Aspettai fino alla mattina seguente. Mia madre e mio padre erano già usciti. Guardai fuori dalla finestra della camera da letto, vestita, le scarpe allacciate, la fotocamera di Mallory attorno al collo. Vidi Chris uscire di casa e cominciare a correre lungo il viale. Quindici minuti dopo uscì Isobel in divisa, diretta verso l’auto, teneva tra le mani la borsa, le chiavi della macchina e una tazza da asporto. Non appena si allontanò in auto, scesi veloce al piano inferiore.
Lasciai sbattere la zanzariera e saltai dal secondo gradino del portico, camminando più rapidamente possibile senza però correre. L’erba lunga e umida del campo fra le nostre case mi graffiò i polpacci e la rugiada del mattino penetrò la tela delle scarpe da ginnastica.
Raggiunsi la scala che portava al balcone di legno. Provai uno dei pioli per essere certa che fosse abbastanza solido.
“Stai facendo una cosa così stupida.”
Ciononostante salii i gradini.
Avvertii la presenza di Mallory, che mi sfidava sul balcone, esortandomi a continuare, a essere più avventurosa, coraggiosa, e più simile a lei. Arrivai in cima e mi arrampicai con le mani e le ginocchia; se qualcuno mi stava osservando avrebbe pensato di me una serie di cose:
- Sgraziata
- Impacciata
- Traballante
- Psicotica
- Una buona ragione per chiamare la polizia.
Tuttavia avevo smesso di preoccuparmi dell’opinione altrui. E, soprattutto, non mi trovavo lì per spiare o appostarmi o muovermi furtivamente in casa, ma solo perché in quel luogo c’era la porta della foto, e non stavo facendo nulla di sbagliato.
Avevo impresso nella memoria quell’immagine non ritagliata. Guardai in basso, verso i piedi piantati saldamente sul pavimento di legno. Mallory era stata lì. Sollevai la fotocamera e scrutai nel mirino: non era l’inquadratura giusta. Indietreggiai. Ancora no. Mi allontanai il più possibile.
Mi appoggiai al corrimano piegando la schiena con cautela. Controllai di nuovo. Ci voleva ancora qualche passo indietro e una visuale più dall’alto.
Misi le mani sulla ringhiera e guardai giù, anche se non avrei dovuto ma, nell’istante in cui lo feci, fui subito certa che Mallory doveva essersi seduta sul parapetto del balcone quando aveva scattato la foto.
Mi tremavano le dita. Feci un bel respiro e salii sopra il corrimano inferiore. Quando mi tirai su, scoprii che i miei polsi erano più forti e potenti di quanto pensassi, e mi appoggiai al bordo muovendomi in quel modo sgraziato, impacciato e traballante di prima.
“Non guardare giù.”
Riuscii a girarmi in modo da sedermi sopra la ringhiera, di fronte alla casa. Il cuore mi batteva forte, ma ce l’avevo fatta. Agganciai il piede destro sotto il parapetto inferiore per avere più leva. All’improvviso, nonostante fossi così in alto e senza una rete di sicurezza, mi sentii più stabile e più in equilibrio lassù di quanto non mi accadesse con i piedi piantati a terra. L’aria mi fischiava nelle orecchie. Prestai attenzione a non muovere la parte inferiore del mio corpo e portai la fotocamera di nuovo davanti al viso.
Sì.
Era quella.
Era l’inquadratura giusta.
Riuscii a immaginare Mallory che si sollevava sopra la ringhiera senza pensarci un attimo, in modo naturale, come quando montava sul bancone della cucina con un semplice balzo e senza curarsi della possibilità reale di cadere.
Il sole catturava i colori del vetro e li rifletteva sulle tavole di legno come bellissime, piccole macchie. Ma fuori dalla cornice. Chissà se anche Mallory le aveva viste. Lasciai riposare la fotocamera in grembo e guardai in fondo al campo incolto, verso casa mia, e verso il fienile. Chissà se era quello il motivo per cui lei era salita lassù, per avere quella visuale sulla nostra casa. Non avevo trovato nessuna foto però, il che non implicava che non l’avesse scattata.
Mi girai di nuovo verso la porta.
Tenni le mani ben salde e premetti il pulsante di scatto che emise il suo tipico rumore, solo che ce ne fu un altro di sottofondo che proveniva dal basso. Era quello di una porta che si chiudeva. Tolsi con cautela i piedi dalla sbarra inferiore e saltai giù dalla ringhiera. Mi affacciai, cercando di sbirciare, ma non riuscii a identificare chi fosse stato ad aprirla.
Sentii dei movimenti all’interno della casa e intravidi un’ombra dietro la vetrata. Sfrecciai al lato della porta e mi appiccicai al muro. Afferrai la cinghia della fotocamera come se fosse una sorta di strumento magico che tentavo di usare per rendermi invisibile.
Udii dei rumori dietro la porta. Qualcuno che rovistava, muoveva oggetti, apriva cassetti e poi li richiudeva sbattendoli. Di solito Chris restava via di più quando correva, o magari ero io ad aver perso il senso del tempo. Chiusi gli occhi e feci un profondo respiro cercando di calmarmi.
Guardai nella vetrata, se era uscito dalla stanza allora avevo una possibilità di scappare. Era l’unica cosa a cui pensai quando decisi di sbirciare.
Attraverso un sottile perimetro di vetro tagliato in maniera precisa, vidi Chris davanti a uno specchio. La schiena era rivolta verso la porta, però riuscivo a distinguere in modo chiaro il suo viso nel riflesso. Si chinò in avanti per controllare il braccio allo specchio. Il gomito e la parte posteriore dell’avambraccio erano graffiati e insanguinati. Si piegò in avanti e arrotolò sopra un ginocchio i pantaloni da corsa, era ferito anche lì. Ripeté lo stesso gesto sull’altra gamba. Si portò la mano davanti al viso e, quando si toccò il palmo con cautela, fece una smorfia di dolore.
Osservandolo feci un respiro profondo, come se per un momento il suo dolore fosse anche il mio.
Continuai a guardare. All’inizio ero curiosa di sapere cosa gli fosse successo, come si fosse ferito, preoccupata per la sua salute.
Si tolse le scarpe da ginnastica e le scansò da una parte con il piede, sistemandole una accanto all’altra. Si sfilò i calzini e li mise sopra le sneaker, con una serie di gesti che mi sembrarono metodici. Abitudinari. Come se avesse una routine che non avrebbe mai stravolto. Si tolse i pantaloni da corsa e li piegò con cura sul bordo del letto. Indossava un paio di boxer. A quel punto, anche se non riuscivo a vedere nulla, sapevo che avrei dovuto distogliere lo sguardo.
Se ne restò lì immobile per un momento, con la schiena verso di me. Come se stesse riflettendo. Poi, alla fine, con un movimento veloce, si sfilò la maglietta dalla testa e la lasciò cadere a terra in modo disordinato rispetto agli altri capi.
Indossava qualcosa sotto, una specie di canottiera. All’inizio la scambiai per un busto ortopedico o roba simile. A quel punto si allontanò dallo specchio, e da me. Nel frattempo però riuscii a scorgere, persino da quel punto oltre la porta, i segni rossi che gli lasciava sulla pelle, come se fosse molto stretto.
Ricordo di aver pensato quanto fosse forte e magra la sua schiena mentre se lo levava. “Non dovrei spiarlo in questo momento” riflettei. Stavo per abbassare la testa quando si girò, le braccia sul petto. A quel punto notai che premeva forte le mani su protuberanze del corpo che conoscevo molto bene. E quando ne allungò una verso un cassetto aperto per prendere una maglietta pulita riuscii a vederlo di profilo, la curva morbida del torace mentre arrotolava la T-shirt e infine usciva dalla stanza.
Mi nascosi sotto la finestra, contro la porta, e aspettai senza muovermi né fare rumore. Non so neanche se respirassi. Poi, a poca distanza, dalla finestra aperta dietro l’angolo e fuori dalla mia visuale, udii il suono dell’acqua del rubinetto aperto al massimo che si tramutò in quello del getto inconfondibile della doccia.
Non ricordo come riuscii a scendere le scale e ad attraversare il campo per raggiungere casa. Ma alla fine arrivai nella mia stanza, Roxie seduta pazientemente ai miei piedi mentre guardavo fuori dalla finestra. Non capivo con esattezza ciò che avevo fatto né quello che era successo o come potevo giustificare la mia presenza lì.
Tentai una spiegazione logica: Chris aveva il seno. Chris era una ragazza. Ma allo stesso tempo non lo era. Era… Chris.
“Che importanza ha? Dovrebbe, forse? Cosa cambia?” Non avevo una risposta per nessuna delle domande che continuavano a girarmi in testa.
L’unica persona con cui mi sarebbe davvero piaciuto parlarne – davvero la sola al mondo in grado di aiutarmi – era Mallory.
La sveglia del mio cellulare suonava da un’ora e non l’avevo neanche sentita. Impiegai diversi minuti per rendermi conto del perché si fosse azionata.
Ero rimasta sveglia fino a tardi nelle due ultime notti. Ma non appena il mio cervello cominciò a connettere, saltai giù dal letto affrettandomi a vestirmi, in cerca della maglietta di Bargain Mart che trovai in fondo al cesto della biancheria, spiegazzata e sporca.
Sarei arrivata di nuovo in ritardo al lavoro.
Presi la borsa e ci infilai la fotocamera di Mallory, mi diressi verso la bici e sfrecciai lungo il tragitto fino in città. Non smisi mai di pensare alla scena a cui avevo assistito. Erano passati solo due giorni dall’ultima volta in cui avevo visto Chris, però mi sembrava come se nel frattempo avessi vissuto dieci vite. Mi ci era voluto tutto quel tempo per riuscire a ottenere delle risposte, solo che non erano molto d’aiuto.
“Che importanza ha?”
“Non lo so.”
“Dovrebbe, forse?”
“Non lo so.”
“Cosa cambia?”
“Non lo so.”
Misi il lucchetto alla bici e cercai di entrare dalle porte automatiche senza farmi notare. Mi mossi di soppiatto, nascondendomi lungo i reparti vuoti per raggiungere la stanza sul retro, dove timbrai il cartellino con venti minuti di ritardo. Ero quasi fuori pericolo quando uscii dalla porta a doppia anta proprio mentre il mio capo entrava. Ci fermammo entrambi di colpo.
«Buongiorno» fece, senza menzionare il fatto che era la quarta volta in due settimane che arrivavo in ritardo. Schioccò la lingua e sospirò, poi si portò la mano al mento, osservando con disprezzo la mia maglietta sgualcita prima di istruirmi con aria severa: «Oggi mi servi al reparto svendita».
Alzai le spalle.
Passai l’ora successiva, la mente obnubilata, insieme a un altro collega in punizione. La conversazione sfumò in modo rapido, surclassata dai rumori delle pistole spara prezzi e dal ronzio di sottofondo degli altoparlanti, interrotto ogni cinque minuti da una voce registrata, tipo trailer cinematografico, che annunciava “le offerte del giorno”. Quella comunicazione aveva appena terminato il suo ciclo per circa la settantacinquesima volta, quando sentii il mio nome.
«Maia?»
Sollevai lo sguardo e vidi Chris. La persona a cui pensavo da quarantotto ore.
«Ehi» mi salutò sorridendo mentre mi osservava.
«Ciao.» Mi alzai subito, consapevole della maglietta e dei jeans sporchi e delle vecchie scarpe da ginnastica che indossavo, e anche degli occhiali e dello stato dei miei capelli. Ma più di ogni altra singola cosa, ero preoccupata del fatto che, in tutta sincerità, non rammentavo se quella mattina mi fossi preoccupata di guardarmi allo specchio prima di precipitarmi fuori di casa.
Strinse gli occhi e inclinò la testa. «Porti gli occhiali.»
«Di solito uso le lenti a contatto, però…» Premetti inavvertitamente la pistola spara prezzi, da cui uscì una targhetta adesiva da novantanove centesimi. «Stamattina ero in ritardo.»
«Mi piacciono» disse annuendo.
«Oh, non saprei.» Me li tolsi e li esaminai come se non li avessi mai visti. Avvertii il bisogno di evitare i suoi occhi per il timore che dal mio viso trasparisse che conoscevo il suo segreto. «Grazie, comunque.»
«Da bambino li desideravo» commentò per continuare la conversazione, dato che io non parlavo. «Sono invidioso. È orribile avere la maledizione di una vista perfetta.»
Non volevo che ci fosse imbarazzo, ma all’improvviso non avevo idea di cosa dire, quindi mi sforzai di far uscire una risata, che però suonò posticcia, restando sospesa tra noi.
«Be’, ero qui e ti ho vista. Perciò ciao.»
«Ciao» ripetei mentre lanciavo un’occhiata agli articoli che teneva in mano: una scatola di cerotti grandi e un tubetto di crema antibiotica a tripla azione di Bargain Mart. Al che sparai la prima cosa che mi saltò in mente: «Non è per via di un’altra emergenza da mancanza di guanti da forno, spero».
Rise.
Ecco, magari le cose non dovevano essere strane per forza ed era possibile ritrovare la stessa intesa di prima. Dopotutto, magari, non doveva cambiare nulla.
«No, sono solo maldestro» spiegò, sollevando il braccio per mostrarmi una serie di cerottini fino al gomito, troppo piccoli per coprire tutti i graffi.
Trasalii.
«Non è nulla.» Sollevò le spalle. Ovviamente ignorava che sapevo anche delle ferite alle ginocchia. «Ma vivendo con un’infermiera, supponevo che ci fosse in casa un kit di primo soccorso e non i cerotti più minuscoli mai creati.»
«Sì, già.» Fu la migliore risposta che mi balzò in mente. “Stupida.”
Il silenzio che subentrò tra noi aspettava di essere riempito, ma poi lui spostò lo sguardo in fondo alla corsia, verso il mio collega in punizione con me al reparto svendita che ci stava fissando in maniera palese, e disse: «Ci vediamo in giro, immagino».
Non appena fece per allontanarsi, riuscii quasi a sentire Mallory spronarmi di nuovo, sussurrarmi: “Di’ qualcosa, cagasotto!”.
«Ehi, aspetta.» Si voltò verso di me, al che impiegai un secondo per rendermi conto che ero stata io a parlare. «Finisco tra venti minuti» continuai. «Insomma, se ti va di uscire o cose simili. E se non ti dispiace aspettarmi.»
«Okay, mi faccio un giro.»
«Va bene» dissi e premetti di nuovo senza volerlo il pulsante della pistola.
«Okay» ripeté, «sarò qui fuori.»
Non appena si diresse verso l’uscita del negozio guardai il mio collega, annuii e commentai: «È tutto a posto, vai pure».
Più tardi abbandonai il mio incarico al reparto svendite. Sgattaiolai nella stanza sul retro, presi la borsa e mi chiusi nel bagno con la nursery dove potevo sistemarmi senza nessuno attorno.
«Cosa stai facendo?» sussurrai al mio riflesso nello specchio, afferrando saldamente i lati del lavandino smaltato.
La ragazza che mi fissava dall’altra parte non mi fornì risposte.
Legai i capelli in uno chignon e mi lavai il viso. Feci dei gorgoglii e sputai e poi tamponai il viso con delle ruvide salviette di carta marrone che tirai via dal dispenser. Estrassi la fotocamera e l’appoggiai con cura sul lavandino. Frugai nella borsa e sul fondo trovai una caramella alla menta avvolta nella sua carta. Dovevo averla presa chissà quando in uno dei due ristoranti della città. Cercai di ricordare da quanto fosse lì, e se fosse ancora commestibile, però non avevo un buon sapore in bocca, quindi me ne fregai. La scartai e me la misi sulla lingua. Svuotai la borsa sul pavimento del bagno e ne uscirono scontrini arrotolati, una matita rotta, un evidenziatore, alcuni centesimi e monetine varie, una spilla e alla fine quello che cercavo: il balsamo per le labbra alla fragola.
Lo presi con due dita e mi piazzai al centro dello specchio. Tolsi il tappo e premetti la punta cremosa sul labbro superiore, facendola scorrere verso destra e poi a sinistra. Strofinai le labbra l’una contro l’altra e indietreggiai.
«Sì» sussurrai.