CHRIS

Otto minuti, ecco quanto tempo impiega la luce del sole a raggiungere la terra. Significa che ogni volta che guardiamo il cielo, vediamo il sole come era otto minuti prima e mai com’è in quell’istante. La stella più vicina al nostro sole è Proxima Centauri, e si trova a 4,2 anni luce di distanza. Ossia 38 mila miliardi di chilometri. Occorrerebbero decine di migliaia di anni per arrivarci. Le stelle più lontane sono a milioni di anni luce. Sono talmente distanti che le vediamo ancora nonostante non esistano più; sono morte durante il tragitto che la loro luce impiega a raggiungerci. L’unica cosa che riusciamo a vedere è il passato, ma solo fino a 13 miliardi di anni luce fa. Il resto è semplicemente troppo remoto, e la luce non ha avuto abbastanza tempo per arrivare a noi.

È tutto così strano e affascinante. Terrificante e bellissimo.

Ma di tanto in tanto, mi piacerebbe riuscire a vedere il futuro, e non da un punto di vista astronomico, magari giusto due o tre anni della mia vita, anche solo una volta. Se potessi sapere in anticipo cosa accadrà, se starò bene oppure no, allora forse sarei molto meno spaventato e arrabbiato adesso. A questo pensavo sul sedile posteriore dell’auto mentre fissavo fuori dal finestrino il panorama della I-90 mutare come le stagioni, dalla periferia al centro città e dalla periferia alla campagna e così via. Fino a quell’istante, i miei genitori avevano parlato una volta in due ore e mezzo e solo per ordinarmi di abbassare il volume della musica.

«Chris» ripeté mia madre, più forte, girandosi sul sedile.

Mio padre sollevò gli occhi per incontrare i miei nello specchietto retrovisore.

Abbassai le cuffie attorno al collo. Fu la mia unica reazione.

Lei mi fissò come se si sforzasse di vedere qualcosa o qualcuno dentro di me. «È una punizione?» domandò. «Tenti di punirmi comportandoti così?»

«Ovvio» borbottai.

Monosillabico. Avevo imparato quella parola a sette anni, dato che mia madre odiava le mie risposte monosillabiche invece delle frasi complete, ed ecco perché le usavo in modo strategico.

«Ti ho chiesto scusa, Chris.» “Non è affatto vero” pensai. «Mi odi così tanto?» domandò, e dal tono secco capii che la stavo facendo arrabbiare. Bene.

«Non importa» biascicai in tono piatto. Erano due giorni che le parlavo a monosillabi, e di certo non avrei cambiato registro adesso.

«Io… te…» iniziò, ma si fermò, rendendosi conto che avevamo discusso in quel modo già un milione di volte, non solo in quei due giorni, ma nell’ultimo anno, e nessuno dei due aveva mai vinto. Si rivolse a mio padre. «Che ne dici di un piccolo aiuto, Joe? Voglio dire, oddio, tua figlia è…»

«Mio figlio» la interruppe papà. «Okay? Non possiamo semplicemente lasciar perdere?» Le lanciò un’occhiata, senza alzare la voce. Ce ne vuole per farlo arrabbiare, ma ultimamente questo suo pregio sembrava irritare mia madre.

«Lasciar perdere?» ripeté lei, con una risata amara che fece vibrare le parole. «Bene.» Si rigirò di scatto sul sedile, incrociando le braccia e forzandosi di fissare davanti a sé in silenzio. Tuttavia riuscivo a vederle muovere i muscoli della mandibola, serrare i denti come se stesse trattenendo ogni parola che le restava in bocca.

Papà mi scrutò di nuovo dallo specchietto, i suoi occhi volevano dirmi qualcosa che credo non sapesse come formulare a voce alta, tipo che si stava impegnando e forse riusciva a comprendermi in qualche modo e che era dalla mia parte, a volte.

Guardò di nuovo avanti, scosse il capo da un lato all’altro e poi risistemò la presa sul volante, accelerando poco sopra il limite di velocità. Mi rimisi le cuffie e chiusi gli occhi.

Dopotutto avevo solo osato uscire di casa. Desideravo giusto un po’ di libertà, di controllo sulla mia vita.

Due giorni prima mi ero svegliato presto, i miei dormivano ancora. La casa era silenziosa e la giornata perfetta. Mi ero vestito, avevo allacciato le scarpe da corsa e, come quasi ogni mattina, stavo per scendere nel seminterrato ad allenarmi sul vecchio tapis roulant di mia madre.

Invece, per qualche motivo, ero uscito dalla porta d’ingresso.

Avevo sceso i primi tre gradini del portico, incamminandomi lungo il viale e poi verso la strada principale. All’inizio avevo solo corso a ritmo moderato, superando la casa dei vicini, e poi fino allo stop all’angolo, dove stavo per tornare indietro.

Ma non appena i miei piedi toccarono il marciapiede, seguendo quel consueto ritmo familiare, cominciai a correre veloce. Corsi come facevo un tempo, prima di entrare a scuola, quando ancora mi permettevano di andarci. Non volevo stare via così a lungo. Forse sapevo che i miei si sarebbero preoccupati, ma non me ne importava più. Non potevo continuare a vivere con le loro paure, perché per quanto detestassi ammetterlo, quei timori erano contagiosi e stavano diventando anche i miei.

Sì, avevo dimenticato di portare con me il cellulare, ma era stato un caso.

Al mio ritorno, mi aspettavano in salotto. Avevano persino chiamato Coleton, il mio unico e più caro amico nella vita reale, seduto sul divano con l’aspetto di uno che si era appena svegliato. Varcai la soglia e mio padre mi venne incontro fermandosi a metà e gridò, gridò sul serio: «Dove diavolo sei stato?!», la voce che sembrava quella di uno sconosciuto. Coleton si alzò subito in piedi e ricordo chiaramente l’espressione sul suo volto mentre papà si avvicinava a me così tanto che in realtà pensai che stesse per colpirmi, invece rimase immobile davanti a me e disse: «Stai bene». Non capii se fosse una domanda o un’affermazione, ma non ebbi il tempo di reagire perché scosse la testa e mi superò scansandomi con il gomito e sbattendo la porta mentre usciva.

Mia madre non proferì parola.

Marciò nella mia direzione con il mascara del giorno prima colato lungo le guance in strisce nere di rabbia, e mi diede una spinta fortissima contro la porta. Poi indietreggiò e ricordo tutto come fosse accaduto quasi al rallentatore: prima ancora di rendermi conto di cosa stesse succedendo avvertii una botta simile a quella intensa della porta che sbatteva di nuovo. Solo che mi ci volle un secondo per realizzare che quel suono era la sua mano contro la mia guancia: uno schiaffo. Al che percepii la sensazione di un milione di piccoli aghi che mi penetravano il lato del viso. Non mi aveva mai picchiato prima; i miei genitori non lo avevano mai fatto, al massimo una sculacciata da bambino. Non rammento se qualcuno parlò; ricordo solo che mia madre indietreggiò lentamente, guardandomi come se fossi stato io a colpirla.

Sfrecciai su per le scale, verso la mia camera, afferrai il cellulare e trovai quarantasette chiamate perse, diciotto messaggi in segreteria e ventinove SMS da loro tre.

Era stato allora che avevo chiamato Isobel. Perché aveva promesso di esserci se ne avessi avuto bisogno, e in quell’istante era disperatamente così.

Il ticchettio della freccia mi svegliò. Poi il rumore della ghiaia sotto le gomme mi indusse a drizzare la schiena. Mi guardai attorno mentre entravamo nel viale che conduceva a casa di zia Isobel, che era stata anche la casa di mia madre, dove erano cresciute insieme.

Dopo dieci ore seduto in quella pentola a pressione a quattro sportelli che era la nostra auto di famiglia, saltai fuori appena papà parcheggiò.

«Porca merda» borbottai sottovoce. Eravamo davvero in mezzo al nulla. Sentivo spesso quell’espressione, e l’avevo sempre ritenuta un’esagerazione. Ma non stavolta. C’erano solo campi e boschi, per ciò che riuscivo a scorgere. Avevo visto quel posto soltanto in foto; era strano trovarsi lì di persona. Era esattamente come mi aspettavo e allo stesso tempo anche diverso. L’unica cosa che si avvicinava alla civiltà era la vecchia casa fatiscente davanti a me, quella che sarebbe stata la nostra dimora per i successivi due mesi e mezzo.

Sentii di nuovo il bisogno di correre… di scappare e continuare a farlo per sempre. Ma proprio in quel momento vidi Isobel sul portico. Indossava la divisa da infermiera ed era appoggiata a un palo inclinato che sosteneva una tenda parasole troppo bassa per essere solida. Notai che Isobel era scalza mentre scendeva le scale e, quando si avvicinò, capii dalle palpebre pesanti e dal sorriso sbrigativo che era stanca. Doveva essere appena rientrata dal lavoro. Eppure qualcosa sul suo volto cambiò quando i nostri sguardi si incontrarono, come se fossimo cospiratori e quella situazione incasinata, quell’anno incasinato, fosse parte di un qualche piano elaborato che funzionava perfettamente perché ci aveva riuniti insieme, proprio lì, in quel momento.

Isobel riusciva a farmi credere in tantissime cose.

Teneva le braccia aperte e, mentre andavo verso di lei, ricordai tutto ciò che amavo di quella donna e sentii meno voglia di allontanarmi. Isobel ha tre anni più di mia madre, eppure l’ho sempre considerata la zia più giovane e figa. È coraggiosa. Si comporta come vuole, fregandosene del giudizio altrui. Come quando l’anno scorso si è fatta le mèche blu elettrico solo perché le andava. O quel tatuaggio con un volatile dopo che è morta mia nonna.

Di solito la vedo una o due volte l’anno, nel Giorno del Ringraziamento e a Natale, oppure se ci viene a trovare per un compleanno speciale o un anniversario.

O in occasione di brutti eventi. Tipo il funerale di mia nonna. E come lo scorso autunno, quando mi picchiarono così ferocemente che finii in ospedale, e lei c’era. E quando mi dimisero restò da noi durante le sei settimane che ci impiegai a guarire. Mi costrinse a seguire una fisioterapia dolorosa, facendosi persino odiare quando mi spronava con fermezza. Non mi avrebbe mai permesso di mollare. Mi ha reso di nuovo forte, anche più di prima.

«Oh Santo cielo, Chris! Ma guardati, vieni qui.» Mi strinse in un abbraccio veloce e deciso. Non fu prolisso e pietoso, e gliene fui grato. Quando si scostò, si mise una mano davanti agli occhi per via del sole e mi guardò, poi mi prese il mento con l’altra e disse con disinvoltura: «Sei bellissimo».

Ma prima che potessi reagire, mia madre comparve alle mie spalle e fece: «Ciao, Isobel», il tono rigido, infastidito e critico.

«Sheila, che piacere vederti.» Isobel le riservò un sorriso molto più affettuoso di quanto meritasse mia madre, salvo poi farmi l’occhiolino di nascosto.

Restammo tutti e tre lì, in silenzio, mentre attendevamo che papà arrancasse verso di noi dall’auto, portando con fatica i miei quattro bagagli insieme. Mentre li posava a terra guardò Isobel e le sorrise, in modo sincero, per la prima volta dopo tanto tempo.

Isobel lo attirò a sé e gli diede un abbraccio di qualche secondo troppo lungo e di tipo assolutamente pietoso, riservato al povero vecchio Joe che aveva una moglie cattiva e un figlio incasinato con cui non sapeva più come comportarsi.

Mia madre abbassò lo sguardo e si schiarì la gola. Mentre mio padre e Isobel si separavano, mia zia gli chiese: «Come stai, Joey?».

«Joey?» la schernì. «Ti prego, mi fai sembrare un dodicenne.»

«Che dire? Nella mia mente avrai sempre dodici anni.» Gli diede una pacca sulla spalla e allungò una mano per scompigliargli i capelli radi, ma lui si scostò subito.

Lei e mio padre si erano diplomati lo stesso anno. Alla mia età stavano insieme, ed ecco come si erano conosciuti i miei genitori: mia madre era la sorella minore della ragazza di mio padre. Era difficile immaginarli adolescenti. E anche mio padre fidanzato con Isobel.

Isobel ripeteva che stavano meglio da amici. E mio padre non aveva mai raccontato un granché. Si punzecchiavano sempre come tra fratelli, cosa che rendeva mia madre gelosissima. Mia madre di solito azzardava qualche piccolo commento, battute spiritose, ma in quel momento non aveva affatto l’espressione divertita, anzi, li fulminava con lo sguardo.

Di tanto in tanto mi chiedevo se i miei genitori fossero mai stati davvero felici, e se ero io la causa della loro felicità. Forse anche in amore c’è qualcosa di simile alla velocità della luce, magari questo era già il loro destino, prima ancora di cominciare la relazione, solo che ci hanno messo diciassette anni per capirlo.