Alcuni graffi non si erano ancora rimarginati per via dello sfregamento sull’asfalto. Li spalmai di crema e usai due cerotti grandi e nuovi per coprirli. Andava già meglio adesso che erano protetti dall’esposizione all’aria.
Poi mi tirai su una gamba dei jeans e tolsi quei piccoli cerotti disposti a caso e la medicai allo stesso modo, replicando sull’altro ginocchio. Infine, misi l’ultimo sul palmo della mano. Accartocciai i vari involucri e li misi nella busta di plastica.
Accanto all’entrata c’era un cestino della spazzatura, quindi mi avvicinai e ci gettai la busta, poi ritornai alla macchina. Mi sedetti all’interno, ma pensai che forse sarebbe parso troppo strano, come se mi aspettassi che lei salisse, e non era così. Allora scesi e mi misi accanto all’auto, solo che parevo uno stupido, perciò cercai di appoggiarmi al cofano. E allora sembrava che stessi tentando di imitare James Dean o roba del genere, per quanto uno possa assomigliare a James Dean accanto a una station wagon.
Quindi decisi di tornare verso l’edificio. Mi appoggiai al portacarrelli, nell’ombra, e aspettai. Mentre ero lì cercai di sorridere ai clienti che passavano – credevo che la gente fosse amichevole nelle cittadine di provincia – ma non ricambiò quasi nessuno. La maggior parte di loro mi lanciò un’occhiata fredda e obliqua. Perciò estrassi il cellulare per tenere qualcosa in mano che mi impedisse di innervosirmi troppo.
“Mi ha chiesto di uscire insieme” cercai di ricordare a me stesso. “Come amici” aggiunsi in silenzio. “Solo amici.”
L’ultimo messaggio di Cole risaliva a due giorni prima e diceva: Indovina?
Era arrivato dopo la mia caduta in strada e non mi ero sentito in vena di indovinare, quindi lo avevo ignorato. Ultimamente lo trascuravo un po’ troppo, mi ci erano voluti un paio di giorni per riprendermi, ma ora mi sentivo meglio.
Cosa? scrissi, poi lo cancellai.
Ehi, Cole. Cancellai ancora. Ehi. Come va?
Stupido. Generico. Noioso. Cancella.
Ehi, mi dispiace.
Gli inviai quello. Osservai lo schermo per almeno un minuto pieno, ma non c’era nessun segnale a indicarmi che avrebbe risposto a breve.
Stavo ancora fissando il telefono, quando un’ombra mi comparve davanti. Sollevai lo sguardo e vidi Maia, non so se fosse per via della luce o dell’ombra o altro, ma ebbi qualche problema a rammentare che era solo un’uscita tra amici.
«Okay» disse mentre eravamo fermi al lato del parcheggio a guardare le auto. «Potrei accompagnarti nel tour ufficiale di questa metropoli in espansione, compreso il nostro meraviglioso Centro Storico di Carson, ma ci vorrebbe troppo tempo.»
Aspettai prima di parlare, in caso dovesse aggiungere altro.
«O magari preferisci un piano diverso» continuò. «Dipende da quanto tempo hai a disposizione.»
«Ne ho parecchio» la rassicurai.
«E io» allungò la mano e aprì la borsa per mostrami il contenuto «ho la macchina fotografica, quindi mi chiedevo se ti andasse di tornare a New Pines.»
Estrassi le chiavi dalla tasca e le feci tintinnare. «Andiamo.»
Lungo il tragitto rimase in completo silenzio. Continuavo a sentire il suo sguardo su di me. Ogni volta che mi giravo per guardarla, lei distoglieva gli occhi o fingeva di fissare qualcosa fuori dal finestrino.
«Tutto a posto?» le chiesi all’ultimo, quando non ce la facevo più. “Avremmo finalmente chiarito l’episodio del bacio? Ci avrebbe fatto bene o avrebbe reso le cose più imbarazzanti?”
«Sì, tutto bene» rispose parlando in tono più alto e veloce del normale. «Perché?»
«Mi sembrava che… mi stavi fissando?» domandai.
«Fissando? No.» Scosse la testa. «No, affatto.»
«Un altro no e comincio a crederti» tentai di scherzare. «Ho qualcosa in faccia o…»
«No» ribadì e, anche se sorrise, le sue guance avvamparono.
«Okay, okay, ti credo.»
Rise e commentò: «Scusami, non ti stavo fissando apposta».
«No, va bene. Volevo solo assicurarmi che non ti sentissi a disagio o in imbarazzo per via dell’altro giorno.»
«L’altro giorno?» ripeté. «Cosa intendi?»
«In camera mia.»
Impallidì all’improvviso. «Nella tua stanza? A cosa… a cosa alludi?» chiese di nuovo.
«A quando sei venuta da me, l’altra sera.»
Espirò e mi parve che ogni rigidità nel suo corpo si allentasse.
«Sai, te ne sei andata subito e non ho capito se eri a disagio per…» mi fermai, sperando che quel silenzio mi spronasse a usare la parola che ero troppo timido o in imbarazzo per pronunciare ad alta voce, invece aggiunsi: «… qualcosa».
«Ah.» Dalla sua espressione, notai che aveva capito; l’angolo della bocca si incurvò in un lieve sorriso prima che si mordesse il labbro per fermarlo. «No, non ero a disagio.»
«Okay.» Merda. Non sapevo proprio cosa dire. «Bene.»
«Tu, invece?»
«Cosa?»
«Eri a disagio?»
«Ah» risposi accidentalmente come lei. «No.»
«Bene» fece, guardando dritto davanti a sé.
Parcheggiammo a poca distanza dallo stesso punto di qualche giorno prima, ma rispetto ad allora la città era più vivace. Più macchine in giro, e più gente per le strade. Per essere una cittadina di provincia era quasi caotica. I marciapiedi erano riparati da volte di foglie lussureggianti che si inarcavano sopra le strade, al cui centro si incontravano i rami degli alberi che le costeggiavano su entrambi i lati.
Maia scese dalla macchina con meno fretta rispetto alla nostra visita precedente. Estrasse la fotocamera dalla borsa e si infilò la cinghia attorno al collo, come la prima volta che l’avevo vista in strada. Un giorno avrei trovato il coraggio di chiederle di mostrarmi la foto che mi aveva scattato quel giorno.
Per il momento restammo sul marciapiede accanto alla station wagon, e ci guardammo attorno.
«Dove andiamo?» le domandai.
Guardò prima a destra e poi a sinistra, quindi si diresse verso la strada, al che attraversammo entrambi dirigendoci verso il punto in cui il recinto del cimitero costeggiava il marciapiede. «Desideravo tanto scattare una foto a quel cancello» osservò mentre le camminavo accanto.
Quando giungemmo lì davanti mise le mani sulle sbarre come aveva fatto quel giorno. Poi mi guardò e si schiarì la gola indietreggiando, mentre puntava la fotocamera sul cancello. Continuò ad arretrare, oltre il marciapiede, verso l’erba, e alla fine si sistemò sopra il bordo e si sollevò sulle punte, guardando a lungo nell’obiettivo. Restai indietro per lasciarle spazio, ma anche a qualche metro di distanza riuscii a vedere che tratteneva il fiato.
Proprio quando pensavo che stesse per fare la foto, abbassò la macchina fotografica e si guardò i piedi. Li spostò di pochissimo, come se li stesse muovendo lievemente all’interno delle scarpe.
Alla fine premette il dito sul pulsante e sentii il rumore dello scatto. Persino dopo, restò immobile un istante. Era così concentrata; guardarla era quasi ipnotico. Quando abbassò la fotocamera e spostò gli occhi su di me, mi resi conto di essere io quello che la fissava, adesso.
«E se entrassimo solo per qualche minuto?» domandò. «Niente zombie, giuro.»
«Certo, come no» risposi. «Nel caso ti copro io le spalle.»
Mi guardò mentre spingeva il cancello e sorrise in un modo che mi fece desiderare che ci fossimo baciati quella sera, se non altro perché avrei avuto il permesso di baciarla ancora. Sembrava che ci incamminassimo in un altro mondo, un’altra piccola città dentro la città. Davanti a noi si srotolava un’ampia strada in selciato antico e sentieri che curvavano a sinistra e a destra, collegandosi a una serie più vasta di percorsi. L’abbondanza di alberi giganteschi distraeva dai monumenti più piccoli sparsi ovunque.
Vecchie radici avevano spaccato e sollevato i vialetti in pietra. Il profumo dei fiori dava l’impressione di entrare in un parco invece che in un cimitero.
Camminammo lungo la strada principale, scrutando quello scenario sovrannaturale. Sulle lapidi erano incisi nomi e date con una calligrafia difficile da leggere e in parte consumata.
«Molte di queste lapidi risalgono all’Ottocento» spiegai.
«Già» confermò lei, anche se non prestava attenzione alle tombe che superavamo. Fissava un punto lontano.
«La gente moriva giovanissima, allora.» Non riuscii a impedire alla mia mente di calcolare in automatico la durata di vita in base all’anno di nascita e morte. «Diciannove anni. Dodici. Quattro. Otto mesi.» Indicai ogni tomba davanti a cui passavamo. «Due giorni.»
«Pazzesco» disse senza entusiasmo, ancora distratta.
«Quindi cerchi qualcosa in particolare?»
Alla fine si girò verso la mia direzione. «Statue» rispose subito, ma poi aggiunse: «Credo».
«Statue?» ripetei e mi ritrovai a scrutare il paesaggio per individuarne qualcuna. «Che ne dici di quelle laggiù?»
«No, statue di Gesù e Maria. Qualcosa di più… originale.»
Ci allontanammo dal sentiero principale, verso un gruppetto di lapidi e monumenti più alti. Io restai sul sentiero mentre lei andava a ispezionare una folla di quelli che sembravano santi e angeli a grandezza naturale, camminando con cautela tra le file di sepolcri.
«No.» Sospirò, scuotendo la testa, come se uno di loro le avesse posto una domanda.
«Cosa?» chiesi ad alta voce.
«Dirigiamoci verso la zona centrale.»
Mentre la seguivo mi guardò e chiese: «Trovi che questa visita sia strana?».
«No, piuttosto direi…» Cercai di scegliere la parola con attenzione. «Interessante.»
Raggiungemmo la zona centrale e lei scrutò le strade lungo il percorso, però, a quanto pareva, non trovò quella giusta perché non aveva ancora scattato foto.
Cercai di pazientare, ma ormai camminavano da un bel po’, quindi mi sentii di chiederle: «Si tratta di una statua che hai già visto?».
«Sì» rispose. «Ma non so dove. Però so che non appena la vedrò la riconoscerò.»
«Okay» feci, anche se trovavo difficilissimo cercare una statua, dato che non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso.
«Ti annoi?» domandò mentre procedevamo a passo lento lungo il sentiero.
«Per niente» risposi guardandomi attorno. «È molto tranquillo qui. Mi piace.»
«Anche a me.» Passò la mano lungo la corteccia di un albero che superammo e poi domandò con cautela: «Ehi, posso chiederti una cosa? È un po’ personale».
«Certo» acconsentii, nonostante non ne fossi sicuro.
«Credo che trovarmi in questo posto mi spinga a riflettere su alcune questioni.» Girava troppo attorno all’argomento. Rallentò. «Hai mai perso qualcuno? Intendo una persona cara, a cui volevi bene?»
Per qualche motivo non era la domanda che mi aspettavo. Ero preoccupato del fatto che avesse notato qualche ambiguità, magari nella mia voce o nella risata o in qualcosa nel mio modo di camminare, o magari il mio petto non era piatto abbastanza o i miei jeans non erano larghi a sufficienza o le mie dita troppo lunghe e sottili e delicate. Avevo selezionato ogni cosa che desideravo cambiare di me in attesa di quella domanda. Ma ora che me l’aveva posta non riuscivo a replicare. Mi osservava con espressione incuriosita e dolce aspettando la risposta.
«A te è mai successo?» chiesi. «Chi?»
La vidi deglutire, come se radunasse con difficoltà le parole, ma poi alla fine mi confidò: «Mia sorella. Mallory. Si chiamava così, Mallory».
«Com’è successo?»
«È accaduto l’anno scorso, all’improvviso. È… morta?» rispose come se fosse una domanda, come se quel “morta” fosse una parola sconosciuta di cui non aveva ben compreso il significato. Agitò la mano in aria, pareva cercasse di afferrare qualcosa di invisibile. «Lo sapevi?»
«No.»
«Credevo che magari lo avessi sentito, dato che la gente chiacchiera parecchio qui.»
«In realtà non parlo con nessuno, a parte te.»
Rise e, anche se non scherzavo affatto, mi misi a ridere anch’io.
«Mi dispiace per tua sorella, Maia.» Ero sincero. «Sul serio, dev’essere orribile.»
Guardò in basso e mormorò: «Grazie».
«Tu stai bene?» le chiesi, anche se dovetti trattenere la voglia immensa di prenderle la mano, di abbracciarla.
«No» rispose. «Però credo di iniziare a sentirmi meglio.»
Giunti a un bivio si fermò e si girò di 360 gradi, riparandosi gli occhi con la mano dalla luce del tramonto che filtrava dalla chioma di un albero.
«Che ore sono?» mi chiese.
Presi il cellulare e vidi che Cole mi aveva risposto.
Grazie. Tutto a posto.
«Sono le venti e nove minuti» la informai.
Strinse gli occhi a distanza, scuotendo la testa. «Non credo che riuscirò a trovarla.» Incurvò le spalle in avanti e le sue mani allentarono la presa dalla fotocamera che portava attorno al collo.
«Possiamo sempre tornare quando ci sarà più luce» proposi, cercando di risollevarle il morale. Lei annuì, guardò oltre la spalla in direzione del tramonto imminente e poi diede un’altra occhiata.
«Un minuto» sussurrò, più a se stessa che a me.
Infine, senza aggiungere altre parole, cominciò a camminare verso ovest, percorrendo una diagonale verso il punto in cui il sole sprofondava all’orizzonte.