CHRIS

Proprio mentre stavamo per andare via, un uomo venne alla porta e la aprì. Aveva circa l’età di mio padre, e forse i capelli meno grigi. Indossava una polo con la scritta: PED-X CYCLE.

Ci aprì, mi guardò e fece: «Entrate».

«Non è chiuso?» domandò Maia.

«Non se trovate ciò che vi serve entro cinque minuti.» Mi guardò di nuovo e sorrise, anche se era stata Maia a rivolgergli la domanda. «Allora, come posso aiutarvi?»

Indicai Maia, che lesse la lista sulla sua mano e rispose: «Ho entrambe le gomme sgonfie, perciò mi servono due tubi pneumatici, una pompa e delle leve». Parlò in tono sicuro, come se non fossimo appena stati insieme in macchina a guardare video per la prima volta.

Osservai il viso dell’uomo mentre la ascoltava, o piuttosto non la ascoltava affatto, e capii come mai all’improvviso sembrasse un’altra persona. Era irrequieto mentre Maia rispondeva, continuava ad aprire la bocca come se volesse interromperla, strizzando forte gli occhi e corrugando la fronte, come se lei dicesse cose senza senso, nonostante ce l’avessero.

«Cominciamo dalle basi.» Mi guardò. Di nuovo. «Sai di che grandezza sono le gomme?»

Conoscevo bene quel modo di fare, quel tizio era un imbecille. Mi avevano trattato così parecchie volte.

«Chi io?» replicai. «No.»

«Lo so io, sono le mie» ribatté Maia con fermezza.

«Ricordi tutti i numeri stampati sul fianco dello pneumatico?» Spostò di nuovo gli occhi verso di me, poi su di lei, come fosse una sfida più che una domanda. Maia estrasse il telefono dalla tasca e replicò: «Certo, ho anche una foto».

Stava rimettendo al suo posto quel negoziante misogino.

«Ehi, ti lascio proseguire, vado a dare un’occhiata là in fondo» la avvertii.

Lei annuì e, quando mi guardò, capii che stavamo condividendo un momento di complicità silenziosa.

«Bene» intervenne l’uomo mentre mi allontanavo. «Vediamo di che tipo sono.»

Diedi un’occhiata all’abbigliamento da ciclismo, ai tessuti in Lycra, e mi chiesi se potessero tornarmi utili per la corsa. Superai uno specchio da terra e non riuscii a evitarlo. Tirai in basso l’orlo della maglietta, assicurandomi che il mio petto fosse totalmente piatto. Ma proprio in quell’istante nel riflesso, accanto a me, comparve Maia.

«Ehi» fece. «Andiamo?»

L’uomo chiuse la porta e noi due restammo fermi, lei con la busta colma di articoli, e io che speravo non avesse notato che mi ero controllato allo specchio.

«Allora» dissi, guardandomi attorno. «Qual è il programma, adesso?»

In lontananza risuonò lo scoppio di un fuoco d’artificio, come se fosse una risposta alla mia domanda. Sollevammo lo sguardo, cercandolo, ma c’era troppa luce per riuscire a individuarne la provenienza.

Lei alzò le spalle e si guardò attorno, come avevo fatto io. «Tra poco sarà buio» iniziò. «Non lo so. Magari dovremmo tornare?»

«Sul serio?»

«Già» osservò con voce esitante. All’improvviso ebbi la sensazione di non aver compreso qualcosa. «Intendo dire che non c’è nulla di aperto per via della festa.»

«Potremmo passeggiare un po’?» Guardai in fondo alla strada, verso la serie di negozi apparentemente colma di potenziale, di così tante possibilità; eravamo lì a vivere la nostra vita, senza chiedere il permesso a nessuno. Desideravo ardentemente restare.

C’era molta tensione tra noi; mi girai, e riconobbi qualcosa nella sua espressione e nel tono della voce quando commentò: «No, voglio tornare. Non ho neanche detto alle mie amiche che me ne andavo».

Fui assalito dalla sensazione di essere un idiota. Ero un ragazzo. Ero solo uno sconosciuto in un posto lontano da casa, semideserto, e stava per diventare buio e nessuno sapeva dove e con chi fosse lei. Certo che la capivo.

«Okay, benissimo. Andiamo.»

Mentre tornavamo alla macchina, non sapevo quale fosse la cosa giusta da dire. Avevo così tanti pensieri diversi che mi giravano in testa. Era un’emozione strana, bella ma bizzarra – e non in quanto ragazza che in realtà era un ragazzo, o in quanto ragazzo che in realtà era una ragazza – quella di essere considerato semplicemente come un maschio.

Poi dovetti rammentare a me stesso di come potevano essere gli uomini, quello che gli viene insegnato. Non solo a comportarsi in modo maleducato e borioso come il tizio del negozio, ma anche a essere cattivi e pericolosi. Non lo avrei mai dimenticato; era sempre in un angolo della mia mente. Avevo una lista intera di episodi accaduti, e non erano tutti terribili come ciò che era successo quel giorno nel bosco. Ma era un elenco colmo di aneddoti più lievi, uno sguardo particolare di un ragazzo mentre attraversavo il corridoio della scuola, o un tizio che mi camminava troppo vicino in strada, o un uomo seduto accanto a me sull’autobus che si prendeva troppo spazio, lasciando che la sua coscia toccasse la mia. Tutti gesti innocui, in apparenza, che gli uomini compiono ogni giorno e che possono essere oltremodo intimidatori. E loro ne sono inconsapevoli.

Non sarei mai stato quel tipo di uomo.

Quindi se Maia affermava di volersene andare, l’unica cosa che avrei dovuto fare era riportarla a casa, senza tentare di persuaderla a cambiare idea o controbattere o suggerire alternative, nonostante fossi in buona fede. L’unica cosa che dovevo dirle era: “Certo, andiamo”.

Cominciavo a capire che essere un ragazzo implicasse un onere, diverso dall’essere una ragazza. Richiede la responsabilità di comportarsi non solo in modo decente, come gli altri, di non spaventare o agire in modo cattivo o pericoloso, ma soprattutto di non dimenticarselo mai.

Mentre percorrevo quella strada sconosciuta con una ragazza sconosciuta, mi ritrovai a domandarmi se anche gli altri ragazzi fossero consapevoli di quei doveri che mi trovavo ad affrontare all’improvviso, esattamente come in passato mi ero chiesto se le altre ragazze avvertissero come me il peso di avere un corpo femminile.

Una volta raggiunta l’auto, mi misi alla guida; avrei tanto voluto dirle che non facevo pensieri su di lei. Non esattamente, in ogni caso, cioè nulla di perverso né di pericoloso. E che volevo solo frequentarla. Conoscerla. Non cercavo né mi aspettavo altro.

Passarono dieci minuti prima che chiedesse: «Chi è?», guardando la radio come se si fosse accorta solo in quel momento che c’era la musica.

«Non lo so, era in dotazione con l’auto» risposi ridendo. Aggrottò le sopracciglia come se tentasse di capire che diavolo intendessi o se fosse una battuta. «È una cassetta che mia zia teneva in macchina. Ce ne sono parecchie altre lì dentro.» Indicai il cruscotto.

Lei si guardò attorno, come se vedesse l’auto per la prima volta, rendendosi conto che era vecchissima. Aprì il cruscotto e scrutò all’interno.

«Ti faccio una rivelazione» cominciai, sperando di sollevare l’umore. «È per quello che ti ho quasi investito l’altro giorno, in strada.»

«Cosa intendi?»

«Stavo rovistando tra le cassette e mi sono distratto.»

Rise. «È bello sapere che sarei morta per un buon motivo. Mi piace… la musica.»

«Già» concordai. Volevo aggiungere qualcos’altro riguardo al tizio del negozio di biciclette, rivelarle che mi ero accorto che si comportava da stronzo e chiederle se era per quello che aveva preferito andare via, se si era infastidita. Tuttavia probabilmente conoscevo già la risposta.

Stava facendo buio, il sole era appena tramontato. C’era la luna nuova quella notte e il cielo era chiarissimo, peccato per i fuochi d’artificio che l’avrebbero macchiato di fumo e sostanze chimiche. Venere stava sorgendo a ovest, e io desideravo sentirla parlare ancora, ascoltare la sua voce, perciò virai sull’argomento che conoscevo meglio.

«Ehi, guarda che luna, Maia.»

Sollevò lo sguardo oltre il tergicristallo. «Dove?»

«A ovest.»

«Dove?» ripeté, la voce allegra. «Devi dirmi destra o sinistra.»

«Lì» indicai alla sua destra. «La vedi?»

«No…» rispose.

Mi chinai leggermente verso di lei, attento a mantenere la macchina al centro della corsia, e guardai in alto, indicandole precisamente il punto. «Vedi? È luna nuova, per quello è buio adesso e puoi vederne perfettamente il contorno.»

«Oh, wow» sussurrò. «Sì, lo vedo.»

«Mi piace tantissimo, così» osservai.

«È splendida.»

«Già, oltretutto quando la luna è scura è più facile vedere il resto, le stelle e i pianeti, intendo.»

«Sembra finta» scherzò. «Tipo un ritaglio o qualcosa di simile appeso lassù da qualcuno.»

Mi piaceva il suo modo di vedere le cose; immagino che fosse perché era un’artista.

«Vedi quella stella luminosa accanto alla luna, appena sotto a destra?» domandai. «Sai cos’è?»

Strizzò gli occhi verso quel punto di luce. «È veramente una stella? È così brillante.»

«No, è Venere.»

Sorrise guardando il cielo. «È pazzesco pensarci» fece, al che aspettai che finisse. Contai in silenzio: uno, due, tre.

«Cosa?» le chiesi alla fine. «Cos’è pazzesco?»

«Pensare che ci troviamo sulla Terra, al fatto che se ne sta ferma là fuori nello spazio, in mezzo al nulla.»

Mi morsi la lingua, reprimendo il desiderio di correggerla o spiegarle che la Terra non se ne sta semplicemente lì in mezzo al nulla. Da dove avrei cominciato? Dalle leggi di Keplero sul moto planetario? Da Galileo? Newton? Dalla relatività generale? L’intera cronologia della storia della fisica mi attraversò la mente a ripetizione.

«Okay, non fare l’espressione così inorridita» osservò sbuffando. «Lo so che non è esattamente così.»

«Scusami» feci. Mi sentii in imbarazzo; potevo diventare snob quando si affrontava quell’argomento.

«So che a voi piace pensare che noi del Sud siamo stupidi, ma non sono un’imbecille totale, che tu ci creda o meno. Capisco benissimo che si regge tutto sui principi di gravità e sulle orbite, e altro. Volevo solo dire che…» Si fermò, cercando le parole, e stavolta non riuscii a evitare di interromperla.

«Non penso affatto che voi del Sud siate stupidi.»

«Ok» intervenne lei, ma dal modo in cui incurvò la bocca intuii che non mi credeva.

«I miei genitori sono cresciuti qui, proprio come te, e non li ritengo degli scemi.»

«Però tu non sei di qui.» Strizzò gli occhi, come se tentasse di guardarmi meglio. Sentii il cuore battermi sempre più veloce. «Fammi indovinare… sei cresciuto in… Connecticut?»

«Connecticut? No.»

Mi fissò ancora più intensamente, con un lieve sorriso. «Massachusetts?»

Sorrisi anch’io. «No» risposi, chiedendomi a che tipo di criterio corrispondessi nella sua testa per rientrare in quelle categorie.

«Ho capito» disse alla fine. «New York.»

Esitai, ma poi mi arresi. «Okay, giusto. E allora?»

«Niente» scrollò le spalle. «Si vede.»

«Da cosa?»

«Forse dal modo di camminare.»

All’improvviso desiderai sapere come le sembrava la mia voce, avrei voluto non esserne così preoccupato e in imbarazzo. Per anni, prima degli ormoni, avevo sempre usato intenzionalmente un tono basso, mentre ancora non ne ero consapevole. In ogni caso, mi schiarii le corde vocali prima di parlare di nuovo, giusto per sicurezza.

«Sono cresciuto nello Stato di New York, non a New York City, che è ciò che pensano tutti quando dici New York.» Abitavo dalla parte opposta dello Stato, in un sobborgo di Buffalo, uguale a tante altre periferie americane. «New York City e il posto in cui vivevo sono due mondi diversi.»

Annuì come se stesse riflettendo. «Lo stesso vale qui, per certi versi. Il North Carolina occidentale è diverso da quello orientale. Da una parte ci sono le montagne, dall’altra l’oceano: due paesaggi, zone climatiche e usanze completamente diversi. Poi trovi posti come Charlotte, Raleigh e Winston-Salem sparsi qui e là, e tanta cultura metropolitana. Ma tra l’una e l’altra città ci sono solo porcili, campi di soia e terreni pronti per essere sfruttati. In realtà siamo solo una porzione di una enorme serie di campi tra il posto che vuoi raggiungere e il vuoto lungo il tragitto. Carson è solo un altro nulla.»

«Wow. Roba forte» commentai. «Non ci avevo mai pensato. Hai ragione.»

Mentre riflettevo sulla nostra conversazione, mi accorsi che non le avevo permesso di terminare una frase. «Prima ti ho interrotta, cosa stavi per aggiungere?»

«Prima che mi dessi della stupida?»

«Non ti ho affatto dato della stupida!»

«Tranquillo, scherzavo!» Mi prendeva in giro in un modo che mi faceva ridere di me stesso.

Trassi un profondo respiro. Fuori l’aria era più fresca e mi diede una sensazione di calma. «Stavi dicendo che è pazzesco pensare…»

«Ah, sì» intervenne. «Volevo semplicemente dire che ricordo che da bambina, prima di conoscere le spiegazioni scientifiche, restavo sveglia di notte a preoccuparmi della Terra, a pensare che un giorno avrebbe smesso di girare e sarebbe caduta, continuando all’infinito, per sempre.»

In quel momento salì in cielo un fuoco d’artificio e scoppiò in un arcobaleno davanti alla macchina e al viso di Maia.

«Non lo so» proseguì a voce più bassa. «A volte ci penso ancora.»

Feci per parlare, ma osservandola non riuscivo a capire se quello che diceva la rendesse triste, la spaventasse o altro. Avevo l’impressione che non si riferisse più al pianeta Terra.

«Quando ero bambino» osservai, «credevo l’opposto. Avevo una teoria riguardo all’universo che mi aiutava a non avere paura, quando pensavo alla Terra e ai pianeti e alle stelle e al Sole e a tutto il resto.»

«Qual era?»

«Be’, tutto è perfetto. È tutto orchestrato secondo un preciso equilibrio tra creazione e distruzione, il cosmo è così enorme che non siamo neanche evoluti abbastanza per comprenderlo. Ma se pensi all’inizio e a tutto quello che è avvenuto affinché fossimo qui – come l’universo si è trasformato, il fatto che la galassia è solo una piccola parte e il nostro sistema solare una porzione ancora più piccola, e la Terra è minuscola a confronto – è incredibile che in qualche modo la vita si sia evoluta su questo pianeta. Le comete e gli asteroidi hanno dovuto scontrarsi con il nostro pianeta per regalarci gli oceani, i gas e i metalli e tutto ciò che ci sarebbe servito. In apparenza è caos, invece non lo è affatto. Si è sviluppato per 13 miliardi di anni prima che io e te potessimo tenere questa conversazione in auto.» Mi fermai per riprendere fiato; mi stavo facendo trasportare, ma lei mi fissava dritto negli occhi in attesa che finissi. «E se penso che le cose funzionano a quel modo, sento che anche ogni cosa nella mia vita si sistemerà.»

Restò in silenzio, avvertii una sensazione di imbarazzo salirmi su per il collo. Le avevo dato troppo di me. Decisamente troppo.

«Hai detto che ci credevi da bambino, è ancora così? Vero?»

Provai disagio, come se mi avesse beccato a mentire, anche se non era affatto così, una sensazione di vulnerabilità, come fossi nudo. Mi aveva beccato a dire la verità. «Forse» ammisi. «È una cosa brutta?»

Scosse la testa. «No, no, bella.»

Lungo il percorso, comparvero dei fuochi d’artificio ai lati della macchina, alcuni in lontananza, altri più vicino, tutti di colori diversi. Avevamo entrambi i finestrini abbassati, il vento che entrava. Lei appoggiò la testa allo sportello dell’auto, i capelli che le volavano davanti al viso. Mi costrinsi a non guardarla.