CHRIS

I miei genitori se ne andarono il giorno successivo, prima del previsto. Li aiutai a rimettere le valigie in macchina e poi ci riunimmo tutti sul portico.

Mio padre mi abbracciò forte, al che provai dolore per via dei lividi lasciati dalla cintura di sicurezza, comparsi ore dopo il mio incidente nella station wagon di Isobel. Mi baciò sulla guancia e poi aggiunse una pacca veloce e decisa sulla schiena. «Siamo solo a una telefonata di distanza, Chris» mi ricordò di nuovo.

Quando toccò a mia madre salutarmi, sinceramente non sapevo cosa sarebbe accaduto. Aprì le braccia, in modo incerto. Mi avvicinai per stringerla, ma si irrigidì, come se tentasse di mantenere uno spazio tra di noi. Quando ci separammo, fece per parlare, ma sembrava che non riuscisse a sforzarsi di dire nulla che potesse suonare gentile o confortante o rassicurante, quindi tacque. Mentre io e Isobel ce ne stavamo fermi a osservarli allontanarsi in auto, avvertii una fitta da qualche parte nel petto che salì lentamente fino a diventare un nodo in gola. Tossii una risata veloce, solo per evitare che mi soffocasse.

Isobel si girò verso di me: «Cosa c’è di tanto divertente?».

Scossi la testa perché non c’era nulla da ridere.

«Che c’è?» ripeté Isobel con un sorriso, tentando di capire.

«Lei mi odia, vero?» domandai, anche se più che una domanda era un’osservazione.

Il sorriso di Isobel svanì. Mi avvolse il braccio attorno alla spalla e mi scosse un po’. «Ma dài, non dire così.»

«Perché no? È vero. Mi detesta, cazzo.»

«Tua madre non ti odia affatto, te lo giuro. Solo che ha bisogno di molto più tempo, ecco tutto.»

Annuii e cercai di crederle.

«E comunque» aggiunse ripensandoci «non dovresti dire “cazzo” davanti a tua zia. Ma insomma, un po’ di educazione, porca puttana!»

Risi di gusto. Isobel sembrava sempre sapere cosa dire per farmi stare meglio.

Si sedette sul gradino in cima, dando dei colpetti in un punto accanto a lei. «Guardiamo il lato positivo» continuò mentre mi sedevo, «tuo padre sembra gestire tutto alla grande.»

Vero, era così. O almeno, lui pensava che fosse così.

Il giorno precedente si era offerto di aiutarmi a sistemare il telescopio, oggetto al quale non si era mai interessato. E la sera scorsa, prima che facesse buio, mi aveva chiesto di seguirlo in garage per aiutarlo ad aggiustare la grondaia pericolante su un lato della casa di Isobel. Mi aveva passato uno per uno gli attrezzi presi dal banco da lavoro di mio nonno, spiegandomi come si chiamavano: staffe, ganci e viti e punte di trapano. Non appena mi aveva messo fra le mani il trapano elettrico, avevo avvertito che era più pesante di quanto paresse. Chissà se l’estate scorsa, quando la mia voce era ancora acuta e flebile, mi avrebbe chiesto aiuto.

Avevamo preso una scala alta e instabile per poi sistemarla su un lato della casa. Mio padre era salito lungo un lato e io sull’altro. Sembrava nutrire parecchia fiducia in me, quando mi aveva ordinato di tenere la mano ferma sotto la grondaia mentre fissava le viti con il trapano elettrico. Aveva sorriso come se fosse orgoglioso. Non sono certo che fosse orgoglioso di me. Forse lo era di se stesso per aver cercato di affrontare la situazione come poteva.

Poi, come se non bastasse, mi aveva portato fuori e aveva aperto il cofano della station wagon, cominciando a mostrarmi dove controllare l’olio e il liquido refrigerante e come si cambiavano le gomme. Mi era parso che tentasse di creare uno strano mix tra riconciliazione, rito di passaggio e momenti padre e figlio da sitcom televisiva, tutto in soli due giorni. Quando avevo osservato con naturalezza che avrei fatto cose simili con lui anche in precedenza, lui aveva commentato con un: «Lo so», però credo che non avesse afferrato il senso della mia affermazione: la mia capacità di usare attrezzi o riparare qualcosa non c’entrava nulla con il fatto di essere uomo oppure no.

«Già, lo so» dissi alla fine a Isobel. «In ogni caso è strano. Credevo davvero che sarebbe successo il contrario e, proprio quando pensavo di averli capiti, loro cambiano ogni cosa.»

«Sai bene che probabilmente anche loro la pensano così di te, ragazzo.»

Aveva ragione. Cercai di guardare la situazione dal loro punto di vista. Davvero. Ma ero ancora così confuso dalle loro reazioni. Mia madre era sempre stata quella calma, comprensiva, di grande supporto riguardo a ciò che volessi fare o essere.

Per esempio in seconda elementare, quando decisi di lasciare gli scout dopo il primo incontro.

In terza, quando ero andato fuori di testa dietro le quinte al concerto della scuola per via del vestito, le calze e quel cazzo di fiocco in testa uguale a tutte le ragazze del coro.

In quarta, quando dissi ai miei che disprezzavo il nome Christina e che da quel momento avrei risposto solo se mi chiamavano Chris, che poi era il nomignolo che già usavano tutti.

In quinta, quando mi rifiutai di provare vestiti che non fossero da maschio durante il nostro shopping di rito in occasione dell’inizio della scuola.

In prima media, quando finalmente mi permise di portare i capelli come volevo. Ricordo così bene quanto fosse raggiante la parrucchiera mentre rigirava la poltrona per farmi guardare allo specchio, cosa provai passando le mani lungo i lati rasati della testa. Era la prima volta che mi osservavo pensando: questo sono io.

In seconda media, quando le confidai di essere attratto dalle ragazze.

In terza, quando andava tutto male e venivo bullizzato ogni giorno per via dei miei capelli e dei vestiti e perché mi piacevano le ragazze.

E poi, in prima superiore, cominciai a sentirmi un estraneo nel mio corpo. Quello stesso fisico che mi aveva servito bene fino a quel momento, così leggero e libero e rilassato, e che riusciva a correre più veloce di ogni altro adolescente del quartiere, che era sempre stato forte e snello, all’improvviso fu appesantito da una morbidezza nuova e da curve a dir poco imbarazzanti che mi spingevano a desiderare di nascondermi dal mondo, da me stesso. Non che mi vergognassi, però mi sentivo sbagliato. E la cosa peggiore era che quel corpo nuovo sembrava portare con sé una serie di regole nuove, di aspettative sul mio modo di pensare, agire, ed essere.

Forse quelle regole erano sempre esistite, ma adesso venivano imposte in modo spietato a ogni occasione.

Quando ne parlai con mia madre, lei cercò di spiegarmi che ogni ragazza si sentiva in quella maniera. Eppure mi chiesi se fosse vero. Era possibile che tutte percepissero con così tanta atroce precisione il mondo riorganizzarsi attorno a loro, con nuovi confini e limiti? Tutte sentivano un dolore così forte avvertendo il peso del proprio corpo? Forse. Ma per me era troppo. Non stavo perdendo solo me stesso, stavo diventando qualcuno che non ero affatto. E mi spaventava.

In ogni caso, fu mia madre ad affrontare quella situazione.

Mio padre era bravo nelle cose leggere. Era facile darmi coraggio alle gare di atletica o dirmi “Bravissima” quando prendevo A. Ma per tutto il resto, manteneva una sorta di distanza, annuendo ogni tanto. Non aveva mai un’opinione su nulla ed era felice di lasciare che fosse mia madre a sobbarcarsi i problemi seri. Cerco di non pensare troppo a molte cose accadute allora.

Correre è d’aiuto. Lo è sempre stato. Dal viale di ghiaia mi diressi lungo la via principale e i miei piedi presero un incedere tranquillo a ritmo con la respirazione. Diventavo ogni giorno più forte. Il sole stava tramontando alle mie spalle, la mia ombra si allungava davanti a me, misurando l’andatura, spingendomi oltre, tenendomi compagnia mentre acceleravo superando la casa blu e il fienile e gli alberi.

Guidando lungo quella strada, l’altro giorno, non avevo notato la pendenza che percepivo invece in quel momento, che mi faceva bruciare i muscoli, provocandomi un dolore sano. Sembrava che il mio corpo riuscisse a calcolare ogni volta che percorrevo un chilometro, perché in quel momento i miei polmoni cominciavano a soffrire e la pressione sulle costole diventava quasi insostenibile. Ciononostante aumentai il ritmo, tenendo duro, ripetendomi di spingere un po’ di più, respirare e darci dentro. Di continuare a respirare. Di continuare ad andare avanti.

In lontananza vidi un altro viale di ghiaia che sbucava sulla strada e mi concessi di rallentare, lo avrei raggiunto per girargli attorno e tornare verso casa. Tuttavia, non appena fui lì, notai che il viale scompariva sotto una fitta copertura di erbacce incolte e una macchia di vegetazione. Vidi una catena, legata a due degli alberi enormi che costeggiavano il viale, da cui pendeva un cartello con scritto: PROPRIETÀ PRIVATA. Provai a sbirciare ma riuscii a vedere solo il bosco. Eppure qualcosa catturò la mia attenzione, un luccichio metallico sotto la luce del sole.

Mi guardai attorno, assicurandomi che non ci fosse nessuno nei paraggi prima di scavalcare la catena. Dopo qualche passo scorsi un manubrio: una bicicletta. Ero certa che fosse quella della ragazza che avevo quasi investito. All’improvviso mi venne in mente un’immagine di lei, simile a una fotografia: i pantaloni del pigiama e il collo e i capelli mossi dal vento.

Riuscii a distinguere l’inizio di un sentiero sterrato con delle orme. Feci un passo e fui assalito da un’ondata di panico. Quella familiare fitta al petto, il respiro affannoso che non riuscivo a controllare, sia superficiale che profondo, il mio corpo che diventava bollente e poi freddo, la sensazione di torpore ai polpastrelli. Era quella vecchia paura che tornava, lenta e malvagia, ad avvolgere il mio corpo, perché l’ultima volta che avevo percorso un sentiero sterrato verso un bosco ero quasi morto.

Di solito, mi allenavo in pista dopo la scuola, ma quando era bel tempo come lo era stato quel giorno – con il fresco perfetto di fine settembre – la nostra allenatrice ci permetteva di correre sui sentieri che si dipanavano nel bosco dietro la scuola. Quell’anno anche Coleton si era iscritto ad atletica. Credo che in parte lo avesse fatto solo per passare del tempo con me, ma soprattutto per rabbonire i genitori. A loro non piaceva che lui stesse seduto a giocare ai videogame, leggere fumetti, guardare film di fantascienza o a impegnarsi in discussioni online sulle attività menzionate. I genitori non l’avevano mai capito e odiavano il fatto che gli altri ragazzi lo ritenessero un tipo strano, ma probabilmente è per questo che siamo diventati amici.

Quando cominciammo la scuola superiore, i suoi genitori gli dissero che doveva impegnarsi in qualche attività, allargare la cerchia sociale. Il sottotesto era che io li rendevo molto nervosi. Credevano che fosse colpa mia se veniva bullizzato di continuo, e io sapevo che mi biasimavano per quella volta in cui qualcuno gli aveva scritto omosessuale sull’armadietto in cubitali lettere rosse. Sapevo che lo sfottevano perché usciva con me, anche se non aveva senso, visto che ero una ragazza. Be’, più o meno.

Comunque, Coleton non era granché veloce né aveva molta resistenza.

Quel giorno cercai di trattenermi dato che eravamo solo noi due in pista, però poi, quasi subito, lo superai di parecchio,.

Con la musica in cuffia, credetti di aver sentito qualcuno chiamarmi, pensai che fosse Cole, ma quando mi girai vidi un altro ragazzo della scuola: Ben. Era fuori dal sentiero, dentro il bosco, insieme ad altri due miei compagni, Tobey e Jake. Non era così inusuale: a volte i ragazzi lo usavano come scorciatoia verso casa.

“Ehi, aspetta!” aveva urlato Ben.

Quello invece sì che era strano. Lanciai un’altra occhiata alle mie spalle, senza badarci troppo perché era impossibile che si stesse rivolgendo a me. Eravamo sempre andati a scuola insieme, ma credo che io e Ben non ci fossimo mai scambiati una parola. Eppure eccolo lì che mi correva dietro. Rallentai e mi fermai troppo di colpo, compromettendo il ritmo della mia andatura.

“Eh?” risposi finalmente, togliendomi le cuffie, la musica che si diffondeva nell’aria.

“Ehi bella, vieni a vedere” mi disse in modo rilassato, come se parlassimo di consueto. “Abbiamo preso dei fuochi d’artificio” continuò, indicando un punto dietro di sé, dove Tobey e Jake erano in attesa. “Stiamo per accenderli. Ti unisci a noi?”

Scrollai le spalle, fingendo di riflettere prima di declinare educatamente. “No, non credo” risposi, tentando di riprendere fiato. “Devo continuare a muovermi.” Feci un paio di passi, preparandomi a uno sprint prima che i battiti si abbassassero troppo.

“Va bene” commentò, sollevando le mani come se l’avessi insultato. “Cercavo solo di essere amichevole, scusa. Non lo rifarò mai più.” Era un’altra di quelle regole implicite con cui stavo acquisendo familiarità. Se sei una ragazza, i maschi cercheranno di farti sentire in colpa per averli rifiutati, qualunque sia la circostanza. La cosa veramente terribile è che a volte ci riescono.

Avrei dovuto saperlo. Ma era così bello pensare, anche sbagliando per un solo istante, che forse desideravano davvero essere amichevoli. E che forse mi consideravano. Non ero il maschiaccio, né la lesbica o quella strana. Ero solo io. Mia madre non ripeteva di continuo che dovevo dare la possibilità alla gente di vedere quanto fossi meravigliosa dentro?

“Aspetta” ci ripensai mentre cominciava ad allontanarsi. “Magari un minuto posso.”

Si girò e sorrise, osservando: “Grande” con lo stesso tono naturale di prima. “Vieni.”

Mentre li seguivo nel bosco, lontano dal sentiero, continuai a guardarmi alle spalle per controllare se Coleton mi avesse raggiunto, ma non scorsi nessuno.

Una minuscola voce dentro di me mi sussurrò una sola parola: “Corri”.

Ma ero diventato piuttosto bravo a ignorare le voci nella mia testa.