Il giorno seguente, al risveglio, mi sentivo la testa come una gigantesca campana di ottone che qualcuno aveva suonato tutta la notte. Chissà se era possibile soffrire di sbornia da caffè.
Aprii gli occhi lentamente, allungando la mano verso il telefono ancora in tasca perché non mi ero neanche cambiata prima di buttarmi a letto. Non mi ero preoccupata né di lavarmi i denti né di togliermi le scarpe. Non avevo idea di che ora fosse mentre aspettavo che il cellulare si ricaricasse. Guardai dalla finestra. Era una giornata assolata e luminosa; gli uccelli cantavano, gli insetti ronzavano.
Il telefono si accese, svelandomi che erano quasi le due del pomeriggio.
Non appena guardai lo schermo vidi comparire un serie di messaggi da Hayden e Gabby. Breve riassunto: erano incazzate perché le avevo mollate.
Sentii bussare alla porta al piano inferiore.
Mi trascinai fuori dal letto e, passando davanti allo specchio, notai che i miei capelli erano una massa informe su un lato della testa.
Roxie abbaiava mentre continuavano a bussare. Sperai che fosse Chris; Roxie non abbaiava di solito alle persone che conosceva. Provai una sensazione di leggerezza e di confusione, come un battito d’ali di farfalla ebbra nel petto. Mi rifugiai subito in bagno e cercai di lisciare i capelli.
Toc toc toc toc toc.
Mi passai le mani tra le ciocche, la capigliatura sempre un disastro solo lievemente più ordinato. Non appena uscii vidi che non c’era Chris sul portico.
Ma Hayden.
Quel battito d’ali che avevo sentito nel cuore svanì di colpo, i miei riflessi rallentati da una sensazione di pesantezza improvvisa mentre mi avvicinavo alla porta con il timore di ciò che mi aspettava.
Hayden teneva una mano su un fianco e il cellulare nell’altra. Mentre mi avvicinavo, sollevò gli occhiali sulla fronte, premendo le labbra insieme mentre prendeva il telefono. «Bene» disse, la voce tesa. «Dopo aver constatato che sei viva, posso ucciderti.»
Aprii la zanzariera per farla entrare come era avvenuto infinte volte durante la nostra lunghissima amicizia.
«Scusami» feci mentre la seguivo in cucina.
«No» scosse la testa. «Non posso.» Si diresse dritta verso la credenza dove tenevamo i bicchieri, ne prese due e li mise uno vicino all’altro sul bancone.
«Invece sì.»
Cercai di mettermi davanti a lei, ma non voleva incontrare il mio sguardo.
Si muoveva in lungo e largo come se stesse ballando una coreografia: aprì lo sportello del frigorifero e tirò fuori la brocca del Famoso Tè Dolce di Mio Padre (come lo chiamavamo sin da bambine) di cui c’era sempre una scorta in casa. Frugò nel congelatore, prese un po’ di ghiaccio e lasciò cadere quattro cubetti in ogni bicchiere.
Ricordo che io e Hayden guardavamo mio padre con l’acquolina in bocca quando metteva l’acqua in un grande bollitore di metallo e poi sul fornello, l’enorme scatola rossa di tè Luzianne sul bancone. Sistemava le bustine del tè nell’acqua, lo girava con un cucchiaio di legno, portava a ebollizione e infine aggiungeva dosi generose di zucchero bianco, lasciandole sciogliere nel tè. Ci ripeteva che era da pigri far affondare lo zucchero in fondo al bicchiere. Mentre si raffreddava il tè, affettava un limone. Seguiva sempre la stessa procedura: toglieva le estremità, appoggiava il limone su un lato e lo tagliava verticalmente in quattro parti. Prendeva ogni quarto e lo sezionava in obliquo per togliere i semi. Dopo lo affettava a metà, longitudinalmente, in modo da ottenere otto spicchi di limone identici. Infine li incideva al centro così che si reggessero in maniera perfetta sul bordo del bicchiere.
Al che versava il tè in due brocche di plastica che riponeva in frigorifero insieme a un contenitore con le fette di limone.
Hayden conosceva benissimo quel rituale.
Portò la brocca mezza piena accanto al bancone, versò il tè in ogni bicchiere sopra i cubetti di ghiaccio finché non furono stracolmi, aprì il coperchio del contenitore con il limone e mise le fettine sul bordo. Continuò a evitare il mio sguardo, tenendo i bicchieri in mano mentre usciva dalla cucina.
«Dove vai?» domandai, seguendola mentre oltrepassava il salotto e saliva le scale e infine percorreva il corridoio verso la mia camera. La osservai appoggiare i bicchieri sul comodino; poi tornò verso la porta e aspettò che Roxie avanzasse lentamente lungo il corridoio per raggiungerci nella mia stanza, e la chiuse.
Si sedette sul mio letto, incrociò le gambe e mi fissò, ancora in silenzio.
Mi sedetti dalla parte opposta, di fronte a lei.
«Ti comporti in modo strano» disse finalmente.
Scoppiai a ridere.
«Cosa c’è di divertente?» domandò in tono seccato.
«Dovresti essere nella mia testa per capirlo» risposi alludendo alle sue parole del giorno prima.
Annuì, prese un bicchiere e me lo porse, poi afferrò l’altro per sé e lo fece tintinnare contro il mio, tanto che da entrambi si riversò un po’ di tè sul letto.
«Salute» fece, bevendo un sorso. «Dato che siamo in argomento, cosa diavolo ti passa per la testa ultimamente?» chiese. La bocca si addolcì, sapevo che l’arrabbiatura le sarebbe passata entro poco.
Alzai le spalle. «Non lo so.»
«Bzzz» fece un verso tipo il pulsante di uno spettacolo televisivo. «Risposta sbagliata. Prova di nuovo.»
«Va bene.» Presi un respiro profondo ed espirai forte svuotando i polmoni. «Da dove comincio?» domandai più a me stessa che a lei.
«Sei tu che devi decidere.»
«Hai presente quando la gente dice che il tempo guarisce ogni ferita o roba del genere?»
«Certo» rispose.
«Be’, non credo sia vero. O almeno non per me. Perché a me sembra che più passi il tempo più la situazione diventi difficile.»
«Ti riferisci a Mallory?» chiese.
«A Mallory, sì. Ma anche ai miei genitori. E a me» aggiunsi sperando che non avrebbe chiesto altre spiegazioni sull’ultima parte. «Voglio dire, non dovrebbe essere il contrario?»
Scosse la testa. «Non lo so. Vorrei tanto conoscere la risposta, ma non ho mai perso nessuno e vorrei poter capire cosa provi.»
«Io no» commentai. «Non auguro a nessuno di sentirsi così.»
«Lo sai che ti voglio bene, vero?»
Annuii. Lo sapevo. Davvero.
«E anche Gabby» aggiunse.
«Lo so» dissi a voce alta.
«Magari non sempre troviamo le parole giuste, ma ci siamo. Non devi tenerti tutto dentro e gestirlo da sola.»
«Ma ormai devo farlo per forza, o almeno a me pare proprio così.» Tirai su con il naso e trattenni il pianto che mi avvolgeva le corde vocali facendomi tremare la voce. «È come se voi due siate diventate migliori amiche all’improvviso e io sia rimasta da sola.»
«Ma scherzi?» chiese. Tuttavia c’era qualcosa di strano nella sua voce, nel tono enfatico che usava. «Maia, non dire sciocchezze, sarai per sempre tu la mia migliore amica, okay? Nulla cambierà il nostro legame.»
Eppure ero certa di non sbagliarmi. E all’improvviso capii che lei non aveva fatto niente di bizzarro, e neanch’io o Gabby. Il motivo era solo che stavamo cambiando in modi diversi, prendendo strade differenti. Affrontavamo un’esperienza sconvolgente in maniera opposta e non c’era modo adesso di riavvicinarsi.
Credo che anche lei ne fosse consapevole, perché sorrise corrugando la fronte, come quando si cerca di nascondere la tristezza. Le sorrisi allo stesso modo. Mi tamponai gli occhi con il bordo della maglietta. Lei premette le dita sugli angoli degli occhi e sbatté le palpebre per contrastare le lacrime che le bagnavano le ciglia.
«Oh» gemette, sventolandosi il viso con le mani. «Bene. Siamo a posto? Possiamo parlare di cose più importanti, ora?»
«Sì, ti prego» concordai.
Bevve un altro sorso di tè, e anch’io. Quel sapore dolce cancellò quello amaro che avevo in bocca da mesi.
«Io e Gabby ci domandavamo una cosa» iniziò con un ghigno furbesco, sollevando un sopracciglio.
«Ah sì, cosa?» la incoraggiai, sorseggiando ancora il tè.
«Che combinate tu e il ragazzo nuovo?»
Restai a bocca aperta, lo zucchero mi si piantò in gola, provocandomi un attacco di tosse. Hayden sgranò gli occhi per un istante prima di incrociare le braccia, abbassare il mento e fissarmi con aria stupita.
«Niente!» riuscii a esclamare.
«Certo, come no. Assolutamente nulla» ripeté, poi mi sorrise liquidandomi con un gesto della mano. Strinse gli occhi e scosse la testa lentamente. «Vi abbiamo visti andarvene insieme, ieri.» Sembrava un’affermazione, ma sapevo che in realtà era una domanda.
«Ma va, dico sul serio» insistetti. «Niente, giuro.»
Scosse la testa e fece: «Naa. Spara».
«Abbiamo fatto un po’ su e giù in macchina» spiegai, rendendomi conto solo dopo che era stata una scelta di parole pessima in quel particolare contesto.
Hayden scoppiò a ridere e poi ululò: «È proprio quello che ha detto Gabby!».
«Piantala!» Presi il cuscino e la colpii.
«È molto carino, comunque» osservò.
«Basta» ordinai, anche se concordavo in pieno.
Poi intonò con voce stridula la canzone di Grease: «Summah lovin had me a bla-hast…».
«Le mie povere orecchie!» strillai, mentre mi tornavano in mente le milioni di volte che avevamo guardato quel film, ballando e cantandone la colonna sonora.
«Ehi! Intendo solo che dovresti vivertela.» Sollevò le braccia verso il soffitto, il corpo che formava una doppia V, e aggiunse: «Perché no?».
«Non ho intenzione di fare nulla, Hayden.» Nonostante quell’affermazione, ero consapevole di mentire. «Siamo a malapena amici» spiegai. Forse prima di ieri poteva essere vero, ma ormai dentro di me sapevo bene che non era più così.
Ci abbracciammo davanti al portico. Mentre la osservavo allontanarsi nella piccola auto rumorosa della madre mi sentii sollevata come se qualcosa si fosse sistemato tra noi. O magari era il fatto che avevamo chiarito che il rapporto si fosse rotto, e quindi non era più confuso, ma schietto e rinnovato e forse potevamo aggiustarlo del tutto.
Misi a posto la brocca di tè, le fettine di limone, e lavai i bicchieri. Se mia madre fosse rientrata a casa dal lavoro e avesse trovato la cucina sporca e me trasandata con i capelli scompigliati, le sarebbe stato più difficile fingere che era tutto a posto. Anche se a volte desideravo che potessimo strappare via quel velo di finzione e lasciare le ferite scoperte affinché guarissero, non ero convinta che mia madre avrebbe retto.
Ripensai che solo la sera prima mi aveva chiamato Mallory. Non ero certa che sarebbe mai stata in grado di affrontare la realtà. No, avrei recitato la mia parte anche oggi.
Entrai in doccia, sforzandomi di non pensare a Chris mentre mi passavo la spugna sulla pelle. “Maledizione, Hayden” riflettei. Ma ormai mi aveva instillato l’idea in testa; era sedimentata lì, in attesa. Sentii bussare forte alla porta del bagno, gesto che mi distolse da quella piccola fantasia.
«Sì?» gridai, sporgendo la testa dalla tendina della doccia.
La porta si aprì e mia madre entrò avvisandomi: «Sbrigati, giù c’è quel ragazzo e tuo padre è uscito fuori a chiacchierarci».
«Cosa?» domandai, chiudendo l’acqua.
«Sono tornata e li ho trovati qui fuori a parlare.»
«Oddio» mormorai.
«Già.» Mia madre prese l’asciugamano che avevo lasciato sul lavabo e me lo porse. «Sono sicura che sarà stata una conversazione affascinante.»
Se ne andò prima che potessi capire se stesse insultando mio padre o Chris. Mi vestii in tempo record. Mi passai il pettine tra i capelli, districandoli con forza e lasciandoli cadere sulle spalle invece di legarli nella solita coda. Frugai nei cassetti sotto il lavandino finché non trovai il balsamo per le labbra alla fragola, quello che mi rendeva la bocca luminosa, rossa e dal sapore dolce.
Lo presi tra due dita e mi misi davanti allo specchio, al centro. Dopo aver tolto il coperchietto, premetti la punta pastosa sul labbro superiore e la feci scorrere verso destra, poi a sinistra. Mossi le labbra per distribuirlo e indietreggiai per controllarle, lucide e brillanti, come se fossero separate dal viso. Sorrisi.
Mi avvicinai e mi fermai a riflettere un istante.
Poi strofinai via tutto con il dorso della mano, finché le labbra ridiventarono asciutte e opache.
«Idiota» borbottai, tirandomi i capelli indietro in uno chignon approssimativo.