Mi svegliai con quella foto in mente. Quindi mi infilai una felpa e mi recai di nuovo in bici al distributore di benzina. Portai la macchina fotografica di Mallory con me. Fissai ancora quelle parole e le sentii di nuovo opprimermi.
Più restavo lì a contemplarle, meno senso avevano.
«Cosa vuoi da me?» domandai a voce alta.
Sinceramente non sapevo se mi fossi rivolta a Mallory o a me stessa. Cercai di prendere un profondo respiro, ma era avvelenato dall’odore di benzina, che mi arrivò dritto in testa. All’improvviso fui attraversata da un’ondata di stordimento, o a causa dei gas di scarico o perché ero abbastanza sicura di avere una carenza di ferro da quando tentavo di essere vegetariana in un posto dove non si cucina affatto vegetariano.
Guardai di nuovo la parete, le parole scritte a mano, e scossi la testa.
Non ero certa di credere davvero a quella storia della vita dopo la morte e del mondo spirituale. L’atteggiamento dei miei genitori verso la religione era decisamente progressista; desideravano che scegliessimo per conto nostro. Mio padre è cristiano, ma non del tipo che va a messa ogni domenica. Mia madre è ebrea ma, come lui, non va al tempio ogni Shabbat. Aggiungete il fatto di crescere a Carson, una città molto cristiana stile si-va-in-chiesa-ogni-domenica e capirete come io e Mallory eravamo un po’ abbandonate a noi stesse.
Mia sorella aveva mescolato diverse fedi affermando, di recente, che si sentiva più vicina al buddismo che ad altre. Per ciò che mi riguarda, mi sono sempre ritenuta indipendente in materia religiosa. In ogni caso, a volte pregavo. Ma non rivolgendomi a qualche entità specifica, bensì a qualcosa che è là fuori.
Le nostre tradizioni familiari erano:
- Tenere una piccola croce di legno affissa in corridoio e una Mezuzah inclinata sullo stipite esterno della porta.
- Festeggiare Natale e Hanukkah ogni anno, sia con l’albero che con la Menorah.
- Pasqua e Seder.
- Eggnog e Manischewitz.
Ci attenevamo ai rituali basici. Ci concentravamo sulle festività, accendevamo candele, cantavamo e aprivamo i regali. Non avevamo mai affrontato i grandi argomenti con domande tipo: “Se, a livello ipotetico, uno di noi dovesse morire domani, cosa crediamo che accadrà dopo?”.
Inspirai forte dal naso ed espirai dalla bocca. La sensazione di stordimento cominciava a sparire, proprio come la nebbia che ammantava la strada si diradava sotto la luce del sole.
Me ne andai senza risposte, e con tante altre domande.
Nel tragitto verso casa mi bruciavano i muscoli delle gambe. Pedalai intensamente su per la collina. Quando cominciò la discesa, sapevo che avrei dovuto frenare, invece continuai a spingere finché le gomme non giravano così velocemente che i piedi saltavano dai pedali. Premetti sui freni in maniera troppo brusca e per un istante vacillai avanti e indietro, riprendendo stabilità per un pelo.
Lasciai andare le ruote fino a fermarmi in mezzo alla strada, piantai i piedi saldamente sul terreno e fissai in basso verso la strada stretta a due corsie, riprendendo fiato con fatica. Tentai di non pensare alla mia casa a un chilometro e mezzo da lì o a quella del mio vicino o alla vista dalla mia finestra che non cambiava mai, alla città sempre uguale, tranne che per l’assenza di mia sorella. In quello spazio immenso spesso mi sembrava che non ci fosse nulla oltre me per chilometri. A volte amavo quella sensazione, altre era l’inferno.
Mi concentrai sulla brezza che mi colpiva la schiena, il profumo nell’aria, le nuvole che si radunavano sopra di me. Le osservai muoversi rapidamente: una flotta colma di nuvole grigie che si avvicinavano, eclissando quelle morbide e bianche che fluttuavano dietro. All’improvviso, dal nulla, una gigantesca nube scura e temporalesca fu illuminata posteriormente dal sole ancora basso in cielo, che fece splendere il suo orlo argenteo, al che ebbi la netta sensazione che stava per accadere qualcosa.
Quel paesaggio era in una foto di Mallory. Quasi uguale.
Allungai il braccio dietro per prendere dalla borsa la fotocamera di mia sorella. Le nuvole restavano ferme, mi attendevano. Misi la cinghia attorno al collo, sistemai le lenti, la strada lunga che spariva in lontananza, gli alberi come un tunnel e poi il cielo aperto con le nuvole in competizione e la luce magica… Era praticamente la stessa foto che avevo visto affissa alla parete del fienile.
Abbassai la fotocamera per un secondo e chiusi gli occhi. Le mie mani si spostarono verso i punti familiari del manubrio, le dita che si sistemavano nei solchi lasciati sulla gommapiuma. Restai ferma, riempii i polmoni di aria e cercai di percepire qualunque cosa lei avesse provato.
Era come se riuscissi ad assaporare tutto, il sole, le nuvole, gli alberi, la pioggia incombente, la strada, il mio passato, il futuro… tutto sulla mia pelle. Mallory era stata lì e, adesso, c’ero io. Ma per qualche motivo non udii l’auto arrivare.