MAIA

Mentre aspettavo che Chris tornasse a casa, io e sua madre parlammo di Carson e di come fosse crescere lì e di quanto poco fosse cambiata da quando viveva in quella casa grigia. Parlammo di quali professori insegnassero ancora a scuola e del logo inquietante di DairyLand Fairy e di un milione di cose da ragazze di provincia. Non accennammo a Chris appositamente. Ammesso che lei sapesse come mi ero comportata con lui, non lo lasciò trasparire.

Quando finalmente lui rientrò mi preparai a qualunque eventualità stesse per accadere.

Chris restò fermo all’ingresso e mi guardò dall’altra parte della stanza, l’espressione tranquilla e neutrale, da cui non trapelava nulla. Non era stupito né felice di vedermi, nemmeno arrabbiato; sembrava quasi che mi aspettasse.

«Be’, vi lascio soli» disse la madre, alzandosi. «È stato un piacere conoscerti, Maia.»

Mi alzai anch’io, e la ringraziai per la bibita che mi aveva offerto. Mentre usciva dalla stanza, mi sentii di nuovo attirata da Chris, mi avvicinai di pochi passi, ma lui restò dov’era.

«Cosa ci fai qui?» domandò, in un modo disinvolto che mi sconcertò, mentre guardava in basso, avvolgendo il cavo delle cuffie attorno al cellulare.

«Ho pensato che non mi avresti chiamata» risposi.

Al che mi guardò e gli spuntò un sorrisetto all’angolo della bocca. «E quindi hai percorso mille e centoventisei chilometri in macchina?»

Alzai le spalle.

Avanzò di pochi passi e si fermò di colpo come se ci fosse una barriera invisibile a dividere la stanza e noi ci trovassimo sui due fronti opposti.

«Non sono qui per ricominciare o riprendere da dove ci eravamo lasciati, però non potevo permettere che finisse in quel modo, ci meritiamo molto di più, dopotutto» cercai di spiegare. «Non trovi?»

Sospirò, indicò con il mento verso la cucina, dove si trovava sua madre e rispose: «Andiamo». Si girò, incamminandosi verso le scale. Lo seguii al secondo piano della casa, il tappeto era morbido e soffice sotto i miei piedi, il corrimano liscio e freddo sotto il palmo della mia mano.

Mi condusse lungo un corridoio, verso la sua stanza, la sua vera camera, non quella della zia, dove avevamo trascorso così tante ore insieme.

Quella di Chris era totalmente diversa, le pareti erano piene di poster e di un’infinità di libri sistemati su tanti scaffali; c’era una scrivania su cui aveva messo il suo taccuino, il portatile, una serie di penne, matite e un enorme calendario lunare attaccato a una bacheca di sughero sul muro di fronte.

E appoggiata sopra la scrivania, sotto il calendario, c’era la lettera con la mia calligrafia. Sembrava un po’ sgualcita, ma intatta. Non l’aveva aperta.

Chiuse la porta e restò lì, in attesa che parlassi.

«Non l’hai aperta?» domandai. Mi avvicinai alla scrivania e presi la busta, poi lo raggiunsi e gliela porsi. Lasciò che gliela mettessi tra le mani, poi mi guardò come un tempo e per un istante pensai che forse ci saremmo baciati, e che magari la situazione non era così irreparabile, dopotutto; però poi abbassò gli occhi verso la busta e andò a sedersi sul bordo del letto.

Mi accomodai accanto a lui, lasciando uno spazio tra noi perché avevo capito che le cose erano cambiate. Lo osservai aprire la parte incollata della busta e tirare fuori la foto. L’avevo avvolta nella carta velina e messa tra due pezzi di cartone per evitare che si piegasse. Li tolse, mettendoli da parte con cura.

«Era uno degli scatti di Mallory» spiegai mentre esaminava l’immagine in bianco e nero del posto in cui l’avevo portato, quello che ci aveva cambiati entrambi.

Lo osservai rigirarla tra le mani e leggere la nota che avevo scritto dietro.

«Cosa significa?» domandò, guardandomi di nuovo.

«Credo voglia dire che non esiste un’unica verità, un solo modo di amare e di lasciarsi conoscere, ma…» mi fermai, cercando di pensare a una parola abbastanza importante da comprendere tutto ciò che avevo imparato su di lui, su Mallory, sui miei genitori e su me stessa.

«Modi infiniti?» terminò per me.

«Esatto.»

«Mi piace» disse a bassa voce.

«E significa anche che sono dispiaciuta» sussurrai. «E che tutte quelle cose che ti ho detto e che ho fatto riguardavano me e i miei problemi e non te.»

«Lo so.» Annuì e poi aggiunse: «Anch’io».

Mentre eravamo nel suo vialetto, in attesa che Hayden e Gabby tornassero a prendermi, volevo dirgli che lo ritenevo la persona migliore mai conosciuta e che insieme avevamo curato una mia ferita profonda e in apparenza inguaribile, che non avevo idea di come avrei fatto a dimenticarlo e, soprattutto, non ero sicura di volerlo.

Quando arrivò la macchina ci guardammo. Sperai sapesse già tutte quelle cose senza che dovessi declamarle a voce alta.

Gli gettai le braccia al collo, perché tra noi non poteva finire senza un ultimo abbraccio.

Lui ricambiò e, quando fece per allontanarsi, sentii di nuovo la terra tremarmi sotto i piedi. Lo strinsi ancora un istante, e lui me lo permise.

Ma nulla resta per sempre; nulla resta mai abbastanza a lungo.

Lo lasciai.

Mi costrinsi ad andare verso la macchina e, quando mi voltai verso la casa, lui era già sparito.