Con la ragione sapevo che quel sentimento nel mio corpo era solo adrenalina, il cuore che batteva forte, i palmi che sudavano, la scossa elettrica che attraversava ogni vena e ogni cellula, ma un’altra parte del mio cervello si chiedeva se avrei preso fuoco spontaneamente.
Dovevo allontanarmi da lei, temevo che il fuoco che mi ardeva dentro mi avrebbe ucciso.
«Lasciami in pace» gridai mentre sfrecciavo fuori dalla porta, verso lo spazio aperto.
Ma lei non obbedì, mi seguì e disse: «Mi dispiace», cercando di mettersi di fronte a me e bloccarmi il passaggio.
«Togliti di mezzo!» La mia voce sembrava dura, cattiva. Lei fece di nuovo per parlare, ma io la interruppi prima. «Levati di torno.»
«No, dobbiamo chiarirci. Non mi sono spiegata nel modo corretto, ho sbagliato ogni parola. Mi dispiace» ripeté.
Non lo capiva: non volevo più discutere, né capire. Le sue parole, le presunte verità che mi aveva detto, mi aggrovigliavano la mente, risuonando sopra le sue semplici scuse, sommandosi alle frasi di Neil che udivo a ripetizione. Mi sentivo la testa stracolma.
Dovevo tornare a casa di Isobel per poter ricominciare a ragionare.
«Mi dispiace?» gridai oltre le spalle. «È un tentativo così fiacco, persino per te.»
«Lo so. Ma devi credermi, il mio è amore…»
«Smettila.» Non doveva più usare quella parola, non la meritava, e soprattutto non doveva rivolgerla a me.
«Io ti amo» terminò, affrettandosi per stare al mio passo.
«Piantala di ripeterlo!»
«È l’unica verità che sento dentro di me: ti amo.»
Io non avevo certezze, ma una divenne chiara proprio in quell’istante. Raggiunsi il portico di Isobel, finalmente avevo qualcosa di solido a cui aggrapparmi. «Mi ami? Fantastico. Ma indovina un po’? Io invece no!»
«Sì, invece» ribatté piano, ferma e intenta a fissarmi, cosa che per qualche motivo mi fece desiderare di gridare. Ero sul punto di parlare, quando non mi uscì nulla, le parole erano bloccate nella mia gola, dure, pungenti e minacciavano di soffocarmi. Quindi feci l’unica cosa possibile: le voltai le spalle per entrare in casa. Maia continuò a chiamare il mio nome e a tentare di afferrarmi, ma mentre provava a seguirmi, la allontanai.
Chiusi la porta con violenza, e bloccai la serratura con lei dall’altro lato che pronunciava frasi a malapena udibili per via del caos che avevo nella mente. La mia testa pulsava, gli occhi bruciavano, mi facevano male le orecchie e le ossa delle mie gambe sembravano essere andate in pezzi, però corsi su per le scale lo stesso e alla fine mi accasciai sul pavimento, quegli stupidi spilli infuocati piantati dietro agli occhi.
No, non avrei pianto. No, cazzo. Ma mi strofinai il viso e scoprii che era già bagnato, senza volerlo le avevo mostrato le mie lacrime. La odiai anche per quello.
Mi alzai in piedi e, senza pensare o pianificare o soppesare i pro e i contro, cominciai a fare i bagagli. Aprii l’armadio e presi un po’ di vestiti tirandoli via dalle stampelle e ammassandoli dentro una borsa. Dovevo prendere il portatile, il diario, il telefono. Guardai il telescopio. Lo avrei lasciato lì, per il momento; ci avrei messo troppo tempo a smontarlo. Sentivo il bisogno di andarmene subito.
Corsi lungo il corridoio, verso il bagno, e infilai le mie cose in borsa, senza curarmi di verificare se il tappo del gel per capelli o quello del dentifricio fossero chiusi.
Poi scesi in fretta le scale. “Dovrei almeno lasciare un bigliettino a Isobel” pensai. Ma non c’era tempo. Dovevo allontanarmi in fretta. Lei avrebbe capito.
Aprii di scatto la zanzariera e mi ritrovai davanti Maia; mi aspettava sul portico in preda al pianto mentre cercava di fermarmi. La superai come fossi un fantasma. O forse era lei il fantasma. Lanciai le borse sul sedile posteriore della station wagon e chiusi lo sportello sbattendolo con violenza, Maia restò dietro di me per tutto il tempo, ripetendomi di fermarmi.
Avviai il motore, misi la retromarcia, premetti sull’acceleratore troppo forte e la macchina indietreggiò velocemente. Ingranai la prima e sterzai rapidamente, le gomme che sollevavano la ghiaia. Quando guardai in alto, Maia era in piedi davanti a me in mezzo al viale. Premetti il clacson e lei fece un balzo. Spinsi sull’acceleratore e la macchina procedette, però lei rimase ferma e mi fissò attraverso il parabrezza, proprio come la prima volta che l’avevo vista.
E siccome volevo che quel momento finisse, e non solo quello, ma tutti gli altri passati insieme, piantai di nuovo la mano sul clacson. Mi riecheggiò nel cervello, attraversandomi la schiena con un brivido lungo tutto il corpo. Ero sicuro che, da qualche parte nel cosmo, le onde sonore di quell’istante si sarebbero ripetute per l’eternità.
Si spostò.
Frapposi tra me e Maia dieci ore, 1127 chilometri e quattro Stati, ma il cuore continuò sempre a battermi fortissimo per tutto il tempo.
Entrambe le macchine dei miei genitori erano nel vialetto. La luce esterna era accesa, il che significava che mi aspettavano. Parcheggiai la station wagon in strada. Misi lo zainetto in spalla e decisi di lasciare il resto dei bagagli in auto. Mentre mi avvicinavo alla casa, infilai le chiavi in tasca e trovai quella maledetta collana ancora lì, dentro la bustina di plastica.
La luce del televisore illuminava il salotto buio quando entrai, ma la stanza era vuota. Chiusi a chiave la porta con l’intenzione di correre su per le scale e poi in camera, ma sentii la voce di mio padre.
«Chris?» Mi girai a guardare. Stava entrando in salotto dalla cucina. «Ci ha avvertiti Isobel.»
«Oh.» Fu la sola cosa che mi venne in mente.
«Sei…» cominciò a chiedere, ma lo interruppi subito perché non stavo bene e non era tutto a posto, o qualunque altra cosa stesse per chiedermi.
«Sono esausto» mi sentii dire, la voce provata e roca, ed era la verità. Mio padre cominciò a camminare verso di me; avevo bisogno di una via d’uscita, quindi mi affrettai ad aggiungere: «Me ne vado a letto, okay?».
«Okay» rispose, fermo sulla soglia del salotto. Non appena salii, mi chiese: «Chris, siamo felici che tu sia di nuovo a casa».
Quando entrai nella mia stanza, trovai la luce accesa e mia madre intenta a cambiare le lenzuola del letto. Rimasi fermo a osservarla compiere ogni gesto con attenzione, lisciare le pieghe delle lenzuola e stendere bene la coperta.
Sussultò non appena si girò e mi vide lì in piedi. «Mi hai spaventata» commentò portandosi una mano al petto. «Ti stavo giusto mettendo le lenzuola pulite.»
Annuii e borbottai: «Grazie» mentre la superavo facendo cadere la borsa accanto alla scrivania.
«Be’, ti lascio alle tue cose» aggiunse, ma restò lì in piedi a guardarmi. «A meno che…» esitò, poi si avvicinò di un passo. «Ti va di parlare?»
«No.»
«Okay» sussurrò, allungando una mano verso la mia spalla mentre lasciava la stanza.
Chiusi la porta, estrassi la collana dalla tasca, aprii il cassetto della scrivania e la lanciai all’interno. Quell’oggetto e tutto ciò che significava doveva sparire dalla mia vista.