Non sapevo neanche che esistessero i murales a Carson, in North Carolina. Ne vidi uno per caso, il mattino precedente, quando andai dal benzinaio a gonfiare, con dell’aria gratis, le gomme perennemente sgonfie della bicicletta. Di solito ci passavo davanti, perciò, fino a quel momento, non avevo mai visto il retro dell’edificio.
Una macchina accostò vicino a una delle pompe, la musica altissima. Diedi una sbirciata e vidi le mie amiche stipate nella vecchia Ford Escort della madre di Hayden: ridevano e strillavano con i finestrini abbassati. Andavano al mare, al Luna Park dove ci recavamo ogni estate.
Mi avevano invitato, lo facevano sempre ed erano buone amiche da quel punto di vista. Ma avevo risposto che ero malata, anche se non era vero. Per quello mi nascosi dietro l’edificio con la bici, il cuore che batteva forte, aspettando che se ne andassero. E quando sollevai lo sguardo vidi uno dei soggetti di una foto di Mallory nella vita reale.
Adoravo mia sorella e, persino quando non la capivo o la odiavo, la amavo comunque. Credo sia questa la ragione per cui quel giorno mi svegliai presto per andare lì, a fissare il murales sulla parete retrostante dell’unico distributore di benzina della città.
La mattina, infatti, tornai con la fotocamera di Mallory attorno al collo. Nella cinghia un filo tagliente che mi punzecchiava la pelle, chissà se le aveva dato fastidio quanto a me.
Una parte di me si chiedeva anche se Mallory avesse dipinto con lo spray quel muro e poi scattato la foto; sembrava proprio il tipo di cose che avrebbe potuto fare lei. Ma notai che le lettere erano consumate, sbiadite da anni di sporcizia e intemperie. Sollevai la fotocamera davanti al viso e strinsi l’occhio di fronte al mirino.
Infilai le dita negli spazi lisci della macchina fotografica, consumati dalle sue nel corso degli anni. Indietreggiai di un passo e poi mi spostai di lato, ancora indietro e leggermente a sinistra. Ed eccola lì, la foto che mia sorella aveva fatto chissà quando, l’inquadratura esattamente uguale alla sua. Mi guardai i piedi e piegai le dita un po’ all’interno, proprio come le teneva lei di solito. Ero nello stesso punto che aveva scelto per scattare.
Aspettai di percepire qualcosa.
Non mi occupo di fotografia, quella era la passione di Mallory. E io non le assomiglio affatto. Non c’era neanche la pellicola nella fotocamera, ma premetti il pulsante di scatto in modo che emettesse quel rumore che sembrava sempre accompagnare Mallory ovunque andasse.
Mallory aveva un modo del tutto originale di vedere le cose. Dopo il divorzio dei nostri genitori, quattro anni prima, quando era in prima superiore e io in terza media, si appassionò seriamente alla fotografia. Avevamo solo diciotto mesi di differenza, ma sarebbero potuti anche essere diciotto anni, per quanto poco avevamo in comune. Lei progettava, dopo il diploma, di diventare una fotografa famosa e di viaggiare per il mondo. Desiderava lavorare per il “National Geographic” e vedere le sue foto nelle gallerie d’arte, e roba simile. E ci sarebbe riuscita; aveva ottenuto uno stage favoloso a Washington DC, in una rivista emergente che l’avrebbe pagata per degli incarichi oltreoceano.
La gente di Carson non fa cose del genere.
Per la maggior parte del tempo pensavo che fosse snob e presuntuosa. Questa città, la sua vita qui, i nostri genitori, io… niente era abbastanza per lei. Nonostante avesse già tutto – bei voti, talento, amici, un padre e una madre e professori e compagni di classe che la adoravano, bellezza, intelligenza, magia – voleva sempre qualcosa di più.
Non lo capivo. Come non avevo mai capito lei.
Ecco perché ci provo adesso.
Fissai le parole sbiadite scritte in un corsivo frettoloso, studiando la calligrafia del vandalo, le maiuscole che si mischiavano alle minuscole, le righe confuse impilate come mattoni una sopra l’altra. Non aveva nulla della calligrafia di Mallory. Inoltre, se fosse stata opera sua, si sarebbe presa tutta la parete.
noI noN
veDIAMO le coSE
come SoNO,
lE vEDiamO
coME SIaMo.
aNaïs Nin
Abbassai la macchina fotografica e cercai di guardare con i miei occhi. Quelle parole dovevano aver significato qualcosa per Mallory. Ma per me erano un enigma, e non ero abbastanza intelligente o inquieta o creativa per comprenderlo.
«Fanculo, Mallory» sussurrai.
Mi sfilai la cinghia dalla testa e posai la macchina fotografica nella borsa, tirai su la bici da terra e guardai torva un’ultima volta la parete prima di pedalare via. Direzione Bargain Mart, il mio lavoro estivo, quello che i miei genitori avevano definito adatto a me. Non che sapessero un accidente di niente di ciò che andava bene per qualcuno. Non certo per me, e soprattutto neanche per loro stessi. Erano divorziati da quattro anni, eppure vivevano ancora insieme. Per ragioni economiche, sostengono, ma io credo sia perché non riescono a capire come fare a lasciarsi. Se si separassero davvero non potrebbero rendersi tristi a vicenda, e in quel caso dovrebbero affrontare le conseguenze di tutto ciò che è accaduto. Per raggiungere Bargain Mart bisognava per forza passare davanti alla mia scuola. In realtà ero costretta a superarla ovunque volessi andare, in quella città. E quando si transita davanti alla mia scuola non si può fare a meno di notare la roccia gigante sul prato: Liceo di Carson, sede dei Gladiators, Roccia Spirituale. Era sempre decorata con auguri di compleanno o slogan sportivi: VITTORIA! FORZA! NUMERI UNO!
Sei mesi fa quelli dell’ultimo anno l’avevano ridipinta in onore di Mallory. Mi avevano anche permesso di dare una mano, anche se ero solo in terza superiore. Ma dopotutto ero sua sorella.
Avevamo usato colori vivaci e foto di uccelli bianchi e di piume, cuori, croci, fiori, lacrime, e una delle sue compagne del corso di arte aveva persino dipinto un quadro raffigurante una macchina fotografica e un pallone da pallavolo. Alcuni avevano scritto messaggi tipo: TI VOGLIAMO BENE, MALLORY, NON TI DIMENTICHEREMO MAI, TE NE SEI ANDATA TROPPO PRESTO; e PER SEMPRE NEI NOSTRI CUORI.
La cosa strana era che neanche mi andava di aiutare. Sono certa che questo mi rende una persona orribile, ma come facevo a rifiutare? Cosa potevo mai dire?
Se sei sempre stata giudicata non come una persona a pieno titolo, ma esclusivamente come il polo opposto di un’altra, che ormai non esiste più, allora cessi anche tu di esistere?
Ecco le parole che volevo dipingere sulla superficie di quella roccia. Era quella la domanda che avevo in mente, l’unica che nessuno si aspettava ponessi ad alta voce. Non che fossi una sorta di sfigata o roba simile. Ero solo nella media. Non ero popolare e neanche malvista. Né bassa né alta, né magra né grassa, brutta o bella, intelligente o stupida. Ho solo sempre fatto ciò che ci si aspettava da me, niente di più, niente di meno. Perciò presi il pennello che qualcuno mi stava porgendo e che nella mia mano era uno strumento sgraziato e sconosciuto e abbozzai un grosso cuore rozzo simile a una massa informe. Banale. Mediocre. Ordinario.
Mi diedero delle pacche sulla spalla e dissero che ero forte e coraggiosa e una bravissima sorella, e tutte quelle cose che non erano realmente vere. Pensarle gli risollevava il morale. Erano loro che avevano bisogno di sentirsi meglio, dopotutto erano i suoi amici.
Volevano che anch’io stringessi amicizia con loro, come per aggrapparsi a qualcosa di lei attraverso di me. Ma non ci impiegarono molto a capire che non potevo sostituirla, non c’era alcun legame con l’amica che adoravano.
Morte improvvisa. Si dice così quando qualcuno muore e non c’è una spiegazione plausibile, o almeno non ce n’è una logica.
A quanto pare Mallory era a mille alla lezione di ginnastica quel giorno; giocavano a pallavolo, sport in cui eccelleva.
Ogni volta schiacciava la palla oltre la rete in modo perfetto, dicevano, segnando un punto dopo l’altro. Ci riferirono che stava ridendo quando accadde, poco prima che inciampasse all’improvviso e cadesse a terra.
Avevano pensato che fosse svenuta.
Ma era già morta quando giunse l’infermiera scolastica. Se n’era andata prima che l’ambulanza arrivasse a sirene spiegate, prima che si fermasse di colpo davanti all’entrata sud della nostra scuola. Era già morta mentre i paramedici si affrettavano all’interno con l’attrezzatura. Morta mentre io osservavo tutto dalle finestre della classe di chimica della quinta ora; tutti i miei compagni, persino l’insegnante, si erano avvicinati per vedere cosa stava succedendo.
Perché a Carson non accade mai nulla.
Arresto cardiaco improvviso. L’autopsia rivelò che aveva una patologia cardiaca non individuata, un problema al circuito elettrico. Il suo cuore si era fermato. Ci informarono che era estremamente raro. Ovviamente doveva essere così.
Arrivai di nuovo in ritardo al lavoro, perciò mi assegnarono al reparto svendite.
Accovacciata nella corsia piena di robaccia di vario genere che non voleva nessuno, armata di una pistola spara prezzi, applicavo targhette sulla merce di primavera che non avremmo mai venduto. Disgustose quantità di dolciumi postpasquali, uova di cioccolato e conigli, galline di marshmallow e kit per dipingere le uova: scontati dal 75 al 90 per cento. Poi le rimanenze della Festa della Mamma: bigliettini, scatole di cioccolato con ripieni che non piacciono a nessuno ma che, per qualche motivo, continuano a proporre, come crema di fragole e quello strano liquido alla ciliegia che sa di sciroppo per la tosse: tutto scontato dal 50 al 75 per cento.
Dopo ore e ore di stordimento mentale, finii. Il rumore della pistola minava la mia concentrazione, non mi permetteva né di pensare né di riposare. Ogni neurone del mio cervello si stava svuotando a causa della monotonia di quel lavoro, scivolava via da me per sfrecciare verso gli scaffali con le rimanenze indesiderate di merce a tema festivo.
La mia estate sarebbe stata tutta così.
In pausa pranzo, mi resi conto che ero uscita di corsa da casa lasciando nel frigorifero la busta di carta marrone con dentro un panino al formaggio con mostarda e una confezione di cracker. Ma fortunatamente, dato che Bargain Mart vende qualunque cosa immaginabile – dalla vernice agli pneumatici, ai giocattoli, ai cosmetici, agli attrezzi per la pulizia o per la cucina –, comprai una zuppa di noodle in tazza, una banana e una bottiglia di Dr. Bargain (la finta Dr Pepper della Bargain Mart) prima di tornare nella sala relax.
Ero in fila per il microonde quando tre ragazzi della mia scuola entrarono e si sedettero a uno dei grandi tavoli, cominciando a parlare ad alta voce di una festa prevista per venerdì. Ricordavo il nome di ognuno – in una città di soli 5.479 abitanti, è normale – ma senza conoscerli veramente. Anche loro sapevano chi fossi, un po’ come tutti: la sorella di Mallory, la sorella della ragazza morta lo scorso anno.
Afferrai alcuni stralci di conversazione: «Falò nel bosco» disse uno dei due ragazzi.
«Alla casa di Bowman?» domandò la ragazza. «Ovvio, dove sennò?» rispose l’altro. «Inauguriamo l’estate nel modo giusto» aggiunse il primo, tentando palesemente di fare colpo sull’amica.
Parlavano di Bowman come se fosse un difensore di una squadra di football. Invece non era una persona, almeno non più, bensì un posto.
«Oh, ehi, Maia» fece la ragazza notandomi lì in piedi.
«Ciao!» Sfoderai un gran sorriso finto, sollevai il braccio per salutare, indicai il mio pranzo nella tazza, poi il microonde, giusto per chiarire che non ero lì ferma a origliare.
«Hai saputo della festa alla casa di Bowman?» gridò la ragazza dall’altra parte della stanza.
«Mi pare di sì» risposi a voce alta.
«Dovresti venirci» disse, poi si guardò a destra e a sinistra, come per chiedere silenziosamente il permesso, come se avesse dimenticato cosa era accaduto l’ultima volta che mi avevano invitata a una festa.
Nessuno proferì parola per qualche secondo, e poi intervenne il primo ragazzo, la voce incerta: «Ovvio, voglio dire, vieni, se ti va».
«Grazie» riuscii a biascicare, fingendo di non rammentare la festa della scorsa primavera. «Anche se credo proprio di avere un impegno quella sera.»
«Peccato» fece la ragazza, ma li vidi tirare un sospiro di sollievo collettivo. A un trio di matricole non avrebbe giovato il fatto di invitare un’ospite indesiderata a una festa organizzata dagli studenti appena diplomati.
«Già» aggiunsi anch’io con un sospiro, come se fosse davvero una seccatura.
Fortunatamente, il microonde suonò proprio in quell’istante, la persona davanti a me prese la sua pietanza e potei uscire dalla conversazione. Mi voltai, misi la tazza di noodle sul piatto di vetro rotante, chiusi lo sportello, programmai tre minuti e restai lì a osservarlo girare.