Il rombo del motore del pick-up di Neil lungo il viale riecheggiò nel fienile come un tuono fragoroso. Chiusi gli occhi un istante prima di dirigermi verso la porta. Subito dopo, vidi Neil avvicinarsi a casa mia e, quando lo chiamai, si fermò di colpo.
Camminò lentamente verso il fienile, stringendo gli occhi e voltando il capo come se tentasse di esaminare meglio la situazione, in modo sospettoso; sembrava quasi che avesse paura.
«Ehi» gridai, agitando la mano.
Si fermò a diversi metri da me e domandò: «Be’, eccomi. Che c’è?».
«Entra» ordinai, mentre aprivo le due ante della porta del fienile e lasciavo entrare la luce.
Attraversò la soglia continuando a tenermi d’occhio come se potessi fare qualcosa di losco, ma poi, una volta dentro, restò fermo e si guardò attorno. Il fienile era quasi come l’ultima volta in cui ci era stato. Più o meno. Poi posò gli occhi su di me, scosse la testa e sollevò le braccia verso il soffitto.
«Perché?» chiese con voce tremante. «Perché mi hai mentito?»
«Non lo so» risposi, anche se non era vero. Lo sapevo eccome. Avevo sofferto talmente tanto da credere che l’unico modo per non provare più dolore fosse scaricarlo su qualcun altro. E, semplicemente, lui si era trovato davanti a me.
«Non è una risposta» sbottò.
«Perché ero gelosa del vostro rapporto, e arrabbiata e sofferente e spaventata» spiegai, ed era vero in parte. «Detestavo la sola idea che fosse legata più a te che a me.»
Guardò in basso. «Lei non era legata a nessuno.»
«Hai capito cosa intendo» insistetti. «Ero così arrabbiata per non aver avuto la possibilità di rappacificarmi con lei che me la sono presa con te solo perché tra voi andava tutto bene.»
«Ti rendi conto che a lei non piaceva la vostra situazione, vero?»
«Guarda, a me sembra di non sapere nulla.»
«Certo che lo sai» ribatté. «Magari non siete state molto vicine l’ultimo anno, e allora? Non cancella certo i sedici precedenti!» gridò, accendendosi di rabbia. «E non credere che anch’io non abbia rimpianti. Anche tra noi c’erano dissapori.» Si fermò per fare un respiro. «Avrei voluto dirle talmente tante cose. Un milione!»
«Non… non ne avevo idea» cercai di dirgli, ma lui continuò a parlare.
«Avevi ragione su ciò che mi hai detto quella sera.»
Capii subito a quale sera si riferisse.
«La amavo» ammise. «Sì, magari era ovvio, forse tu e chiunque altro mi giudicavate patetico, ma ti sbagliavi quando hai detto che non mi ricambiava.»
«Lo so» dissi.
«Nessuno potrà portarle via quel sentimento, e neanche a me. Perché lei mi amava. Magari non nel modo in cui l’amavo io, ma avrebbe potuto. Se solo avessi trovato il coraggio di dirglielo, magari avrebbe potuto.»
Si strofinò gli occhi con il dorso della mano.
«Mi dispiace» feci, anche se di sicuro quelle parole non bastavano affatto.
Mi diede la schiena e si avvicinò alla grande parete piena di foto.
«Qual era la tua domanda?» chiese, schiarendosi la gola. Nel messaggio hai scritto che dovevi dirmi e chiedermi delle cose, immagino che l’argomento fosse questo, quindi…»
«Sì, hai detto che sapevi quali erano le foto più importanti, le sue preferite.» Mi fermai, misi da parte l’orgoglio, ignorai il senso di colpa e tutte quelle emozioni problematiche a cui permetto di solito di frenarmi.
Indicò una decina di foto, che io non avrei saputo indovinare neanche provandoci (pur avendo tentato). Nessuna era tra gli scatti che avevo scelto negli ultimi tre mesi.
«Sembri delusa» osservò.
«No, è solo che non credevo fossero quelle.»
«Immagini bene cosa ti avrebbe detto lei» fece, non in tono di domanda ma come affermazione.
«No, cosa?» chiesi.
«Non lo so. Probabilmente qualcosa tipo…» parlò con un tono di voce più acuto e sottile, come Mallory, assumendo il suo stesso sguardo perso. «Quelle che tu reputi più importanti lo sono davvero.» Sorrise in modo triste e poi aggiunse con la sua voce normale: «Avrebbe accennato a qualcosa circa gli occhi di chi guarda, o roba simile, suppongo. Non sembra uno dei suoi discorsi?». Lasciò uscire una lieve risata e poi ridiventò serio.
«Già» concordai ridendo. «Decisamente.»
«Be’» disse Neil. «Sono contento che tu sia una bugiarda patologica, Maia.»
Era fermo lì, in piedi, a disagio, con le mani in tasca, poi si toccò i capelli eternamente carichi di gel e infine incrociò le braccia al petto. Sembrava più giovane dell’ultima volta in cui gli ero stata così vicino. O forse ero io che mi sentivo all’improvviso molto più vecchia.
Stava andando verso la porta, quando gli chiesi: «Ehi, qual è la tua preferita? Se è quello che conta davvero, come hai detto tu».
Fissò la parete per un istante, sollevò il dito in aria mentre si dirigeva verso l’angolo accanto alla camera oscura di Mallory, dove c’era un contenitore di metallo con dei cassetti lunghi e stretti. Li aprì a uno a uno.
«Non sapevo che ci fosse qualcosa lì dentro» commentai, seguendolo.
Lo osservai sollevare fogli di carta velina che separavano delle stampe nere e bianche, frugando in ogni cassetto, in cerca di una in particolare.
Tirò fuori una pila di foto avvolte in un foglio bianco piegato e la mise sopra il cassetto, poi la aprì, rivelando decine di foto con la stessa immagine: due tronchi d’albero, uno accanto all’altro, con un filo spinato inserito nella corteccia; gli altri alberi erano cresciuti attorno così vicini da intrecciarsi tra loro.
«Questa» dichiarò alla fine. «L’ha scattata lo scorso inverno, mentre eravamo in montagna.»
«Prendila» feci.
«Davvero?» domandò, stringendo gli occhi incerto.
«Non è quello che avrebbe desiderato lei?»
Annuì, sussurrando: «Sì, penso proprio di sì». Prese la foto tenendola tra le mani con attenzione, come fosse un neonato, mentre si dirigeva verso la porta del fienile.
«Ehi, Maia?» chiese, incamminandosi verso la luce. «Mallory non ti ha mai odiata. Quella era la mia, di bugia, okay?»
Credo che forse, nel profondo del cuore, ne fossi già certa, però fui grata di sentirglielo dire.
Dopo che Neil se ne fu andato, frugai nei cassetti di metallo in cerca della foto con il murales e la trovai quasi subito. Anche di quella ce n’erano a decine. Scelsi una copia e la tenni delicatamente per gli angoli.
Avevo chiesto a Neil di venire al fienile per un unico motivo: scoprire cosa significavano quelle parole, ma lui me lo aveva già spiegato senza nemmeno rendersene conto. Volevano dire che ogni cosa assume solo il significato che gli si attribuisce, e siamo noi a deciderlo. Ognuno è ciò che crede fermamente di essere, niente di più e niente di meno.
Per un istante ebbi le idee chiare e capii esattamente cosa dovevo fare.
Avevo già deciso di darmi malata al lavoro quel giorno, non potevo gestire le responsabilità del reparto svendita né i camerini. Dovevo ricominciare a vivere. Dovevo fermarmi, pensare al casino che avevo combinato e riparare. Perché un nuovo inizio non significa semplicemente dimenticare tutto ciò che è successo prima.
Quella sera, dopo essermi nascosta sul portico di Isobel, le sbucai davanti non appena rientrò da lavoro.
«Oddio, ragazza mia!» gridò non appena mi vide ferma sul gradino più in alto. «Mi hai spaventata a morte.»
«Scusa» feci. «Ti stavo aspettando perché volevo chiederti un favore.»
Mi guardò di traverso, porgendomi una delle borse che portava, in modo che potesse aprire la porta. «Un favore che riguarda Chris?» La seguii dentro mentre accendeva la luce della cucina e appoggiava le sue cose sul tavolo.
«In un certo senso.»
«Continua» mi incoraggiò mentre si toglieva le scarpe e poi si lasciava cadere su una sedia.
«Vorrei spedirgli una cosa, ma non ho il suo indirizzo.» Le sfoderai il mio miglior sorriso finto in stile Bargain Mart. «Per favore?» aggiunsi, mentre il sorriso stava per cedere. «È importante.»
Strinse gli occhi, poi allungò la mano verso un cassetto della cucina per estrarre un taccuino, e lo sbatté sul tavolo. Frugò nel cassetto, passando le dita tra i vari oggetti, finché trovò una penna.
Il mattino dopo ero già davanti alla posta poco prima che aprisse. Sul retro della foto di Mallory avevo scritto un messaggio per Chris:
Credo di aver finalmente capito cosa significa.
Chiamami, ti prego.
Con amore, Maia.
Sperai che la fotografia avrebbe significato questo per Chris: che nonostante tutto lui mi vedeva come ero realmente e lo stesso accadeva a me con lui. Rivolsi una preghiera silenziosa all’universo. Misi la busta sul bancone e la affidai all’impiegata delle poste. Pagai un importo extra affinché arrivasse il giorno dopo. Osservai con attenzione la donna pesare la busta e affrancarla all’angolo superiore destro prima di lanciarla in un cesto alle sue spalle.
«A posto. Abbiamo finito» mi avvertì, dato che ero rimasta lì davanti.
Me ne andai a casa.
Ad aspettare la sua risposta.
Potevo farcela. Ero in grado di attendere.