Alcuni posti sono infestati dalle cose che vi sono accadute, ma credo che altri lo siano dalle idee. Credo che la casa di Bowman lo sia in entrambi i modi. Se esistesse ancora, si troverebbe a qualche chilometro dalla mia e i Bowman sarebbero i miei vicini più prossimi, subito dopo Isobel.
Circolavano parecchie storie su ciò che era successo: non era chiaro se fosse stata colpa di un incendio o semplicemente dell’impianto elettrico vecchio, né se il signore e la signora Bowman e il figlio adolescente fossero morti nella casa o più tardi, in ospedale. Era accaduto negli anni Quaranta e non credo che qualcuno si sia mai preoccupato di verificare i fatti. I ragazzi l’hanno sempre utilizzata come ritrovo nel weekend, organizzandoci feste, sedute spiritiche e roba simile. I miei genitori mi hanno raccontato che funzionava così anche quando loro avevano la mia età.
Anch’io di recente ci vengo spesso, ma non per quei motivi.
La casa di Bowman mi ha sempre terrorizzato, ma la visito spesso da quando è morta Mallory perché era uno dei suoi posti preferiti. Diceva che lì era successo un evento intenso e importante, e questo significa qualcosa. La casa era completamente bruciata. C’erano solo le fondamenta, insieme a porzioni di pareti in pietra, il caminetto di mattoni e il focolare con il comignolo che saliva su, fino a quello che era stato il secondo piano, immobile in mezzo alle macerie.
Mia sorella aveva scattato un’infinità di foto lì; quel luogo aveva una storia da raccontare, sosteneva lei, e desiderava darvi una voce. Gli scatti della casa di Bowman erano la serie di immagini che aveva inviato alla rivista di Washington per ottenere il lavoro che non avrebbe mai cominciato.
Mia sorella credeva che quel posto fosse magico, io invece giudicavo lei una persona morbosa.
In quel momento avevo la sua fotocamera con me e speravo di vedere quel luogo attraverso i suoi occhi, cosa lo rendeva così bello per lei. Seduta a gambe incrociate su una lastra fatiscente di calcestruzzo, lo sguardo verso il camino, cercavo di ascoltare la storia che, secondo Mallory, la casa voleva raccontare; ma la mia mente continuava a tornare al momento in cui ero quasi morta in strada.
Sentii qualcosa alle mie spalle, un fruscio tra le foglie. Immaginai che fosse un uccello o uno scoiattolo, ma poi un ramoscello si spezzò troppo vicino a me. Mi girai di scatto e vidi che era lui: Chris.
«Ah, scusa» disse rendendosi conto di avermi spaventata. «Stavo solo…»
«Oddio, proprio inquietante» borbottai. Sentii le guance avvampare, ero in imbarazzo per essere stata colta di sorpresa a fare qualcosa di strano – ascoltare la casa – e per essere stata maleducata e infine perché ero in imbarazzo. Mallory non si sentiva mai così, non provava mai vergogna.
Mi sollevai da terra e mi tolsi la polvere da ginocchia e mani, sperando che non mi avesse sentita.
«Mi stavo allenando» fece incerto. Ma dopo una pausa domandò: «Aspetta, alludevi a me o a questo posto?».
«Be’, a te, però…» mi girai a guardare di nuovo la casa, «credo tu abbia ragione, vale per entrambi.»
Abbassò lo sguardo e rise, come se fosse lui in imbarazzo, ora. «Giuro che non sono un maniaco, o roba del genere.»
«Scusa» dissi. «Mi hai semplicemente colta di sorpresa.»
Si avvicinò di un passo, al che lo vidi esaminare la stanza, mentre strizzava gli occhi valutando l’altezza del camino. «Abiti qui?» chiese.
«No…» risposi lentamente, tentando di non ridere, anche se sentivo l’angolo della bocca contrarsi. «Non ci vive nessuno, qui.»
«No, non intendevo in questa casa, ho visto il cartello di proprietà privata accanto alla strada. Ho pensato che forse vivessi in un altro punto all’interno di questo posto.» Si guardò attorno, come per cercare strutture limitrofe, ma non ne trovò. «Te lo chiedo perché ti ho vista qui vicino, l’altro giorno.»
Ci scambiammo brevi sguardi imbarazzati; nessuno dei due voleva mostrarsi così all’altro troppo a lungo.
«Vuoi dire quando mi hai quasi investita?» domandai, sperando capisse che scherzavo. Era la prima volta da tantissimo tempo che parlavo con qualcuno che non mi conosceva da sempre. Si mise a ridere, al che mi rilassai un po’.
«Già, mi dispiace, probabilmente mi sono distratto.» Si avvicinò alle fondamenta, dove mi trovavo io, in modo che fossimo nello stesso punto, occhi negli occhi, eravamo alti uguali, e fui costretta a guardarlo attentamente. Aveva uno di quei visi perfettamente simmetrici.
Di profilo i suoi zigomi erano in linea con il naso, nella stessa angolazione parallela, come se fossero stati scolpiti, i tratti decisi ma armoniosi. E poi il taglio di capelli rasato – molto alla moda e volutamente scompigliato che non assomigliava affatto a quello tradizionale a spazzola, squadrato e netto, tipico di Carson.
“I visi perfetti sono noiosi” ripeteva Mallory.
Stavo per distogliere lo sguardo, pensando che i suoi tratti fossero noiosamente affascinanti, quando si avvicinò ancora e notai che aveva una piccola cicatrice a forma di uncino sotto un occhio; lo studiai di nuovo in volto, lui sorrise e il mio sguardo fu attratto dalla fossetta su un solo lato della bocca.
Presi a radunare le mie cose: la fotocamera di Mallory, il mio telefono, la borsa, se non altro per costringermi a smetterla di fissargli la bocca. «Non preoccuparti, mi ero distratta anch’io.»
«Cosa è successo a questa casa?» domandò.
«Il tempo» risposi d’istinto, senza considerare che poteva suonargli strano, ma solo perché ultimamente mi ero posta la stessa domanda parecchie volte. «Un incendio, in realtà, e poi il passare del tempo.»
Annuì e rifletté. «Quindi… ti piace fotografare?» chiese, indicando la macchina fotografica. Abbassai lo sguardo verso quell’oggetto ancora poco familiare tra le mie mani, che non era del tutto mio, e all’improvviso ebbi timore di dire qualcosa circa il fatto che mi aveva vista scattargli una foto, l’altro giorno, perciò sparai la prima risposta stupida e sulla difensiva che mi saltò in mente.
«A te invece piacciono… le chiacchiere?» Ma poi rettificai aggiungendo: «Scusa».
«A te no, suppongo, giusto?» replicò con garbo, schivando la mia maleducazione. Scrollò le spalle e continuò: «Be’, neanche a me».
Ripensai alle parole di mia madre. Ma osservandolo non mi pareva uno problematico. Mi guardai la maglietta squallida di Bargain Mart, non avevo il diritto di giudicare nessuno, soprattutto con quella indosso.
«Mi chiamo Maia.»
«Lo so» affermò, indicandomi il petto. «È sulla targhetta.»
«Giusto» borbottai. Avvertii il bisogno di interrompere il silenzio che stava subentrando perciò aggiunsi: «Sono la tua vicina, abito nella casa blu, quella con il fienile vecchissimo, in fondo al campo davanti a casa di tua zia».
Strinse gli occhi. «Adesso chi è il maniaco?» domandò accennando un sorrisetto, come se stesse scherzando ma solo in parte. Dato che non risposi si guardò attorno, verso la barriera compatta di alberi che ci circondavano, e chiese: «È davvero possibile avere dei vicini in questo posto? Per me un vicino è uno a cui sbircio in casa dalle mie finestre e con cui ci impicciamo entrambi degli affari dell’altro costantemente».
«Forse ti stupirà» gli dissi, pensando alle voci sul divorzio dei miei, anche se immagino che alcune tecnicamente fossero vere. «Ma la vicinanza non implica che ci si debba impicciare degli affari altrui.»
«E allora come fai a sapere dove abito?» domandò alla fine.
«Sei nuovo in città.»
Aggrottò le sopracciglia, sembrava confuso riguardo alla correlazione. «Quindi?»
«Quindi tutti sanno già gli affari tuoi.»
Aspettò un po’ prima di chiedere. «Cosa hai sentito?»
«Non molto. Eccetto che potresti essere in qualche modo un adolescente problematico.» Mimai delle virgolette con le dita.
«Adolescente problematico.» Sollevò le sopracciglia e si grattò la nuca guardandosi attorno a disagio. «Cosa significa?»
«Alcol, droga, atti vandalici, problemi con l’autorità in generale» scherzai.
Al che sembrò rilassarsi; gli spuntò un sorriso. «E guida spericolata?» domandò, la fossetta che formava una sorta di segno di punteggiatura delle sue parole.
Ricambiai d’istinto il sorriso.
Continuò: «Rispondo solo della guida spericolata, ma per il resto, giuro che la mia vita non è così eccitante».
Iniziò ad avvicinarsi e il mio cuore all’istante prese a battere più forte, al che avvertii una lieve fitta di terrore allo stomaco. Guardai la macchina fotografica, fingendo di usare i tasti. Sentii uno strano nervosismo attraversarmi il corpo e sperai che lui non lo notasse.
«Devo andare» gli dissi, cercando di essere spavalda come Mallory mentre lo superavo, risistemando la fotocamera nella borsa. Lui mi seguì fuori dalla boscaglia fino al sentiero di erbacce e chiazze di terra umida e spoglia dove avevo lasciato la bici.
«Mi ha fatto piacere conoscerti» osservò. «Ufficialmente.»
«Già» concordai mentre portavo la bici in strada.
Quando iniziai a pedalare lentamente, mi corse incontro affiancandomi e fece: «Aspetta. Ho dimenticato di dirti come mi chiamo». Aumentai la velocità. «Chris!» strillò, rallentando fino a camminare.
«Lo so!» gridai mentre mi allontanavo rapidamente, lasciandomelo alle spalle.