte del lavoro dell’Opera di Padre Marella, che aveva ricostruito la chiesa nel centro del paese, rilevando l’antica parrocchia in mezzo al bosco, distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale.
La guerra… Celso aveva otto anni nell’ottobre del 1944, quando su Brento e su tutta la zona circostante cominciarono i bombardamenti. Ininterrotti, parevano non finire mai. E dire che la vita della sua famiglia, prima della guerra, era stata così serena! Aveva una mamma, un papà e una sorella. E anche un nonno, fabbro, che aveva insegnato il mestiere al figlio. La famiglia di Celso aveva un orto e alcuni alberi da frutto. Celso perse tante cose, in quel terribile ottobre. Perse la sua casa, e anche la possibilità di rimanere nel suo paese. C’era infatti un rifugio sotto l’albergo Monte Adone, che fu distrutto dalle bombe. Allora, Celso e la sua famiglia si rifugiarono in una grotta. Vi rimasero per un mese, senza altro cibo tranne le castagne sugli alberi attorno. Crude.
Fu in quel periodo che Celso realizzò quanto l’amore per il proprio territorio fosse tutt’uno con ciò che provava per le persone. Come avrebbe potuto sopravvivere in una grotta, senza avere attorno a sé la propria famiglia, le persone che amava?
C’erano altri sfollati nella grotta, ognuno con la propria disperazione, la propria caparbia lotta per la vita.
Una donna anziana masticava le castagne, fino a ricavarne una pappetta che poi passava alla nipotina, troppo piccola per poter mangiare e digerire le castagne crude. Celso osservava la solidarietà delle altre persone, e cercava di fare coraggio ai fratellini più piccoli, che spesso piangevano per la fame, il freddo, la paura. Per distrarli, raccontava di uomini preistorici che avevano vissuto in quelle stesse grotte in cui loro si erano rifugiati in quel periodo.
Brevi erano i fatti riportati sui libri scolastici a proposito della preistoria. Gli uomini e le donne erano vestiti, o piuttosto coperti alla meglio di pelli di animali. Tracciavano graffiti sulle pareti delle grotte e per sopravvivere cacciavano animali come mammut e bisonti. Chissà se davvero quelle caverne fossero mai state abitate, in epoca preistorica. Celso lasciava che la fantasia spaziasse e inventava storie ispirate a ere lontane nel tempo. Raccontava di uomini che avevano scoperto la ruota per trasportare le cose pesanti e il fuoco per lavorare i metalli e cuocere la carne. E inoltre, i primitivi attrezzi e armi da taglio.
E chissà quando erano state scoperte le coltivazioni? Di sicuro, nella preistoria, non si parlava di coltivazioni, ma di scoperte di piante che regalavano prodotti nutrienti e gustosi.
Quando Celso faticava ad addormentarsi a causa del freddo e dei morsi della fame, cercava di elaborare storie che poi avrebbe raccontato ai fratellini. Inventava avventure di caccia, uomini che si battevano contro il terribile mammut dalle lunghe zanne e dalle abbondanti carni che avrebbero sfamato intere famiglie. Inventava storie di amori nati vicino all’imbocco di una caverna, di giovani che coglievano fiori per offrirli alle ragazze con cui avrebbero voluto unirsi. Innamorati respinti che rischiavano la vita per arrivare per primi a uccidere il mammut, per potersi aggiudicare il diritto di scuoiarlo e offrire la pelle alla ragazza dei sogni come pegno d’amore.
Bambini che nascevano nelle caverne e imparavano presto, se maschi, l’arte della caccia, mentre alle bambine veniva insegnato a cuocere le carni degli animali cacciati e a ricavare indumenti dalle pelli degli stessi animali. Le donne dovevano tenere pulita la caverna e accudire i bambini e il proprio uomo quando tornava da caccia, stremato e spesso ferito.
Chissà se, in quelle epoche così lontane, qualcuno avesse scoperto come ricavare medicamenti dalle erbe o dalle piante? Probabilmente no, ma tutto era possibile nei racconti di Celso, che aveva introdotto la figura dello “sciamano”, una specie di medico primitivo che curava le malattie, un po’ con le erbe e un po’ con le formule magiche.
Le fantasticherie di Celso furono bruscamente interrotte dai tedeschi, che cacciarono la sua famiglia dalla grotta, fucilandone gli uomini adulti, il papà e il nonno, credendoli partigiani.
Allora Celso, con la mamma e la sorella, fuggì di nuovo, questa volta verso Bologna. Fu una fuga rocambolesca, spesso la famiglia era costretta a buttarsi nei fossi per ripararsi fortunosamente dalle bombe. Arrivarono in città, e vi rimasero sino a guerra finita. Poi tornarono, e riuscirono a ricostruirsi una casa.
La casa dove con gli anni rimase solo Celso, il quale, a un certo punto, troppo anziano per continuare a vivere solo, decise di vendere tutto e trasferirsi a Bologna e andare ad abitare assieme alla famiglia del figlio.
Così, chiacchierando con il vecchio Celso, i genitori di Riccardo presero accordi per acquistarne la casa. E fu così che per la famiglia di Riccardo divenne consuetudine trascorrere a Brento quasi tutti i weekend e i periodi di vacanza, nell’abitazione di proprietà, che un tempo era appartenuta alla famiglia di Celso.
Sempre tramite Celso, Riccardo era venuto a conoscenza di ricordi di persone che avevano vissuto in paese. C’era stato Don Piero, l’ultimo parroco della chiesa di Sant’Ansano, poi c’erano stati Clelia e Giuseppe, che si erano conosciuti nel 1939 durante una villeggiatura e non si erano lasciati mai più. Poi c’era la bella Antonia, amica di Clelia, che da Brento non se n’era mai andata e la cui famiglia, dopo la guerra, fece dono a Padre Marella del terreno su cui venne costruita la nuova chiesa. Poi c’erano i “ragazzi” di Padre Marella, che lavorarono duramente alla costruzione della chiesa e coltivavano campi, allevando anche mucche e galline.
«Riccardo, io ti ho sempre raccontato queste cose. Capivo che tu solo qui avresti potuto trovare la felicità, perché la felicità è nel luogo in cui ti senti a casa. Ma come puoi sentirti a casa, se non puoi condividere i luoghi del tuo cuore con altre persone?»
Ora ci si metteva anche il vecchio Celso. Riccardo era disorientato. Si era trasferito in quel luogo credendo di raggiungere la pace attraverso la solitudine, l’isolamento, ma qualcosa invece lo tormentava. Un ricordo terribile, che lo aveva condizionato in passato, e ora rischiava di rovinargli il futuro.
Non si sfugge dai propri ricordi, così come non si sfugge alla propria vita. Soprattutto quando, pur senza volerlo del tutto, si è arrivati a regalare e ricevere nello stesso istante qualcosa che pare misterioso, ma che invece è estremamente semplice. Riccardo capì che nel proprio tempo, quel tempo che avrebbe voluto far custodire solo dai boschi, ormai non era più solo ma che ne era entrata Margherita.