Chris mi accompagnò a casa prima dell’alba. Erano le sei meno dieci quando parcheggiò davanti all’abitazione della zia e mi tenne la mano mentre attraversavamo il prato fino al mio portico.
Mi baciò sulla guancia e poi guardò in basso, sorridendo. In quell’istante non mi importò che ci beccassero.
Salii le scale verso il secondo piano cercando il più possibile di non fare rumore, ogni piccolo scricchiolio dei miei passi sembrava una porta che sbatteva. Quando superai la stanza di Mallory, guardai all’interno come sempre, ma Roxie non c’era. Percorsi il corridoio in punta di piedi, poi andai in camera e chiusi la porta con cautela.
Quando mi girai, Roxie era sdraiata ai piedi del mio letto. La coccolai un po’ e poi crollai sul materasso senza preoccuparmi di togliere vestiti e scarpe. Mi sdraiai sopra il copriletto e osservai la luce del giorno che cominciava a illuminare la camera.
Se chiudevo gli occhi potevo ancora sentire le sue mani sulla mia pelle. Mi girai e sprofondai il viso nel cuscino, ma non riuscivo a smettere di sorridere. I miei capelli erano sparsi attorno al viso e respirando mi resi conto che sapevano di lui: un aroma di affumicato, come il sale marino, e allo stesso tempo dolce come bucato fresco. Inspirai profondamente e lo trattenni nei polmoni finché il petto non mi diventò rigido e il corpo mi costrinse a espirare.
Avvolsi le braccia attorno al cuscino e lo strinsi.
Mi svegliai solo a mezzogiorno. Quando scesi giù mia madre era stranamente seduta in salotto. Normalmente non stava in casa, per evitare il rischio di dover interagire con mio padre e roba simile.
Era seduta sul divano con i piedi sotto il bacino, la mano che accarezzava lentamente la testa di Roxie mentre leggeva una rivista. Aveva legato i capelli in una coda ed era struccata e vestita in modo semplice: un paio di pantaloncini e una canottiera. Mi ritrovai a sorriderle prima che si accorgesse che ero lì. Sembrava così normale, a suo agio. Non la vedevo così da parecchio.
«Buongiorno» la salutai mentre mi sedevo dalla parte opposta del divano.
«Buon pomeriggio» mi corresse, ma poi sorrise.
«Come sei bella» dissi.
Piegò la testa all’indietro e aggrottò le sopracciglia, portandosi immediatamente la mano ai capelli. «Ma se sono un disastro!»
«No, non è vero. Hai un’aria molto rilassata.»
«Trovi?» Scosse la testa, poi mi guardò con più attenzione, stringendo gli occhi mentre mi scrutava i vestiti e i capelli. Riusciva forse a capire che ero stata sul sedile posteriore di un’auto, senza maglietta, a baciare un ragazzo nel cuore della notte?
«Tu sembri…» si fermò per cercare la parola, «felice» terminò incerta.
«Davvero?» domandai e sapevo che la mia voce era troppo alta, euforica.
«Sì» rispose, ma il suo sorriso svanì rapidamente, sostituito da un’espressione severa non appena guardò di nuovo Roxie. La delusione che provava era lampante, avevo violato la regola fondamentale: non era consentito essere felici in casa nostra. In quell’istante avrei preferito che mi avesse sorpresa mezza nuda sul sedile posteriore con le mani di un ragazzo addosso.
«Hai fame?» domandai. «Io da morire.»
Inclinò la testa di lato, come per interrogare lo stomaco. «Un po’, credo.»
C’erano ancora i contenitori con il cibo di Green House in frigorifero. Presi piatti e ciotole dalla credenza e divisi gli avanzi in due porzioni. Scaldai quelle che ne avevano bisogno e le disposi in modo accattivante, come nei programmi televisivi di cucina.
Non sapevo se mio padre fosse in casa, quindi era un momento solo per noi due.
Le versai l’infuso freddo di erbe che teneva sul bancone dentro il gigantesco barattolo di vetro sottovuoto, dato che a quanto pareva aveva rinunciato a quello di mio padre per evitare la caffeina.
«Okay, mamma» la chiamai. «A tavola.»
Qualche secondo dopo mi raggiunse in cucina con passo tranquillo, tenendosi il fianco come accadeva ogni volta che era rimasta seduta troppo a lungo. Roxie la seguiva, annusando l’aria.
«Grazie, tesoro» disse prima di schiarirsi la gola, quasi come se quel nomignolo le fosse scappato per caso. «Ho visto che c’erano dei contenitori da asporto lì dentro» lanciò un’occhiata al frigorifero. «Ma non sapevo di chi fossero.»
Avrebbe davvero fatto qualsiasi cosa per evitare di riconoscere la presenza di mio padre.
Mangiò un boccone di taco di focaccia vegana e annuì in segno di approvazione. «Allora» cominciò.
Aspettai, anche se non credevo che avrebbe continuato.
«Ti ricordi quando siamo andati tutti insieme al mare?» le domandai. «È stato sei o sette anni fa. Ci siamo fermati a New Pines, in quella gelateria vecchio stile.»
Divenne inespressiva e impallidì.
Aprì la bocca, ma non le uscì nessuna parola.
La forchetta le traballò fra le dita, come se le stesse per cadere. Ma poi si riprese, sbatté le palpebre rapidamente e disse: «Certo». La voce era tesa, controllata, mentre il viso tornava a colorirsi. «Perché?»
«No, nessun motivo.» Stavo infrangendo le regole senza volerlo. Avrei voluto tornare indietro nel tempo per rimangiarmi la domanda. «È solo che… ci sono stata l’altro giorno. Con Chris. Il cibo viene da lì.»
Infilzò la forchetta in un cavoletto di Bruxelles con glassa di agrumi e se lo mise in bocca; potevo sentire i suoi denti contro i rebbi.
«Be’, non dalla gelateria» continuai. «Ma da un ristorantino vegetariano che abbiamo scoperto lì. A New Pines, intendo.»
Mi guardò con espressione dura e occhi sgranati, e mi rese così nervosa da spingermi a parlare dividendo le frasi in tanti segmenti.
«Ah.» Annuì, ma quando aggiunse solo: «Bene», capii di averla persa.
Stavo mangiando un boccone di involtino di lattuga e tofu quando mi lanciò una rapida occhiata. Durò solo un istante, una frazione di secondo.
Tuttavia mi bastò per riconoscerne il significato.
Conoscevo quello sguardo, era lo stesso che riservava a mio padre. Era come se l’avessi tradita e ora non fosse più sicura di potersi fidare di me. Ed era così.
Avevo usato la parola proibita: “Noi”.
“Noi” riferito al periodo in cui Mallory era viva.
Bevve un sorso di infuso freddo e poi si premette il tovagliolo agli angoli della bocca. Raddrizzò la schiena e si schiarì la gola.
«Maia, volevo chiederti una cosa» cominciò.
Riguardava sicuramente il fatto che la sera prima ero uscita di nascosto per rincasare all’alba. Mi avrebbe chiesto cosa avevo combinato, con chi fossi, e io mi sarei arresa e le avrei raccontato ogni minimo dettaglio, per via del senso di colpa che riusciva sempre a suscitarmi.
«Sei stata al fienile, per caso?» terminò. Gli occhi erano piccoli per quanto li stringeva, e ogni tanto scuoteva lievemente la testa come se volesse che le rispondessi di no. «Ho notato la luce accesa.»
«Ehm.» Deglutii. «Sì… ci sono stata.»
«Come mai?» domandò.
«Non lo so, mi andava di dare un’occhiata, credo.»
Volevo ricordarle che il fienile doveva essere uno spazio condiviso per me e Mallory, che ci passavamo sempre il tempo insieme e che tecnicamente mi era permesso andarci ogni volta che lo desideravo.
«Be’» fece, serrando la mascella mentre annuiva. «Assicurati di lasciarlo così come lo hai trovato.»
«Ah, va… bene» balbettai.
Si alzò e si sforzò di ridere, ma sembrava come se il viso le si spaccasse, come se le facesse troppo male e riuscisse solo a premere le labbra l’una contro l’altra formando una linea dritta. «Grazie per il pranzo» fece, quasi fosse stato un incontro di lavoro o roba simile. «Credo che andrò a sdraiarmi un po’» borbottò allontanandosi.
Mentre ero seduta a osservare gli avanzi riscaldati del pasto più gioioso di tutta la mia vita, il senso di colpa cominciò ad attanagliarmi: le parole di mia madre mi torturavano, come stilettate nella coscienza.
Avevo appena finito di rimettere il cibo nei contenitori per riporlo in frigorifero, quando il mio telefono vibrò in tasca.
Era Chris: Non riesco a smettere di pensarti.
Sorrisi e lo immaginai mentre diceva quelle parole ad alta voce.
Poi scrisse: Ti prego, dimmi che oggi ci vediamo.
Eravamo sdraiati sull’asfalto, i raggi del sole che penetravano dalle chiome degli alberi della casa di Bowman ci scaldavano delicatamente la pelle.
Le labbra mi formicolavano per quanto ci eravamo baciati. Avevamo iniziato appena ci eravamo avviati lungo il sentiero alberato, baciandoci mentre camminavamo, contro un albero, davanti alle fondamenta della casa, seduti e poi sdraiati con me sopra di lui e poi lui sopra di me. Una volta esausti e senza fiato per poter continuare, ci eravamo sdraiati come quando da bambini si fanno gli angeli nella neve, ma sotto di noi, invece della neve fredda e bianca, c’era l’asfalto schiarito dal sole.
Ci toccavamo solo con le mani.
«È qui che abbiamo parlato per la prima volta» dissi, inclinando la testa di lato per guardarlo in volto. «Mi piacevi già.»
«Davvero?» chiese. «In realtà a me sembravi molto infastidita.»
«Non hai capito che era solo una copertura?»
Sollevò lo sguardo verso gli alberi, l’azzurro del cielo che spiccava in mezzo alle foglie.
«Problemi a casa dopo ieri notte?» domandò. «Si sono accorti che sei uscita?»
Lo avrei voluto. Cacciarmi nei guai per essermela filata di nascosto sarebbe stato meglio che essere rimproverata per aver evocato dei ricordi o qualunque altro errore mia madre mi imputasse.
Tuttavia invece di parlargliene scossi la testa e gli domandai: «E tu?».
«No» rispose. «Ma ne sarebbe valsa la pena.»
Mi passò la punta delle dita lungo le linee del palmo.
Mi ricordò Mallory, quella notte nella sua stanza, mentre eravamo fianco a fianco sul suo letto. Mi aveva sollevato la mano e aveva passato le dita su ogni linea del palmo dicendo: “Questa è la linea della vita, e questa del cuore, e quest’altra della testa. E poi quella del destino”.
“E questa?” le avevo chiesto indicando la più lunga e profonda.
“È quella del sole” aveva risposto. “Riguarda fama e ricchezza.”
“Fama?” avevo ripetuto in tono di scherno all’idea, Mallory era quella che avrebbe avuto entrambe. “Io?”
“Be’, riguarda anche gli scandali” aveva precisato con voce profonda e roca, poi aveva piegato indietro la testa ridendo.
«Cosa c’è?» mi chiese Chris, riportandomi nel presente.
Aprii gli occhi. Non mi ero resa conto che fossimo così vicini.
«Cosa?» ripetei.
«Ti sei messa a ridere» mi disse sorridendo.
«Pensavo a ieri notte» risposi. Non era proprio una bugia.
Lui annuì e fece: «Mmh».
«È stato abbastanza scandaloso, vero?»
Le sue guance avvamparono, e sprofondò il viso nella mia spalla. «Decisamente» concordai, permettendogli di appoggiare la sua mano sul mio stomaco. Si sdraiò e ci scambiammo posizione: la mia testa sulla sua spalla, il suo braccio attorno a me. Prestai attenzione a dove mettevo le mani, non me lo aveva fatto notare lui ma, dato che la sera prima in auto si era ritratto, sapevo di dover evitare il torace. Appoggiai la mano sulla parte bassa dell’addome, vicino al fianco.
«Tutto a posto?» domandai.
«Sì.» Poi, mi prese la mano e la spostò delicatamente verso l’alto in modo che le mie dita gli sfiorassero la parte bassa delle costole.
«Okay» feci. Desideravo dirgli che capivo che mi stava mostrando che era davvero tutto a posto.
Ci fu silenzio per un po’, si udivano solo il fruscio delle foglie, il cinguettio degli uccelli, il rombo occasionale di una macchina che passava lungo la strada.
«Posso chiederti una cosa?» domandai, sollevandomi su un gomito per poterlo guardare in viso.
Alzò gli occhi e annuì.
«So che non volevi parlarne quando te l’ho chiesto in precedenza, ma perché sei venuto a stare qui?» domandai.
Cambiò lievemente espressione in volto, da tranquilla e rilassata a tesa e rigida. Riuscivo a sentirlo cercare di controllare il suo respiro, per mantenerlo lento e costante. Riuscivo a sentirlo deglutire mentre rifletteva su cosa dirmi. Inspirò profondamente, come se tentasse di trattenere aria nei polmoni e, proprio quando pensavo che stesse per parlare, espirò di nuovo.
Alla fine si schiarì la gola, mi fissò un solo istante prima di spostare gli occhi di nuovo verso il cielo. «Lo scorso anno è successa una cosa a scuola che mi ha sconvolto la vita.»
Aspettai.
«Mi hanno picchiato» rivelò alla fine. «E in maniera brutale, tre contro uno.»
«Oh mio Dio» sussurrai.
«Non sono potuto tornare a scuola per un po’» continuò. «E poi, non lo so, le cose sono cominciate ad accadere in fretta, ho finito per dichiarare la mia omosessualità ai miei genitori e loro sono rimasti spaesati, quindi, una volta in grado di tornare a scuola, non me lo hanno permesso. Ancora non hanno capito come affrontare la situazione, credo.»
«Chris, mi dispiace. Sei…»
«Sto bene, adesso» mi interruppe, incontrando il mio sguardo. «Giuro. Non ne parlo neanche quasi più, ormai.»
Tuttavia mi sembrava troppo sicuro di sé, troppo distaccato; ero certa che omettesse qualcosa, potevo immaginare da sola il resto, il quadro era chiaro.
«Sentivo il bisogno di allontanarmi per un po’» terminò. «Ecco tutto.»
Scrollò le spalle come se non fosse successo nulla, e anche se volevo fargli tantissime domande annuii e cercai di nascondere il tremolio che mi prese alle mani, il mio corpo che si rifiutava di trattenere la rabbia verso ciò che aveva subito.