C’ero dentro fino al collo. Era passata solo una settimana dalla prima notte in cui ci eravamo baciati e io ero totalmente perso di lei. Passammo ogni giorno della settimana tra la mia camera da letto e la sua, quando Isobel era a casa durante il giorno. Maia si era anche data malata al lavoro martedì e mercoledì, per poter stare insieme.
Si era scambiata il turno con un collega, spostandolo da mercoledì a venerdì.
Io non correvo da giorni, ma ora che prendevo gli ormoni il mio corpo poteva contare sui suoi muscoli, mentre prima avrei già sentito i polpacci e i femorali perdere tono.
Erano i piccoli momenti come quello che continuavano a sorprendermi, non combattevo più costantemente una battaglia persa contro il mio corpo. Il che significava che mi potevo prendere tre giorni per starmene a letto con la mia ragazza – sì, ragazza – senza preoccuparmi che le curve del mio corpo si ammorbidissero.
Indossavo la tenuta da corsa e stavo facendo stretching mentre osservavo dal portico la madre e il padre di Maia uscire per andare al lavoro, prima lei e poi lui. Non appena sparirono, saltai su e attraversai di corsa il campo, proprio mentre Maia stava per chiudere la porta. Quando mi vide arrivare, aspettò sul gradino più alto sorridendo.
«Buongiorno» fece, chinandosi per baciarmi; i capelli le caddero lungo le spalle, accarezzandole il viso.
«Vai da Bargain Mart?» domandai.
«Purtroppo sì» si lamentò. «Preferirei passare la giornata con te.»
«Pensavo di correrti a fianco mentre vai in bicicletta» le dissi. «Per tenerti compagnia lungo il tragitto.»
Annuì e il sorriso le illuminò gli occhi come se dentro di lei ci fosse una piccola stella bianca e splendente.
Se fosse stato vero, sinceramente non me ne sarei stupito, perché ogni volta che le ero accanto sentivo il mio corpo attratto da lei, millimetro dopo millimetro, come se Maia fosse il Nord Magnetico e io obbedissi semplicemente alle leggi della natura.
In strada, le correvo accanto mentre lei pedalava.
«Puoi andare anche più veloce, sai» dichiarai. Forse volevo mettermi un po’ in mostra. Ero forte, allenato e desideravo che lo sapesse.
«Okay» disse, sollevandosi sui pedali per procedere più rapida.
Aumentai il ritmo, potevo riuscirci nonostante quella fitta sul fianco.
Rallentò di nuovo e fece: «Non voglio arrivare in anticipo».
Superammo la casa di Bowman e la scuola davanti a cui ero passato solo con l’auto.
Guardai l’edificio di mattoni e dall’aspetto istituzionale e mi immaginai entrare dalla porta, tenendo Maia per mano. Non dissi nulla, ma non correvo così veloce da quando ero nella squadra di atletica. Lei era la mia energia.
Raggiunto Bargain Mart, rallentò fino a fermarsi e scese dalla bicicletta.
Cercavo di riprendere fiato a fatica, quando Maia agganciò il dito al colletto della mia maglietta e mi chiese: «Ci vediamo dopo?».
Volevo risponderle di darsi di nuovo malata, non resistevo ad aspettare di rivederla, invece dissi: «Ovvio».
Ci salutammo con un bacio e mi attirò a sé, anche se ero sudato e affannato. Era favoloso farlo così davanti a tutti, come per dire al mondo – o almeno a Carson – che ci appartenevamo.
Mi guardava come se fossi importante, tanto che nessun ottimo voto o medaglia per il primo classificato mi aveva mai provocato una sensazione simile. Restai a osservarla portare la bici nel parcheggio e poi agganciarla al portabiciclette accanto all’edificio. Mi salutò con la mano mentre spariva nella porta di vetro scorrevole.
Ricominciai a correre, avrei tenuto un ritmo più blando durante il resto del tragitto.
Un pick-up mi passò accanto dopo un po’, ma non gli prestai molta attenzione fino a un paio di minuti più tardi, quando rigirò e prese la corsia opposta.
I miei pensieri erano a un milione di chilometri da lì, rivivevo ogni momento elettrizzante di quella settimana con Maia, quando sentii il motore del veicolo avvicinarsi al mio fianco. Mi girai a controllare e, vedendo chi era, aumentai di poco il passo, anche se sapevo che, se le cose si fossero messe male, non avrei certo potuto superarlo.
«Ehi, Chris» fece Neil dal pick-up, procedendo lentamente accanto a me.
Non gli risposi e guardai avanti.
«Ehi, amico» gridò fuori dal finestrino aperto. «Senti, mi dispiace per l’altro giorno.»
Continuai a camminare.
«Mi sono comportato da stronzo, va bene?» gridò. «Lo so.»
Sinistra, destra, sinistra, destra. Cercai di concentrarmi. Non avrei interrotto il passo per lui.
«Amico, ero strafatto» si giustificò. «Avanti, vuoi fermarti un minuto?»
Rallentai. Mi ripetei che stavo solo diminuendo la velocità per dirgli esattamente cosa pensavo di lui.
«Che c’è?» Gli gridai contro di nuovo.
«Senti, non ho nessun problema con te, okay?» urlò dal finestrino sul lato del passeggero.
«Non posso dire altrettanto» urlai.
«Volevo solo avvisarti, okay?»
«Avvisarmi?» ripetei.
«Riguardo a Maia» fece, scuotendo la testa, il suono del suo nome sulle sue labbra mi smosse qualcosa dentro, avvertii un calore nel petto.
«È una ragazza incasinata» aggiunse con gli occhi sgranati, sollevando le sopracciglia. Mi puntò il dito contro. «Fai attenzione con lei, okay?»
Restai lì, esterrefatto, in silenzio e incredulo. Quando il mio cervello ordinò alla mente di domandare: «Cosa?», Neil si stava già allontanando.
«Ehi!» strillai. «Torna qui!»
Ma ormai era sparito.
Corsi verso casa, mi feci una doccia, mi vestii e mangiai dei panini con Isobel in cucina prima che si recasse al lavoro. Me ne andai anche in giro in macchina per un bel po’, ma nessuna di queste attività mi aiutò a togliermi dalla testa le parole di Neil.
Sapevo che non avrei dovuto permettergli di avvicinarsi. Era lo stesso tizio che aveva maltrattato Maia alla festa e le aveva tagliato le gomme. Una persona che si comporta così non meritava le mie energie mentali. Eppure mi era entrato in testa, e nell’anima.
Sapevo che Maia sarebbe tornata a casa tardi nel pomeriggio – aveva detto attorno alle quattro – ma ogni piccolo rumore che sentivo fuori mi faceva saltare verso la finestra o la porta più vicina.
Non appena si fecero le tre e mezzo, mi chiesi se dovessi andare a prenderla, ma non lo avevamo pianificato e non volevo eccedere. Non programmavamo mai nulla, in realtà.
Poi arrivarono le quattro.
Restai fermo sul portico.
Nessuna traccia di lei.
“Intorno alle quattro” mi ripetei. Poteva significare le quattro come le quattro e mezzo.
Tornai dentro e mi misi a controllare il cellulare, potevo pazientare ancora un po’.
Osservai passare le quattro e dieci, poi quindici, venti, venticinque, e infine arrivarono le quattro e mezzo.
Stavo diventando pazzo. Appoggiai il telefono con il display sul tavolino e mi sedetti sul divano. Chiusi gli occhi e giurai di non guardare più il telefono se non dopo aver completato un ciclo di cinque respiri profondi che mi aveva insegnato Isobel durante la fisioterapia per le costole rotte.
Inspira. Espira. Uno.
Inspira. Espira. Due.
Inspira. Espira. Tre.
Inspira…
Camminavamo da un po’ fuori dal sentiero, e non ricordo se qualcuno stesse parlando o meno. Quando mi ero reso conto di non sentire più i fischietti e le grida degli allenatori della scuola, avevamo già raggiunto una radura. Si erano fermati tutti ed erano rimasti a fissarmi.
“Che c’è?” chiesi, dato che nessuno si muoveva. “Dove sono i fuochi d’artificio?”
Si scambiarono risolini e sorrisetti e occhiate oblique.
“Perché fingi di essere un ragazzo?” domandò Ben, ignorando la mia domanda.
Il cuore prese a battermi forte. “Corri” mi ripeté quella voce, sempre più forte.
“Non è così” risposi.
“Non è vero che fingi oppure che non sei un ragazzo? Quale delle due?” insisté Ben, a malapena in grado di finire la frase senza ridere. Si mise le mani sui fianchi e oscillò indietro sui talloni, in attesa di una risposta che non potevo dargli. “Non possono essere entrambe le cose.”
“Sai che c’è? Vaffanculo” borbottai, dandogli una spallata mentre cominciavo ad allontanarmi.
Corri.
“Vaffanculo” ripetei anche alla voce nella mia testa. Non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi scappare. Lui mi afferrò il braccio e mi strattonò così forte che pensai mi avesse lussato la spalla. Feci per spingerlo via, ma fui troppo lento o forse lui fu troppo veloce, e ormai mi aveva preso entrambe la braccia. Mi agitai convinto di potermelo scrollare di dosso, invece lui strinse la presa ancora di più.
“Meglio che non ti metti contro di me, Christina” mi provocò, con un tono sia di avvertimento che di sfida. Mi girò il polso e mi premette la mano contro i suoi jeans, strofinandola sul pene in modo così forte che percepii i denti di metallo della zip strapparmi la pelle del palmo. “Lo senti?!” urlò mentre Tobey e Jake battevano le mani e ridevano e fischiavano, ma ciò che ricordo di più era il suo respiro sulla mia faccia.
Liberai un braccio, ma prima che potessi fare altro, Tobey mi balzò davanti e lo afferrò. Mi bloccò da dietro con una di quelle strette da wrestling, agganciando le braccia sotto le mie e schiacciandomi la nuca verso il basso in modo che non potessi muovermi. Avevo già visto questa mossa, si chiamava Nelson, mezza Nelson, o Nelson completo non ricordavo con precisione. Sapevo che c’era una tecnica specifica per uscirne, ma in quel momento non rammentavo neanche quella.
Ben si frappose e mi afferrò tra le gambe, le dita che si insinuavano fra gli strati di pantaloni della tuta, shorts maschili e slip femminili presi durante lo shopping per l’inizio dell’anno scolastico finché fui costretto a sussultare, reprimendo un urlo. “La senti la differenza?” urlò. “Non hai nulla qui!”
Gli diedi un calcio sullo stinco più forte che potei. Stavo mirando più in alto, ma bastò a costringerlo a togliermi le mani di dosso e, quando si chinò, gli diedi una ginocchiata in faccia. Poi calpestai il piede a Tobey e mi liberai le braccia.
E alla fine, scappai.
Non sapevo se fossi nella giusta direzione, ma continuai a procedere. Riuscivo a sentirli calpestare le foglie secche, rompere i rami degli alberi mentre correvano alle mie spalle. “Sei morta!” urlò uno di loro, non capivo chi. Mi importava solo di allontanarmi il più possibile.
Ero veloce, il più veloce, del resto a casa non c’era forse un’intera parete di medaglie vinte alle gare di atletica che lo provavano? Sapevo di poterli seminare fuori dal bosco, ma inciampai con un piede su un sasso sporgente e caddi. Mi rialzai rapidamente nel secondo in cui il mio piede sinistro toccò il terreno, un dolore lancinante mi salì su lungo la spina dorsale, fino al cervello. Continuai a muovermi, anche se ero certo di essermi slogato la caviglia. Rallentai troppo. Gridai aiuto mentre tentavo di proseguire, ma la mia voce venne soffocata dagli alberi, dalle foglie e dal silenzio. Quei tre mi raggiunsero. Quando mi girai a guardarli, Ben perdeva sangue dal naso.
Mi venne incontro lentamente, come un animale. Io tenni sollevate le braccia, pronto a combattere, rimpiangendo di non essermi iscritto a Taekwondo con Coleton, invece di aver scelto il campo estivo di astronomia. Ma era andata così, perciò non sapevo come diavolo difendermi, a parte proteggere il viso. Ben si avvicinò con un movimento rapido e mi diede un pugno allo stomaco così forte che mi tolse l’aria dai polmoni. Mi piegai in avanti, ma Tobey e Jake mi afferrarono un braccio e mi spinsero a raddrizzarmi. Ben mi colpì ancora allo stomaco. E ancora. Poi sulla faccia, una, due, dieci volte, neanche ricordo.
E quando si resero conto che non c’era più bisogno di tenermi fermo, Tobey e Jake si unirono a lui senza pietà. Mi sferrarono dei calci sul sedere come se fossi un ragazzo. Caddi a terra sbattendo violentemente e allora continuarono a colpirmi sullo stomaco, alla schiena, alle gambe, ovunque. Quando la smisero, aprii gli occhi e li guardai, solo che loro non mi osservavano come se fossi un ragazzo, bensì come una ragazza, e avrebbero fatto in modo che non lo dimenticassi.
Ben mi salì sopra, le ginocchia attorno ai miei fianchi, mi strappò la zip della giacca della tuta, poi mi tolse con violenza la maglietta da sopra la testa. Rimasi incastrato con le maniche della giacca ancora attorno alle braccia. Riuscivo a sentire l’aria e la terra sulla mia pelle nuda. “No.” Contai gli strati attraverso i quali doveva ancora passare: la canottiera di Lycra e due reggiseni sportivi così stretti che persino io avevo problemi a togliere ogni giorno.
“Ma che cazzo?” sbottò Ben. “Tutta questa roba solo per nascondere le tette?” Sentii le sue mani muoversi lungo la mia pancia, verso il basso e l’elastico dei pantaloni della tuta.
“Lasciala stare!” Era la voce di Coleton. Alzarono tutti lo sguardo contemporaneamente. Inclinai la testa, tentando di capire se fosse davvero lui, vedevo tutto sfocato e confuso, ma era decisamente lì, a circa sei metri da noi, con il telefono sollevato. “Ho chiamato la polizia, bastardi pezzi di merda!” urlò con voce rotta.
Chiusi gli occhi.
Quando li riaprii, quei ragazzi se ne erano andati e Coleton era inginocchiato su di me, intento a rimettermi la maglietta. “Riesci a tirare su la schiena?”
Avevo emesso un lamento, parlare era troppo doloroso. Percepivo il mio corpo piegarsi su se stesso, e mi chiesi se stessi davvero per morire. Ogni millimetro della mia pelle sembrava andare in fiamme, eppure sentivo freddo. Coleton si era tolto la giacca della tuta, per piegarla e sistemarla sotto la mia testa, poi mi aveva pulito la bocca con la manica della sua maglietta tirandola fino al palmo. Quando aveva ritratto la mano, era piena di sangue. L’espressione sul suo volto mi aveva spaventato, spingendomi a richiudere gli occhi. Avevo udito le sirene in lontananza; era l’ultima cosa che ricordavo.
Sentii il cane abbaiare e spalancai gli occhi. Balzai in piedi e corsi a guardare dalla finestra della cucina. Roxie era fuori. La bici di Maia era vicino al portico, dove la lasciava sempre.