MAIA

Erano le tre del mattino e io ero ancora sveglissima. Dopo aver ripercorso infinite volte ogni interazione scambiata con Chris, alla fine ero certa solo di alcune cose:

  1. Mi piaceva.
  2. Era dolce, intelligente e divertente.
  3. Mi piaceva molto. E…
  4. Anche io gli piacevo.

Poi c’erano le altre, quelle più sfuggenti, difficili da comprendere. Tipo il fatto che nascondeva dei segreti, e non solo la sua scelta transgender, ma anche altro. Le vaghe informazioni che aveva condiviso, il motivo per cui mi aveva aiutata quella notte alla casa di Bowman, e quello che lo aveva spinto in esilio a Carson per l’estate, il rapporto con i genitori, tutti quei dettagli cominciavano a sommarsi ed ebbi la sensazione angosciante che gli fosse capitato qualcosa di brutto prima di venire qui, di cui non voleva parlare.

Anch’io nascondevo dei segreti. Ma nonostante le mezze verità e mezze bugie tra di noi, Chris aveva scoperto un lato di me che era stato oscurato da Mallory, dalla sua morte, e persino da Carson stessa.

Scesi dal letto e mi diressi verso la finestra. Non aveva ancora spento la luce, al che accesi anche la mia e presi il telefono.

Io: Sei ancora sveglio?

Chris: Sì.

Chris: Neanche tu riesci a dormire?

Io: No.

Io: Ehi, non è che puoi uscire un attimo? Vorrei mostrarti una cosa?

Chris: Intendi adesso?

Io: Sì.

Chris: Mmh… certo.

Io: Ci vediamo vicino alla tua macchina tra dieci minuti, okay?

Chris: Okay.

Mi tolsi i pantaloni del pigiama, mi infilai un paio di jeans, mi legai i capelli in uno chignon alto, indossai un reggiseno sotto la maglietta, presi le chiavi, il balsamo per le labbra alla fragola e li infilai nella tasca della felpa. Baciai Roxie sulla testa e le dissi che sarei tornata presto. In cucina trovai il blocco di carta che tenevamo nel cassetto delle cianfrusaglie e, giusto per sicurezza, lasciai un bigliettino pur dubitando che lo avrebbero notato.

Mentre aspettavo Chris accanto alla macchina, udii il verso cadenzato a quattro quarti dell’allocco barrato. La gente dice che sembra cantare: “Chi cucina per te? Chi cucina per te?”. Ricordo che quando io e Mallory eravamo bambine, nostro padre ci ripeteva che i gufi portavano sfortuna, invece nostra madre sosteneva il contrario.

Immagino che avrei dovuto aspettare per verificare chi avesse ragione.

«Ehi!» sussurrò Chris mentre scendeva dai gradini del portico.

«Ciao» dissi con lo stesso tono.

Quando raggiungemmo la macchina mi chiese a voce bassa: «Dove stiamo andando?».

«Non lontano da qui» risposi mentre salivo sul sedile del passeggero.

Diresse l’auto in strada a fari spenti e, una volta superata la casa di Isobel e la mia, li accese.

Non c’era nessuno in giro. L’unico bar in città era chiuso da ore. Ero quasi certa che fossimo le uniche due persone rimaste sulla faccia della terra.

«Puoi darmi qualche indizio?» domandò.

La notte mi faceva sentire invincibile, come se il mondo fosse a nostra disposizione. Volevo dirgli di continuare a guidare finché non avremmo raggiunto il mare, ma non era quello il mio piano.

«Stiamo facendo qualcosa di illegale?» sussurrò di nuovo, anche se eravamo soli.

Mi misi le mani sulla bocca e mormorai: «No».

Vidi le sue spalle muoversi mentre rideva in silenzio. Non potei evitare di guardargli le braccia, i muscoli definiti lievemente in evidenza mentre sistemava la presa sul volante; chissà com’era morbida e liscia la sua pelle. Per un secondo dimenticai di essere il navigatore.

«Siamo vicini?» chiese, distogliendomi da quei pensieri.

«Quasi» risposi. «Okay, rallenta. Gira qui.»

«Sembra chiusa» commentò, svoltando lo stesso.

«Prosegui verso il retro dell’edificio.»

«Oddio» brontolò. «Perché continuo a darti retta?»

«Perché» spiegai «Stiamo vivendo un’avventura.»

Si fermò sul retro della stazione di benzina, i fari che splendevano sulla parete di mattoni, i riflettori sulle parole che ci eravamo scambiati in precedenza.

Aspettai che lo vedesse.

«È quella citazione» fece alla fine.

Scesi dall’auto, mi diressi al cofano e mi ci appoggiai.

Spense il motore, lasciò i fari accesi, uscì anche lui dall’auto, si avvicinò alla parete e passò le mani sulle parole.

Mentre si girava per tornare verso la macchina e verso di me la luce illuminò quei tratti che iniziavo ad amare. Non solo il sorriso sghembo e quella fossetta, ma la camminata e il modo in cui infilava le mani in tasca e come inclinava la testa lievemente quando mi guardava… tutto di lui.

Si unì a me, appoggiandosi al cofano con un piede sul paraurti. Dovevamo stare vicini per evitare che quelle ombre non si intromettessero fra le luci.

«Che ne pensi?» domandai.

Sorrise mentre guardava la parete. «Sono davvero felice che tu mi abbia trascinato qui nel cuore della notte.»

«Davvero? Ne è valsa la pena?»

Annuì e incontrò i miei occhi. «Completamente.»

Spostai i piedi sull’asfalto e con il lato di uno diedi un colpetto al suo. Nessuno dei due si mosse, forse era solo un caso, ma lui avvicinò la mano appoggiata sul cofano alla mia in modo che il mio mignolo destro e il suo sinistro si toccassero.

Restammo così, nessuno dei due parlò, fissavamo il muro concedendoci quei piccoli punti di contatto fra i nostri corpi.

L’aria era più fresca e gli insetti erano silenziosi, l’unico rumore era il nostro respiro. Poteva essere il momento giusto per fargli quel discorso, metterlo a parte dei segreti che ero pronta a svelare. Tuttavia ero distratta dalla sensazione che mi provocava il suo braccio caldo contro il mio e le nostre spalle che si sfioravano.

Tutti questi minimi contatti magari erano casuali, ma li avvertivo intensamente, con una sensazione che partiva dal centro dell’addome, proseguiva verso le costole e mandava onde d’urto fino al cuore.

Misi la mano sopra la sua, lasciando scivolare piano le dita sulle sue, esplorando i solchi delle sue nocche, i miei polpastrelli lungo le sue unghie lisce. Aprì la mano, permettendomi di intrecciarla alla mia. Non capivo se ero io a tremare o lui.

«Tutto bene?» sentii la mia voce sussurrare nella notte. Lo guardai in volto, aveva gli occhi chiusi, ma annuì, come se sapesse che lo stavo fissando.

Rigirò la mano lentamente e lasciò che i nostri palmi si toccassero, le dita intrecciate come se ognuna avesse una piccola mente individuale. Pareva che tutte le terminazioni nervose del mio corpo fossero concentrate nei punti in cui la nostra pelle si toccava. Ci tenemmo per le mani, portandole davanti a noi, osservandole unirsi e diventare una cosa sola, lo sfondo della parete di mattoni che diventava lontano.

Riuscivo a sentire i miei polmoni muoversi più velocemente, inspirare ed espirare, e trovai il coraggio di guardarlo di nuovo.

Aveva aperto gli occhi e mi fissava.

Percepii di nuovo quell’attrazione magnetica che faceva avvicinare i nostri corpi. Lui non era più appoggiato all’auto adesso, era dritto e girato verso di me. Il mio sguardo all’inizio seguì i suoi movimenti, poi i miei piedi, finché anch’io mi tirai su. Mi scrutò negli occhi, spostando i suoi in alto e in basso, poi mi fissò le labbra.

Mi parlò tenendo il viso vicino al mio, così a bassa voce che le sue parole sembravano fatte d’aria: «Posso?».

Schiusi le labbra. La mia bocca desiderava rispondere: “Sì, baciami adesso, ti prego, perché sono tredici miliardi di anni che aspetto”, ma non riuscii a parlare, perciò annuii mentre la distanza che ci separava svaniva rapidamente.

Ci stringemmo le mani come se fossero due magneti. Spostò quella libera sulla mia guancia e poi lungo il lato del collo, fermando i polpastrelli sulla mia nuca, tra i capelli. Gli appoggiai la mano libera sull’avambraccio e lo attirai a me.

Respiravamo vicini, inspirando il fiato dell’altro, e nell’istante in cui le nostre labbra si toccarono sentii un’enorme sensazione di liberazione come se mi fosse scappato un sospiro, non dalla bocca, ma da tutto il corpo.

Le sue labbra erano calde e morbide.