E di lottare per una causa che da tempo
hanno dimenticato
(Ballata celtica)
Riccardo non aveva dimenticato nulla. Non aveva dimenticato quella cosa che gli era successa, quando ancora era un ragazzino che frequentava le scuole medie. Di nuovo, i ricordi di quella brutta esperienza si affacciarono, prepotenti. Ora avrebbero invaso tutti i suoi pensieri, senza dargli tregua.
Ci sarebbero voluti giorni affinché Riccardo si calmasse, riuscendo a relegare i ricordi spiacevoli in un angolo remoto della propria quotidianità.
La maniera migliore per rimpicciolire le dimensioni dei ricordi era lasciare che lievitassero, invadendogli ogni spazio nella memoria. Poi, come una nube di vapore, pian piano si sarebbero dissolti. Le immagini si sarebbero consumate, e sarebbe rimasta solo quella parola. Quella ignobile parola di scherno, che ancora, dopo tanti anni, gli dava la sensazione di marchiarlo e renderlo vulnerabile agli occhi del mondo.
Ma era solo una parola, poteva ripiegarla per bene, mettersela in tasca e lasciare che la vita continuasse.
Senza donne, perché dopo quella cosa che era successa tanti anni prima, Riccardo le odiava tutte.
Anche Margherita, anche se gli piaceva, come altre gli erano piaciute prima di lei.
Anche Margherita, anche se le voleva bene, come aveva voluto bene ad altre prima di lei.
Anche Margherita, anche se lei lo amava, lo rispettava, lo capiva. Come forse nessun’altra prima di lei.
Era successo a Bologna, al parco Guido Rossa, un anonimo giardino pubblico di periferia. Riccardo era andato a prendere un gelato al chiosco, dopo la scuola, e stava andando verso una panchina. Perché avrebbe dovuto fare caso a quel gruppo di quattro ragazze che gli si avvicinava correndo a passo di jogging? Una di loro gli diede una spinta, facendogli cadere il gelato a terra. Aveva lunghi capelli neri, che lasciava sciolti sulle spalle, e ondeggiavano quando camminava. Dimostrava circa sedici anni, forse era bella, ma la sua espressione metteva i brividi.
«Oh, poverino!» esclamò la ragazza. «Mi dispiace tanto!» Il suo tono strafottente lasciava a intendere che non le dispiaceva nemmeno un po’. «Ora te lo raccolgo, ok?»
«No, fa lo stesso» rispose Riccardo, cercando di farsi venire un’idea per allontanarsi da lì. Ma le altre tre ragazze lo tenevano fermo. Riccardo non guardò mai le loro facce, non avrebbe mai potuto ricordarsi di loro. Sentiva le mani di due di loro bloccargli le braccia, mentre la terza lo teneva fermo da dietro, circondandogli il petto. Sentiva i loro respiri, i loro corpi vicini. Erano corpi sudati, di persone esagitate. Forse avevano bevuto, forse avevano consumato qualche sostanza illegale, forse avevano semplicemente inventato quel perfido gioco per combattere la noia, senza sapere che la noia non deriva dal non saper cosa fare, ma dalla consapevolezza di non poter mutare la propria condizione. Quindi, le quattro ragazze, tormentando Riccardo non avrebbero risolto nulla, anzi, sarebbero sprofondate ancora di più nel loro squallore di baby delinquenti di periferia.
«Ma come è educato, il bambino! Fa lo stesso, dice! Ma come, non rivuoi il tuo gelato? Ho detto che te lo raccolgo!» incalzò la ragazza bruna. Raccolse il gelato sporco di terra, e lo stampò sul giubbotto jeans del ragazzino.
«Oh, che sbadata! Volevo fartelo mangiare, ma mi sa che ho sbagliato mira! Povero piccino, che dirà la mamma, ora che hai sporcato il giacchino nuovo?» La ragazza continuava a sfotterlo, mentre le altre ridacchiavano, continuando a tenerlo fermo.
Poi lo trascinarono dietro un cespuglio, mentre la bruna gli tappava la bocca con una mano per impedirgli di urlare. Riccardo scalciava disperatamente, ma loro erano in quattro, più grandi e più forti.
La bruna gli tolse la mano dalla bocca, mentre un’altra delle ragazze lo bloccava con un braccio attorno al collo, stringendo sino quasi a soffocarlo.
La ragazza con i capelli lunghi gli diede un calcio sul viso, e gli occhiali di Riccardo volarono via.
«E ora, piccolo quattrocchi? Non ci vedi più, vero?»
Il volume dei risolini delle tre compari salì di parecchi decibel, mentre lo sfottò serpeggiava:
«Quattrocchi» ripetevano, a voci sfalsate «Quattrocchi». «Quattrocchi».
«Ti piacerebbe avere un tatuaggio?» riprese la bruna. «Pensa a quanto saresti figo con un tatuaggio.»
Estrasse dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette, ne accese una, tirò alcune boccate dandosi un’aria provocante.
«Sì, ti farò proprio un bel tatuaggio» decise.
«Anastasia, togli il braccio e tappagli di nuovo la bocca. Rovesciagli un po’ la testa all’indietro. Quando avrò finito, questo bel bambino avrà una fossetta sul mento, molto affascinante.»
Lo aveva fatto per davvero. Gli aveva spento la sigaretta sul mento. Senza nessun motivo, così, per dimostrare di essere forte, potente. In quattro contro un ragazzino più piccolo. Un ragazzino gracile, timido ed educato. Un ragazzino che avrebbe portato per sempre, dentro di sé, i segni di quel vile atto di bullismo.
Il bruciore era terribile, a Riccardo vennero le lacrime agli occhi. Le quattro ragazze corsero via ridendo.
Riccardo recuperò gli occhiali e tornò a casa.
Non rivelò mai la verità. Come tutte le persone sensibili, come tante delle persone che subiscono ingiustizie, Riccardo si vergognava. Era stato umiliato, e non aveva il coraggio di raccontare a nessuno quello che era successo. A casa disse di essere inciampato e caduto, sporcandosi con il gelato e ferendosi il mento con un vetro. La madre lo portò al pronto soccorso. Poverina, le fecero mille domande, come se sospettassero che fosse stata lei a provocargli la ferita.
«Non si tratta di un taglio, ma di una bruciatura di sigaretta» disse la dottoressa che medicò il ragazzo. «Come mai suo figlio non la racconta giusta? Riccardo, ancora una volta: come ti sei procurato quella ferita al mento?»
«Sono caduto. Al parco» ripeté il ragazzo per l’ennesima volta.
Domande. Sospetti. La dottoressa del pronto soccorso non era che un’altra di “loro”, delle donne cattive. Donne che pretendevano da lui qualcosa. Come le insegnanti a scuola, che gli imponevano studio e diligenza, le compagne che pretendevano che gli facesse copiare i compiti, le quattro sbandate del parco che avevano preteso da lui sottomissione alle sevizie, in forza di uno strano concetto di divertimento.
Riccardo non fece mai parola a nessuno dell’accaduto. Ogni tanto, qualcuno gli chiedeva come si fosse procurato quella cicatrice sul mento, e la risposta era sempre la stessa:
«Sono caduto.»
Diventato adulto, si fece crescere la barba in modo da coprire la cicatrice.
Ma aveva dentro di sé un’altra cicatrice, che nulla avrebbe potuto dissimulare. Era una piaga, grande, che lievitava a volte dentro di lui, fino ad assumere una dimensione enorme, che nulla avrebbe potuto contenere. Allora Riccardo lasciava che la piaga dilagasse, fino a straripare. Poi evaporava lentamente, e ne rimaneva solo lo scheletro: il ricordo di voci sguaiate, che lo chiamavano “Quattrocchi”. Rimaneva solo quella parola, che Riccardo ripiegava con cura e nascondeva in fondo a una tasca.
Le donne erano tutte uguali. Crudeli. A Riccardo le donne piacevano, in virtù di un atavico istinto di accoppiamento, ma non voleva legarsi a nessuna, perché le odiava tutte.