La Terra ha 4,5 miliardi di anni. Il sole 4,6. La galassia della Via Lattea ne ha 13,5. La vita sulla Terra, come quella di ogni batterio monocellulare, è iniziata 3,8 miliardi di anni fa. Gli esseri umani si sono evoluti solo 200.000 anni fa. La civiltà ha solo 6000 anni. Siamo un puntino nel radar del cosmo. Persino l’intero corso della più lunga delle vite umane è praticamente nullo confrontato con quel grande schema. Perciò una maledetta estate è meno di niente.
Il succo del discorso è: dimenticherò Maia.
Cancellerò questa storia dalla mia memoria.
Me la toglierò dalla testa, da un istante all’altro.
Ecco cosa pensavo osservando Coleton insultare il flipper dei Transformers al Battle Ground. Ogni volta che colpiva la palla facendola rimbalzare lungo la traiettoria, si attivavano le campanelle e vari effetti sonori, le luci lampeggiavano, mescolandosi al rumore degli altri videogiochi.
Dopo una lunga corsa che finì con la palla che scivolava giù lungo una barriera laterale – una conclusione davvero frustrante – mi lanciò una rapida occhiata, appoggiandosi al flipper accanto mentre aspettava il punteggio finale, in modo da poter iniziare la seconda partita. «Perché non giochi a qualcosa?» domandò.
Abbassai lo sguardo verso il flipper su cui avevo appoggiato il gomito, era quello di “Ai confini della realtà”. Ci avevo giocato un milione di volte mentre aspettavo gli infiniti tentativi di Coleton con quello dei Transformers. Ero decisamente bravo, contando che i flipper più vecchi sono quelli più difficili. Ero il numero tre sul tabellone segnapunti, o almeno, qualche tempo fa.
Frugai nelle tasche in cerca di un quarto di dollaro.
Misi le mani in posizione sopra i tasti ai lati del flipper. Per un secondo, avvertii persino una piccola scintilla di entusiasmo. Magari essere tornato non era stata un’idea così pessima.
Premetti i grossi pulsanti, e mi preparai a sfoderare le mie mosse. Conoscevo gli obiettivi a memoria, così come quali tragitti e rampe mi avrebbero fatto ottenere più punti. Conoscevo i piccoli movimenti dei fianchi necessari per spostare la pallina, evitando il tilt. E sapevo che se spingevo un tasto alla volta, il colpo sarebbe stato più forte e più preciso. Sapevo che avrei giocato ininterrottamente per dieci, quindici minuti. La regola tacita del flipper entrava in vigore, e Coleton non avrebbe mai osato parlarmi dato che avevo bisogno di concentrarmi sulla traiettoria di quella sfera luminosa di metallo.
Ma la palla cadde in mezzo alle due leve. Una. Due. Tre volte.
Ogni colpo la mandò dritta giù in fondo, e in qualche modo ero troppo lento o prendevo male la mira per riuscire a tenere la palla in gioco per più di un minuto.
Coleton intanto fece un ottimo punteggio e gridò: «Wow!».
Presi a calci il flipper.
«Amico» fece Coleton.
Era una bella sensazione, quindi gli diedi un altro calcio più forte.
«Ehi!» sentii una voce gridare alle mie spalle.
Mi girai. Era il direttore, quello che conoscevamo da anni, che ci permetteva di giocare gratis il giorno del nostro compleanno, che ci regalava i nachos quando vincevamo qualcosa. Solo che adesso mi strillava contro.
«Che c’è?» domandai.
«Hai per caso cinquecento dollari in più?!» gridò.
«Cosa?» ripetei, in tono poco gentile.
«È il prezzo di quel flipper, quindi ti suggerisco di cercare qualcos’altro da prendere a calci.»
«Perfetto» sbottai. «Tanto me ne stavo andando.»
Mi precipitai fuori. Attraversai il parcheggio e mi diressi verso la station wagon.
«Chris!» Coleton mi aveva seguito fuori.
Mi girai di colpo e urlai: «Che c’è?!».
«Che problema hai?» mi chiese. Sembrava confuso, cosa che mi fece arrabbiare ancora di più. Non mi andava di dargli spiegazioni; non ero obbligato, perché nessuno meritava niente da me.
«Lascia perdere, Cole» feci, girandomi per aprire lo sportello della macchina.
«Ma, insomma, cosa ti è successo?» domandò, molto preoccupato. «È per via di quella ragazza?» Gli fui grato per non aver pronunciato il suo nome, ma non poteva comprendermi, non aveva mai vissuto fuori dal suo piccolo mondo irreale. Non era in grado di capire quello che stavo passando.
E questo mi fece ribollire di ira. Mi girai di scatto.
«Sì, è per lei.» Emanavo ostilità da tutti i pori. «E per causa mia. E anche tua. E dei miei genitori. Tutti. È tutto un mucchio di stronzate!»
Stavo per scusarmi quando tornò da me chiedendo: «Oh, quindi io sono un mucchio di stronzate, e anche tu e tutto il resto?». Gridava, cosa che non succedeva mai. In tutti quegli anni di amicizia non lo avevo mai sentito urlare. «Sai cosa penso sia una vera stronzata?»
«Non vedo l’ora di saperlo» rimbeccai. Era ufficialmente una lite.
«Tu che mi molli per tutta l’estate, tagliandomi fuori dalla tua vita, mi tratti da schifo e poi torni e io non te lo faccio neanche notare mentre tu ti comporti in modo aggressivo, da vero pezzo di merda!» Si interruppe per riprendere fiato. «Ecco cos’è un mucchio di stronzate!»
Restai senza parole.
«Tu non sei così» aggiunse. «Vuoi davvero diventare una persona del genere?»
Forse sì. Magari volevo tenermi strette quelle emozioni, quell’irrequietezza, e sguazzarci per un po’ perché era meglio provare rabbia che la tristezza debilitante e devastante che minacciava di consumarmi.
«Già» risposi. «E dato che ci siamo, perché non ti fai dare un passaggio a casa da qualcuno?» commentai, poi entrai in auto e sbattei lo sportello.
Guardai dritto davanti a me e accesi il motore, ma riuscivo comunque a vederlo con la coda dell’occhio, fermo accanto al mio finestrino, le mani sollevate al cielo mentre diceva: «Davvero? Che comportamento maturo!».
Volevo sfrecciare via, lasciarlo lì in quel parcheggio vuoto, osservare le sue braccia sopra la testa nello specchietto retrovisore mentre me ne andavo in cerca di un posto migliore. Ma invece di allontanarmi, girai di nuovo e, mentre me ne stavo seduto a guardare quell’edificio, il paesaggio diventò confuso, come un miraggio. Sbattei le palpebre diverse volte, ma la mia vista si fece ancora più sfocata. “No.” Volevo restare così, però la rabbia mi stava facendo crollare, incrociai le braccia sul volante e ci abbandonai sopra la testa.
Non sollevai lo sguardo quando Coleton fece per aprire lo sportello del passeggero ed entrare. E neanche quando mi chiese: «Stai bene?» e poi mi strinse la spalla, aggiungendo: «Andrà tutto a posto».
«Oddio, mi dispiace» borbottai a testa bassa. «Odio piangere, cazzo.» E non era una stupidaggine maschilista. Il pianto mi esauriva fisicamente, mi si gonfiavano gli occhi, mi faceva male lo stomaco e avevo la nausea per giorni, quindi volevo evitarlo.
«Sì, anch’io» fece, in tono tranquillo. «Però devi sfogarti.»