Chiudendo la porta, la feci sbattere involontariamente. Isobel mi chiamò dal salotto. Lanciai le chiavi sul tavolo della cucina, proprio mentre lei entrava nella stanza. «Sei tornato presto.»
«Già» fu tutto ciò che dissi, la voce tesa e stanca. Avevo guidato senza meta per un’ora, tentando di calmarmi, ma sentivo ancora l’adrenalina ribollirmi nel corpo e nel cervello. Mi pareva di dover correre una maratona per smaltirla.
«Che c’è?» domandò.
«Niente.»
«Qualcuno ti ha fatto qualcosa?»
«Oddio, no!» Stavo camminando su e giù, ma la cucina era troppo piccola e sembrava che fossi intrappolato in una gabbia, perciò cercai di restare fermo. «Solo che… non so nemmeno perché mi sono preso il disturbo, la gente è stronza ovunque.»
Ricominciai a camminare su e giù, peggio di prima. «Lasciamo perdere, me ne vado in camera.»
«Aspetta, aspetta» fece lei, allungando le braccia verso di me. «Avanti, racconta.»
Indietreggiai e sollevai le mani così che non potesse sfiorarmi. Non sopportavo di essere toccato e mi odiavo per quello.
«Voglio solo stare da solo, zia Isobel, okay? Ti prego.»
«Va bene» acconsentì in tono dolce. «In ogni caso, sono qui, okay?»
Annuii e cominciai ad allontanarmi.
«Ti voglio bene, ragazzino» aggiunse alle mie spalle. Non riuscii a risponderle nulla.
Quando fui nella mia stanza, anche se volevo sbattere pure quella porta, non lo feci. Mi tolsi le scarpe e le lanciai sul pavimento, vi gettai pure la giacca. Non mi preoccupai neanche di sbottonarmi la camicia, me la sfilai dalla testa, la appallottolai e la tirai in un angolo, la maglietta è sempre l’ultimo capo di abbigliamento che levo, infatti mi stavo per liberare dei jeans quando mi vibrò il cellulare in tasca: era Coleton.
Come va la festa?
Mi pentii di avergliene accennato, e di averlo fatto entusiasmare, e anche di tutto il tempo che ci avevo messo a prepararmi, di quello sciocco ottimismo. E di quanto mi fossi sentito orgoglioso per un minuto pensando che non dovevo più indossare uno sopra l’altro reggiseni sportivi e top in elastan perché mio padre mi aveva permesso di buon grado – ma non certo felicemente – di usare la sua carta di credito per comprare delle vere fasce contenitive. Rimpiansi di essermi sentito così sicuro di me guardandomi allo specchio mentre mi passavo le mani sul torace. Ma la cosa di cui mi rammaricai di più era stato credere di aver stretto amicizia con un paio di persone qui o che la vita potesse essere davvero diversa, che potessi sentirmi normale per una volta, qualunque accidente di cosa significasse quella parola.
Guardai lo schermo per un istante, riflettendo su cosa rispondergli, ma poi lo girai verso il comodino. “Dopo” mi dissi, “gli scrivo dopo.”
Provai a uscire sulla pedana, ma le nuvole erano fitte e coprivano le stelle, la luna splendente ma offuscata. Tornai dentro e spensi la luce prima di spogliarmi del tutto. Dovetti cercare il pigiama al buio. Non potevo rischiare di scorgere il mio corpo allo specchio, non quella sera in cui odiavo già tutti e tutto, e Coleton era all’oscuro di come mi sentivo, e zia Isobel non era la persona con cui desideravo veramente confidarmi, anche se a volte, per certi versi, ci si avvicinava parecchio.
Mi sdraiai sul letto e fissai il soffitto. Mi avvolsi nelle coperte e poi le tolsi di nuovo. Mi raddrizzai sulla schiena e risistemai il cuscino, mi sdraiai per la seconda volta, chiusi gli occhi e li riaprii. Avevo combinato un casino con Maia, proprio quando sembrava che potesse nascere qualcosa. Non riuscivo neanche a rifletterci. Quella serata mi aveva sconvolto i pensieri, costringendomi a riordinarli come mobili, aveva trasformato la mia mente in un labirinto di vecchi ricordi che si scontravano con quelli nuovi, confondendomi. Chiusi gli occhi ed eccolo lì, l’inevitabile ricordo che riaffiorava da quel punto in un angolo della mia mente: Quel Giorno. Tutto ciò che era accaduto dopo.
I miei genitori avevano sporto denuncia contro i tre ragazzi che mi avevano picchiato. Furono espulsi da scuola per il resto dell’anno. I loro genitori dovettero pagarmi le spese sanitarie e loro sarebbero rimasti in libertà vigilata fino ai diciotto anni. Bella punizione del cazzo: quelli avevano già finito con gli stupidi servizi sociali quando io ero ancora inchiodato a un letto.
Le due costole che mi avevano rotto erano migliorate parecchio, anche se le prime settimane di esercizi di respirazione con Isobel erano state strazianti, tanto che avrei smesso volentieri di inalare aria se fosse stato possibile. L’operazione per risistemarmi il naso rotto e la frattura dell’orbita all’occhio destro era andata bene; nel giro di qualche settimana erano guarite anche l’ammaccatura al fegato e la caviglia slogata. Tuttavia dovevo ancora indossare un busto per la frattura spinale e affrontare svariate settimane di fisioterapia prima che si ristabilisse.
Fu grazie a Coleton che riuscii a non andare fuori di testa. Era l’unico legame che avevo con il mondo esterno, soprattutto dopo che Isobel era tornata a casa sua. Passavo gran parte delle giornate seduto o a letto, finendo di seguire le lezioni online in modo rapido dato che erano facilissime. Un libro al giorno, a volte anche di più.
Poi, una notte, mentre i miei genitori dormivano, mi misi a guardare una serie infinita di video su Internet, tutti quelli che riuscivo a trovare su come diventare transgender. Su come cambiare sesso. Non ci fu bisogno che li guardassi tutti, in ogni caso, perché già nel primo, un tizio raccontava quella che praticamente era la mia vita in soli trenta secondi. Qualcuno dal lato opposto del mondo, che non conoscevo e che non avrei mai incontrato, mi comprendeva come me stesso. Avevo sempre creduto in un universo infinito di cui in qualche modo ero parte, o almeno mi ero sforzato di farlo; e, forse per la prima volta, cominciavo finalmente a intravedere un modo per renderlo possibile.
In quel momento la voce nella mia testa cominciò a cambiare, non diceva più che ero inaccettabile. Era diversa, anche se l’avevo già sentita in passato, era la stessa che mi aveva suggerito di scappare quel giorno nel bosco, la stessa che mi aveva sussurrato ogni ora in un milione di modi che quella non era la vita che avrei dovuto condurre. L’unica cosa giusta era la mia mente, perché non era confusa e conosceva la propria natura. Mentre me ne stavo solo nella mia camera quella voce si fece sempre più insistente e forte, finché non potei più ignorarla.
Isobel fu la prima persona con cui mi confidai. Non esitò neanche un istante, confermandomi subito che sarebbe sempre stata dalla mia parte, in qualunque circostanza. Aveva proprio detto così: per sempre. In qualunque circostanza.
A Coleton lo rivelai un giorno in cui passò dopo la scuola, come accadeva spesso il pomeriggio. Mi portò i libri presi dalla biblioteca, raccontandomi quanto la scuola fosse insopportabile senza di me, cosa che apprezzai molto, nonostante sapessi che era il solo a pensarla così. Giocammo ai videogame come d’abitudine.
Tuttavia, dopo aver combattuto la stessa battaglia per ore e aver perso orribilmente, alla fine disse: «Meglio che torni a casa dopo questa».
Capii che era quello il momento, o non avrei più trovato il coraggio. Misi il gioco in pausa. Presi un respiro profondo, ero diventato così bravo a inspirare ed espirare lentamente che non sentivo neanche più dolore. Coleton mi guardò, come se fosse consapevole che stavo per fare una dichiarazione importante.
«Che c’è?» domandò.
«Vorrei semplicemente parlarti di una cosa.»
Appoggiò il controller sul pavimento e si girò verso di me. «Okay.»
«Sai che esistono delle persone che sono nate in un modo, ma poi tipo, cambiano corpo?» cominciai.
«Okay» ripeté, strizzando gli occhi.
«Insomma, è come se il loro corpo non corrispondesse alla mente.»
«Okay, okay» confermò di nuovo, con meno sicurezza, stavolta.
Mi fermai, e feci un altro respiro pieno e profondo. Non mi stavo spiegando bene, lo sapevo, ma non riuscivo a pronunciare quella parola: transgender. Sembrava proibita, quasi appartenesse a una lingua che nessuno osava parlare, o almeno nessuno che conoscessi.
«Tipo qualcuno che ha il corpo di un ragazzo, e invece si sente una ragazza. Oppure magari ha il corpo di una ragazza, ma il resto è come di un ragazzo, voglio dire non proprio come un ragazzo vero e proprio. Tu sei un ragazzo. Alla fine queste persone decidono di cambiare il proprio corpo.»
«Okay» continuò a ripetere, cominciando finalmente a capire. «E?»
«Be’, io sono così» dichiarai.
Fissò il tappeto e lo spazio che ci separava, per un tempo che mi parve infinito. «Sembra una cosa piuttosto estrema, non credi?»
Il cuore smise di battermi. Non riuscivo a comprendere se per rabbia, tristezza, o paura. Non era la reazione che mi aspettavo da lui. «Perché dici così?» domandai, avvertendo il nervosismo nella mia voce.
«Senti, sembri già un maschio. Voglio dire, non offenderti o altro, ma gran parte delle persone non si accorgerebbe della differenza. Ricordi le ragazze che abbiamo conosciuto al centro commerciale, quella volta?» domandò nel tono che usava spesso allora, come se tentasse di rallegrarmi.
«Sì, quando mi sono fatta dare il numero di una tipa.» Tornava sempre su quell’episodio se avevo bisogno di positività, solo che stavolta non avrebbe chiuso la questione lì. «Ma poi non ho avuto il coraggio di chiamarla, perché non avrebbe avuto senso. Oddio, Coleton, questa faccenda non c’entra nulla con le ragazze!»
«E io che ne so?» Sollevò di scatto le mani. «Non ho idea di cosa dire, okay?»
«E inoltre, non è che sembro un maschio. Quando eravamo bambini, forse; in ogni caso, il problema non è avere l’aspetto da ragazzo.»
«Qual è, allora?»
«Non si tratta di come voglio apparire. Ma di come desidero… essere. Essere come realmente sono. Sentirmi una persona completa. Non una che confonde gli altri e viene guardata di continuo in modo strano.»
Rifletté un istante prima di rispondere. «Sai che non ti ho mai considerato esattamente una ragazza, vero?»
Tre mesi prima, forse gli avrei creduto. Allora magari lo pensava davvero.
«Persino dopo ciò che è accaduto?»
Guardò in basso, di nuovo verso un punto del tappeto. «Il motivo è quello?» chiese. «Perché non puoi permettere a quelli lì di…»
«No!» lo interruppi. «Si tratta di quello e anche di tutto questo» indicai la stanza, il busto, i libri, il videogioco e tutto ciò che era diventata la mia vita. «Mi ha aiutata a rendermi conto che non posso più aspettare di vivere la mia vita, altrimenti il mio mondo non farà che rimpicciolirsi. Non posso più avere paura. Io sono sempre stata così. Non posso continuare a mentire a me stessa e agli altri.»
Restò seduto in silenzio per alcuni minuti, ma forse furono solo una manciata di secondi. «Non voglio litigare con te. Desidero solo assicurarmi che tu ci abbia riflettuto seriamente.»
«Credimi, non penso ad altro.»
«A posto» concluse alzando le spalle.
«A posto» ripetei. «Ne sei sicuro?»
«Certo» mi tranquillizzò, prendendo il controller dal pavimento e indicando con il mento il mio, che tenevo ancora stretto tra le mani. «Ne facciamo un’altra, ti va?»
Mentre eravamo seduti a giocare, mi stupii del fatto che l’atmosfera fosse come al solito, ma un po’ più leggera. Dopo qualche minuto cominciò a ridere e mise di nuovo in pausa, si girò a guardarmi con gli occhi sgranati. «Porca merda, cosa diranno Joe e Sheila?»
Anche se non c’era nulla di divertente sulla reazione dei miei genitori circa ciò che gli avevo appena confidato, ero scoppiato a ridere in maniera così fragorosa che i polmoni, le costole e la schiena mi fecero male. Se le cose tra me e Coleton fossero restate come quel giorno, allora la nostra amicizia sarebbe continuata bene. Ma non era andata così.
Fu per quello che alle 2.43 del mattino mi tirai su con la schiena, l’odore della brace ancora sulla pelle e sui capelli, presi il cellulare dal comodino e gli scrissi l’unica risposta che reputavo possibile, nonostante fosse una bugia: “È stata fantastica”.