CHRIS

Cercai di concentrarmi sul diario invece di osservare Maia. Girai su una pagina vuota e cominciai ad abbozzare un disegno: era incerto e incomprensibile, non andava bene per niente. Ma non era quello il punto, comunque. Non mi stavo comportando in modo discreto come intendevo, Maia mi aveva sorpreso a fissarla almeno una dozzina di volte nel corso degli ultimi trenta minuti. Quando risollevai lo sguardo verso di lei aveva messo giù la penna e si era appoggiata sulle mani, rivolta verso la porta aperta. Misi la penna sulla pagina e chiusi il diario.

Quando lei mi guardò di nuovo le chiesi: «Cosa stavi disegnando?».

«Non stavo disegnando» rispose.

Scrutò il suo taccuino per un istante e quando lo rigirò per mostrarmelo, mi sentii il cuore in gola. Avevo visto quella citazione già tante volte, era la preferita di mia madre. Era presente su molti oggetti in casa nostra: un segnalibro che usava sempre, la copertina di un’agenda sulla sua scrivania, e in camera dei miei, su una di quelle targhe da parete in legno recuperato con le parole dipinte o aerografate che vendono nei negozi per la casa, o qualcosa del genere.

Maia si passò la lingua sulle labbra e lesse le parole sulla pagina ad alta voce, il tono calmo e dolce: «Non vediamo le cose come sono» si fermò, mi guardò negli occhi per un istante e poi continuò, «le vediamo come siamo.»

Poi, mentre aspettava una mia reazione, si morse il labbro inferiore.

«Okay, è strano» riuscii a dire alla fine.

«Perché?» Guardò di nuovo la pagina, poi me.

«Perché proprio questa frase?»

«Mi è capitato di leggerla, e mi è rimasta in mente, tutto qui.» Mi fissava stringendo forte gli occhi, circondati da piccole grinze. «Perché? La conosci?» domandò.

Annuii. «È la citazione preferita di mia madre. Ce l’ha segnata ovunque.»

Si chinò in avanti, avvicinandosi a me, come se le avessi appena rivelato qualcosa di fondamentale, e mi fece un sorriso raggiante. L’avevo vista così contenta solo quando eravamo in auto e mi raccontava del suo sogno di diventare fotografa e viaggiare per il mondo.

«Cosa credi che significhi?» Mi scrutava in modo così intenso che riuscivo a malapena a pensare.

«Immagino…» iniziai, solo per rendermi conto che forse in realtà non lo sapevo. «Non ne sono certo.»

«Già, neanch’io.» Rigirò il taccuino verso di sé. «È quello che cercavo di capire.»

«Hai cercato su internet?» chiesi.

«Sì» rispose, poi scosse la testa. «Ehi, potresti domandare a tua madre, giusto?»

Risi.

«O magari no» aggiunse.

«No, forse potrei» ritrattai. «Ammesso che ricominci a parlarmi.»

«Scusa, non avrei dovuto…»

«No, figurati. Tutto a posto, davvero.»

Accennò un sorriso dispiaciuto. Dopo un istante, sembrò aver deciso di cambiare argomento. «Allora, cosa stavi scrivendo?» domandò, guardando il diario chiuso, appoggiato sulle mie gambe.

«In realtà nulla» ammisi, «disegnavo.»

Sgranò gli occhi e sembrò sorpresa mentre mi chiedeva: «Disegni?».

«No. Non benissimo, comunque!»

Si mise a ridere, poi si spostò in avanti solo un po’, chinandosi come se tentasse di sbirciare il mio diario. Qualcosa dentro di me mi ripeteva di non mostrarglielo, nel qual caso, secondo i miei ragionamenti di un tempo, avrei evitato di provare i sentimenti che mi suscitava: paura e speranza allo stesso tempo perché desideravo qualcosa che giudicavo impossibile da ottenere.

Ma un’altra parte di me, quella nuova che in qualche modo si era manifestata nell’ultimo mese in una cittadina in mezzo al nulla, sapeva che era troppo tardi. Nonostante avessi lottato per evitarlo, mi ero innamorato di Maia. Tremendamente. Non era solo una cotta, una semplice reazione chimica del mio cervello, bensì un sentimento vero.

«Posso vedere?» mi chiese alla fine.

Aprii il diario e tolsi la penna dalla rilegatura. Studiai il bozzetto un altro istante prima di cambiare di nuovo idea e lo girai dalla sua parte, lei lo prese e passò le dita lungo il tratteggio disegnato dalla mia penna, ma a giudicare dai brividi che mi provocò sembrava che lo stesse lasciando scivolare sulla mia pelle. La osservai con attenzione mentre si protendeva ancora verso di me.

Eravamo così vicini che riuscii a sentirla inspirare in modo profondo prima di chiedermi: «Sono io, questa?».

Sì, era lei, ma ero anch’io. Era come la vedevo io. Non sapevo come spiegarlo a parole, perciò annuii. Era tutto. Era troppo. Sapevo cosa sarebbe successo se i nostri occhi si fossero incontrati di nuovo.

Non ci riuscii, ero un codardo. Dovetti distoglierli.