MAIA

I fari illuminavano la mia casa come un riflettore. Sapevo che avrei dovuto dargli la buonanotte e ringraziarlo e dirgli che mi ero divertita e che dovevamo ripetere e tutte quelle frasi normali che si dicono alle persone, ma quando guardai Chris e il suo sorriso non mi venne in mente nessuna parola. Volevo annullare lo spazio che ci separava, attirata verso di lui da qualcosa di simile alla gravità. Invece abbassai lo sguardo verso il grembo e feci: «Be’».

Al che lui rise e disse: «Già».

«Okay» cercai di ricominciare, ma non riuscii a parlare.

«Ci vediamo un altro giorno per sistemare le gomme della bicicletta?» domandò.

«Mi piacerebbe.»

Restammo fermi a fissarci, solo che stavolta fu lui a distogliere lo sguardo per primo. Si passò la mano tra i capelli e picchiettò le dita sul volante.

Aprii la portiera e la luce che si accese all’interno dell’abitacolo sembrò interrompere ogni imbarazzo.

Mentre scendevo dall’auto, lui sollevò la mano per salutarmi: «Buonanotte».

«Notte» ripetei dal finestrino abbassato.

Entrai in casa, ma restai nell’ingresso buio a osservare i fanali allontanarsi lungo il viale. La luce in cucina era accesa. Era il modo di mia madre di farmi capire che si preoccupava che rientrassi a casa ogni sera.

Sapevo che non avrei dormito: l’aria attorno a me vibrava per via di Chris, dei luoghi ritrovati di Mallory e dei fuochi d’artificio che ancora deflagravano a distanza.

Cominciai subito a riempire d’acqua la caraffa e ci misi cucchiaiate enormi di caffè finché il filtro di carta bianca non fu stracolmo.

La macchina iniziò a gorgogliare e a sibilare come sempre e, intanto, presi una tazza dalla dispensa. Mentre aspettavo, la mia mente vagò fuori dalla finestra della cucina, verso il campo, al secondo piano della casa grigia, dove la luce era accesa. All’improvviso il giorno dopo mi parve un tempo fin troppo lungo da aspettare per rivederlo.

«Mallory, cosa fai?»

Mi girai e vidi mia madre in accappatoio, gli occhi semichiusi.

«Mamma» dissi. «Mi hai appena chiamata Mallory.»

Sobbalzò al suono del nome di mia sorella. Aprì gli occhi completamente, scosse la testa e aggrottò la fronte. «Non è vero.»

«Sì, invece.»

«So benissimo cosa ho detto, Maia» ribatté con il tono che di solito riservava a mio padre, ed ebbi la netta sensazione che avesse pronunciato il mio nome solo per provarmi che lo ricordava ancora.

In quel momento, la porta del seminterrato si aprì cigolando.

Mio padre si trascinò lentamente in cucina, i capelli arruffati. Adesso era in piedi accanto a mia madre. «Cosa succede?» borbottò.

Mia madre fece un’espressione esasperata tipo: come osava parlare in sua presenza?

Subito dopo sentii Roxie percorrere le scale, poi le unghie che picchiettavano sul linoleum mentre si posizionava tra mia madre e mio padre, un altro paio di occhi che mi fissavano.

«Non succede niente» risposi. «Non sono neanche le dieci.»

Mia madre incrociò le braccia, restò così per un istante prima di ripiombare nella stanchezza e distenderle di nuovo. «Chi ti ha accompagnata?»

«Hayden» mentii per qualche motivo.

Se pure lo aveva intuito, non lo diede a vedere. Guardò mio padre e si strinse l’accappatoio attorno al petto, come se fosse uno di passaggio, uno sconosciuto, un uomo a cui aveva subaffittato una stanza, davanti al quale era inappropriato trovarsi in pigiama in cucina. Si allontanò, poi la sentii dire: «Buonanotte» dal salotto.

Io e mio padre restammo soli, Roxie in mezzo a noi che spostava lo sguardo da me a lui, probabilmente tentando di decifrare chi avesse più bisogno di lei.

«Caffè a quest’ora?» domandò.

«Non ho sonno» spiegai, conscia di aver risposto a tono, così lo definiva un tempo, quando aveva ancora la forza per tenermi testa. «C’è qualche problema?» aggiunsi per metterlo ulteriormente alla prova. Forse, se l’avessi provocato abbastanza, sarebbe tornato in modalità genitoriale. Però mi sbagliavo. Perché dal modo in cui mi guardò, addolorato come un animale ferito, sembrava quasi che gli avessi detto: “Perché non crepi e vai affanculo?”.

«No.» Si limitò a rispondere, poi se ne andò anche lui.

Senso di colpa al quadrato.

La macchina del caffè fece un ultimo gorgoglio.

«Fantastico» borbottai.

Mi chinai per grattare Roxie dietro alle orecchie, nel punto che le piaceva tanto, e le sussurrai: «Sei la sola sana di mente in questa famiglia».

Roxie mi seguì fuori come faceva con Mallory quando restava alzata fino a tardi nel fienile a bere caffè durante le sue maratone lavorative.

Avevo riempito troppo la tazza, tanto che mi versai addosso il liquido bollente almeno tre volte mentre procedevo nel buio. Non amavo molto il caffè, ma ricordo che Mallory ne preparava grandi caraffe, alternandolo all’erba per riuscire a rimanere sveglia e lavorare. Sosteneva che l’aiutasse a pensare in modo lucido, che era naturale e non è che fosse una specie di tossica, come erano diventati molti ragazzi in città dopo essersi diplomati alla CHS. Tuttavia, credevo che fossero le solite stronzate di mia sorella.

Aprii la porta del fienile e accesi le luci.

Camminai lungo il corridoio colmo di foto in cerca dei luoghi che avevo visto con Chris. Mi soffermai su quella del murales al distributore di benzina che ormai, da quando lo avevo scoperto, occupava un angolo della mia mente. C’era la casa di Bowman: prima vuota e desolata e poi colma di gente durante una festa. E infine la strada deserta con il cielo nuvoloso.

Il cancello del cimitero. E poi, in successione, la foto di una statua in pietra, logora e consumata dalle intemperie; sembrava un santo o un angelo, o roba simile, circondata da un alone di luce solare.

Se non avessi saputo come lavorava Mallory avrei pensato che l’avesse ritoccata, ma lei era contraria. Riteneva che se c’era un elemento dell’immagine che desideravi emergesse, allora era un motivo in più per lasciarlo nascosto e, se mancava qualcosa, era un’ottima ragione per fare altre foto, ecco perché il giorno dopo tornava sempre nello stesso luogo e ricominciava a scattare da capo.

Sarei tornata al cimitero di New Pines.

Avrei ricominciato da capo.

Mi sedetti al tavolo di Mallory e frugai nel cassetto, dove trovai un album da disegno. Quando lo aprii, scoprii che non c’era nulla, ma alcune pagine erano state strappate via, e notai dei segni impressi sui fogli bianchi sottostanti. Presi una matita rossa con la punta in cera, abbandonata lì, e scrissi una lista delle foto di cui avevo trovato i luoghi.

Mentre ero seduta, circondata dagli oggetti di Mallory, tornai con la mente alla notte che avevamo passato insieme. Era a malapena trascorso un anno da quella serata tipica delle sue, a base di marijuana e caffeina, l’ultima in cui eravamo state due amiche. Lei camminava su e giù di fronte a me, farneticante ed euforica: “Il mondo è incasinato, giusto?” aveva domandato.

“Già” concordai senza convinzione.

“Nulla ha più un senso. Tutto è così caotico e fuori controllo. Ma quando scatti una foto” si era fermata per aggiungere enfasi (lo faceva sempre) “è come se l’unica cosa al mondo con una logica fosse quella che si trova all’interno della cornice, quel piccolo rettangolo di spazio. Il resto può anche svanire.” Allargò le braccia come se stesse lasciando cadere tra le sue dita qualcosa di invisibile.

Sbadigliai. Avevo raggiunto il mio punto di rottura con lei da mesi, probabilmente da tutta la vita, e quella sera non la sopportavo più. Le dissi che ero stanca e volevo tornare a casa e infilarmi a letto.

Quando mi alzai lei mi tirò il braccio, commentando: “Avanti, stiamo condividendo dei momenti segreti tra sorelle, Maia”.

“No, non è vero” sbottai. Forse fu il fumo passivo a spingermi ad affrontarla senza riflettere sul motivo, lo feci e basta. E non sarei più stata in grado di rimangiarmi quelle parole. “Tu mi usi, nient’altro” la accusai, in tono pungente. “Non ti importa che ci sia io o chiunque altro in questo istante, con te. Parli davanti a me mentre continui a sballarti, farneticando senza senso. Cerchi di convincermi che stiamo creando una sorta di legame speciale tra sorelle, invece mi tieni qui in modo che non riferisca ai nostri genitori che sei una fattona.”

“Wow…wow” scandì, indietreggiando e battendo le mani come se avessi appena terminato un’esibizione. “E questa roba da dove salta fuori?”

“Da me!” Dovetti strillare per farmi sentire, il che mi fece arrabbiare ancora di più.

“Non so se essere più ferita o stupita.”

“Nessuna delle due” commentai a denti stretti.

“O entrambe” ribatté, dandomi la schiena.

Prese una foto sul tavolo insieme a una manciata di puntine da disegno e le portò verso il muro senza ignorarmi del tutto, ma solo fingendo che fossi scomparsa.

“Dico sul serio, Mallory!” esclamai seguendola. Lei sistemò a una a una le quattro puntine in fila, le teneva tra le labbra mentre centrava la foto alla parete aiutandosi con le mani. “Allora vattene” borbottò con quegli oggetti in bocca.

Ero rimasta ferma lì per un istante a osservarla sistemare la foto e poi prendere ogni puntina e conficcarla agli angoli con precisione, senza mai voltarsi verso di me né aggiungere altro.

In quel momento, un anno dopo, chiusi gli occhi seduta sulla sua sedia, sforzandomi di ricordare che fotografia fosse. Rammento che la fissai prima di andarmene, pensando che tenesse di più a quella stupida foto che al fatto di essere mia sorella. Mi alzai, ripercorrendo gli stessi passi compiuti quella sera mentre seguivo Mallory; la sequenza di eventi era così radicata nella mia mente che mi portò direttamente verso quello scatto.

Raffigurava una vetrata colorata.

Toccai l’angolo dove aveva sistemato una puntina in modo inclinato, non perpendicolare al muro come le altre tre. Era forse quella che aveva premuto mentre mi diceva di andarmene?

La vetrata colorata era un quadrato al centro di un rettangolo di carta, messo in risalto dallo spazio bianco. Quando guardai le foto circostanti, mi resi conto che era l’unica ritagliata a quel modo. Forse alludeva a quello, quando io non mi preoccupavo di prestarle attenzione: che è solo ciò che si trova dentro la cornice ad avere senso.

Era quella la chiave per capire dove fosse la vetrata. Era stata ritagliata da un paesaggio più ampio. Mi precipitai verso la scrivania di Mallory e aprii i cassetti. In ogni cassetto teneva stipate centinaia di cartelle colorate, solo che i diversi colori non sembravano indicare un particolare ordine di archiviazione.

In ognuna c’erano centinaia di custodie di plastica colme di altrettanti negativi disposti in diverse file. Immagini spettrali in bianco e nero, tutte girate al contrario.

Estrassi un bel po’ di cartelle e le sparpagliai sul pavimento.

Feci un respiro profondo, bevvi un sorso di caffè e aprii la prima. Afferrai una custodia agli angoli tra pollice e indice e la sollevai controluce. Studiai ogni piccola immagine, una dopo l’altra. Foglio dopo foglio. Avevo esaminato tre cartelle ed era solo l’inizio rispetto a quante ne mancavano.

Sperai di non aver compromesso definitivamente la situazione con Neil perché probabilmente lui avrebbe potuto riconoscere a colpo d’occhio dove si trovava quella vetrata. Mi chinai in avanti e appoggiai la testa contro il mucchio di custodie di plastica scivolose. «Mallory» sussurrai con un gemito.

Mi trattenni dal parlarle direttamente e porle una vera domanda, perché non ottenere una risposta sarebbe stato troppo terribile. Era stupido, impossibile.

Ricominciai a radunare cartelle, ammucchiandole una sopra l’altra. Le portai tra le braccia e le appoggiai sul bordo della scrivania. Poi ne presi altre e, sistemando l’ultima, una di quelle in fondo scivolò via, come una casa dalle propria fondamenta. Allungai la mano per prenderla, ma era troppo tardi.

L’intero mucchio di migliaia di custodie si riversò a terra. Se erano disposte secondo un ordine non sarei mai stata in grado di rimetterle come si trovavano.

«Maledizione» borbottai.

Roxie si fece strada lentamente in quel caos e si fermò sopra la custodia più lontana, quasi vicino alla parete. La annusò e poi mi guardò. Sconfitta, mi avvicinai al punto in cui si trovava e mi sedetti sul pavimento freddo e duro. Lei si appropinquò, sfiorandomi il naso, con il suo e poi si sdraiò.

Mi misi in posizione fetale dietro di lei, che si accostò a me. Appoggiai la guancia su una di quelle infinite custodie di plastica. La raccolsi, pronta a lanciarla verso il mucchio più grande, ma d’istinto la sollevai, tenendola sopra la testa. Avevo gli occhi stanchi e vedevo sfuocato, ma lo riconobbi: ecco il negativo che cercavo. Era proprio quello. Ne ero certa. Mi rialzai in modo goffo e lo portai verso il muro per confrontarlo.

Non era una vetrata, finalmente compresi, o almeno, non era solo quello. Era una porta, una vetrata all’interno di una porta.

«L’abbiamo trovata.» Non ero certa che quel plurale si riferisse a me e Roxie, o a me e Mallory, ma in ogni caso ci eravamo riuscite. Mi sentivo più vicina a Mallory ogni secondo che passava.

E adesso il prossimo passo: capire dov’era quella porta.

Non mi spaventava, anzi era elettrizzante. Finalmente avevo uno scopo. E quella sera aveva un significato, come se fosse previsto che lasciassi il picnic, che me ne andassi con Chris, o che trovassi il cancello del cimitero e la gelateria con il jukebox e anche il negozio new age con l’incenso.

Volevo raccontarlo a Chris, ma a quel punto avrei dovuto rivelargli tutto. Fui colta da un’illuminazione improvvisa, come lo scoppio di uno di quei fuochi d’artificio al lato della strada: per la prima volta nella mia vita avevo un obiettivo. Avrei tanto voluto trovare un modo per condividere quel pensiero con lui.