Nella luce del tramonto si intravedeva il contorno di una statua avvolta da un alone di raggi dorati.
Come avevo potuto non notarla? Forse era stato quel bagliore ad attirare Mallory.
I miei piedi proseguirono per conto loro, senza preoccuparsi di seguire sentieri o di calpestare le tombe.
Più mi avvicinavo, più ero certa di tutto: che quella fosse la statua nella foto di Mallory, che il mio posto fosse lì, che ogni azione compiuta o parola detta o pensata fino a quel momento avesse una giustificazione, che stessi facendo la cosa giusta. E soprattutto ero sicura di me.
Le girai attorno: era alta e poggiava sopra un podio.
La guardai da ogni angolazione.
Non era come nessuna delle altre statue lì accanto.
Non era un santo famoso né un angelo con le ali né altre divinità di mia conoscenza.
Era solo una donna senza età con una veste drappeggiata e i capelli fluenti lunghi fino alle spalle.
Di altissima statura, non portava nulla con sé che indicasse cosa o chi rappresentasse.
Ci posizionammo davanti a lei, a osservarle il viso.
Gli occhi erano rivolti in basso, un po’ come se ci fissasse.
«Emily» disse Chris.
«Cosa?»
Indicò la base del podio, verso una piccola targa rettangolare di bronzo attaccata alla pietra.
EMILY
FIGLIA, SORELLA, AMICA
C’era scritto solo quello. Nessun cognome, né date.
«Wow» fu la sola cosa che riuscii a dire.
Forse era davvero una persona, un normale essere umano che un tempo era stato vivo e amato dalla famiglia e dagli amici tanto da far erigere una statua in sua memoria.
Preparai la fotocamera e mi sistemai nel punto che immaginai avesse scelto Mallory. Chris si allontanò da me e dalla statua, fuori dall’inquadratura della foto che stavo per scattare, e si appoggiò contro una quercia dal tronco così enorme che, se ci si fosse sdraiato orizzontalmente, credo sarebbe stato comunque più grande di lui. Avrei dovuto scattare una foto, ma quando avvicinai la fotocamera al viso e guardai nel mirino, la magia sparì. La abbassai e scrutai la statua, al che avvertii di nuovo quella specie di incanto ai lati del mio campo visivo.
Sollevai di nuovo la macchina fotografica, guardai nel mirino e scattai, come avevo pianificato. Tuttavia ebbi l’impressione che mancasse qualcosa.
Mi avvicinai a Chris e osservai la statua di Emily da lì.
«Hai ottenuto ciò che desideravi?» domandò.
Quando lo scrutai, mi resi conto di non aver pensato alle domande che mi erano girate in testa negli ultimi due giorni. «Credo di sì.»
Una volta usciti dai labirinti del cimitero, oltrepassato il cancello e ripiombati nella realtà, Chris parlò per primo. Aveva una mano sullo stomaco. «Hai fame?»
«Da morire» risposi.
«Bene, anch’io» commentò sollevato. «Cosa ti va?»
«Qualunque cosa che non abbia una faccia. Sono vegetariana» spiegai.
«Adoro i ristoranti vegetariani.»
«Be’, dubito che ne troveremo uno da queste parti.»
Non appena pronunciai quella frase, Chris prese a digitare sul cellulare.
«C’è il Green House» mi informò, mostrandomi lo schermo. «A soli cinque minuti a piedi da qui.»
«Davvero?» domandai incredula.
Scrollò le spalle. «Lo proviamo?»
Lo raggiungemmo in quattro minuti. L’esterno dell’edificio era verde brillante e dotato di zona esterna con tavoli, delimitata da una fila di piante di bambù vere. All’entrata fummo accolti da una ragazza, con tatuaggi floreali lungo le braccia, che ci sorrise in modo cordiale scortandoci al tavolo vista strada.
Tirò fuori un accendino dalla tasca del grembiule e accese la candela al centro del tavolino.
Lessi il menu illuminato dal tremolio della fiamma e cercai di non fissare di nuovo Chris, e il modo in cui quella luce soffusa lo rendeva così intenso, vivo, bellissimo.
«Cosa ti incuriosisce?» chiese.
«Non so» ammisi, contrastando la voce che nella mia testa suggeriva: “Tu”. «Non sono mai stata in un ristorante vegetariano prima d’ora.» Non avevo mai assaggiato quelle pietanze, le avevo a malapena sentite nominare e giusto alla televisione. Tipo l’hummus di fagioli neri arrosto all’aglio con crostini di pita. Involtini croccanti di lattuga e tofu con salsa di arachidi. Ramen vegetariano super ricco. Rotoli di lasagne alla melanzana.
Chris sgranò gli occhi avvicinandosi lievemente. «Dici sul serio?»
«Be’, sì. Voglio dire, la cucina vegetariana di Carson è costituita principalmente da patatine fritte al formaggio.»
Risi, ma lui no.
«Oddio, da dove iniziamo?» fece, studiando il menu con nuovo entusiasmo. «Abbiamo bisogno di una buona strategia.»
«Strategia?»
«Sì.» Continuò a sfogliare le pagine del menu. «Okay, credo che la cosa migliore sia ordinare una serie di piatti diversi e dividerceli, così puoi provare un po’ di tutto.»
«Ehm, va bene» concordai.
Ordinammo qualcosa da ogni sezione del menu. La cameriera inarcò il sopracciglio con il piercing quando iniziammo a comunicarle la lista dei piatti, ma poi sorrise tra sé, in modo misterioso.
Dopo poco tempo l’intero tavolo era colmo di piatti. Parlammo a malapena mentre mangiavamo, emettendo solo rumori di apprezzamento, tipo “mmh”, con la bocca piena.
Avevo assaggiato un po’ di tutto quando emisi il verdetto: «Okay è ufficiale. Voglio sposare questi involtini di lattuga e tofu» annunciai. «Ma solo se è compresa anche la salsa di arachidi.»
«E lasceresti sole queste lasagne di melanzane? Davvero?»
«Il cuore ha le sue ragioni» dissi facendo spallucce mentre mangiavo un altro boccone.
«Okay, allora io sposerò questo taco con focaccia vegana» affermò. «Aspetta, forse opterò per i peperoncini banana ripieni di quinoa.»
«Mmh, sì.»
La cameriera ricomparve al nostro tavolo colmo di piatti mezzi vuoti. «Volete che ve li metta in contenitori?» domandò.
Dopo tornammo verso la macchina prendendocela comoda. Lo osservai guardare il cielo mentre camminavamo uno accanto all’altra. Per la prima volta avevo la sensazione di essere parte del mondo e non solo di trovarmici, e qualunque cosa fosse quell’emozione, desideravo che durasse, perché, per un breve istante, non pensai a nulla. Avevo dimenticato Mallory e il muro del distributore di benzina e la festa per le vacanze di primavera, le gomme della mia bici e il cancello del cimitero e la ragione per cui eravamo lì. Desideravo fermarmi in mezzo al marciapiede, afferrare il braccio di Chris e tenere fermo anche lui, volevo mettere tutto in pausa mentre stampavo nella memoria cosa si provava a essere me. Feci oscillare il braccio mentre camminavo, in modo che si scontrasse con il suo. Lui spostò lo sguardo dalle stelle a me. Gli sorrisi mentre agganciavo un dito intorno al suo.
Si guardò le mani, le nostre dita allacciate. «Tutto bene?» domandò.
Il cuore mi batteva fortissimo, tanto che riuscii solo a mormorare: «Ah, ah».
Non mi importava che Chris fosse un transgender. Era Chris e non c’era nient’altro al mondo che desiderassi fare in quel momento se non passeggiare lungo quella strada tenendogli la mano.
Mentre tornavamo in macchina verso casa nell’oscurità, i finestrini di nuovo abbassati, mi sorpresi a sorridere senza un motivo particolare. Il volume della radio era basso ed era una serata perfetta: fresca e ventilata. Ero stanca, ma in modo bello.
Era successo qualcosa, quel giorno, anzi forse ne erano capitate molte.
Non capivo quali con esattezza, ma all’improvviso ebbi l’impressione di conoscere Chris da molto più di due settimane. Lo guardai, sembrava che fossero cambiate così tante cose rispetto solo a qualche ora prima, quando si era avvicinato da Bargain Mart e io mi ero sentita così in imbarazzo, o durante il tragitto in auto verso New Pines, durante il quale non riuscivo a evitare di fissarlo, in cerca di ciò che avevo visto dalla finestra.
Ma adesso, mentre lo osservavo, non notavo nulla.
«Ehi, Chris?» domandai. Potevo essere sincera con lui, spiegargli la situazione. Stavo per farlo, perché era meglio confessargli tutto, ma non appena si girò verso di me, e i nostri occhi si incontrarono, non me la sentii.
«Cosa?» chiese.
«No, niente» commentai. «Ecco, oggi è stato il giorno più bello che ho passato dopo tanto tempo.»
Annuì e disse: «Anche per me».