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Praticamente tutti gli studenti sono fuori in cortile. Si spintonano e fanno calca. I loro discorsi sono concitati, ma a voce bassa. Nessuno sa di preciso chi è che è morto, ma gira voce che sia Elias Malmgren. I professori hanno mandato tutti a casa, ma è chiaro che nessuno ha intenzione di andarsene fino a quando non verrà portato fuori il cadavere.

Il cadavere. Rebecka rabbrividisce. È in piedi sulla scalinata davanti all’ingresso principale della scuola, e Gustaf la sta abbracciando.

«Promettimi che a te non succederà mai niente del genere» gli dice sottovoce.

Gustaf la stringe un po’ più forte e le appoggia le labbra all’orecchio. «Promesso». Poi le dà un lieve bacio sulla guancia.

Certe volte, Rebecka non riesce ancora a capacitarsi di stare insieme a lui. Gustaf è sempre stato il ragazzo più popolare della scuola, quello il cui nome viene scritto molte volte sui quaderni delle ragazze durante le lezioni. Rebecka era una di queste ragazze, ma non avrebbe mai creduto che Gustaf si sarebbe accorto di lei. È sempre stata una fra le tante. Le dava quasi un senso di sicurezza, la convinzione di non poterlo avere. Gustaf, la stella calcistica locale. Un anno più di lei. Bello come un attore di Hollywood, e quasi altrettanto irraggiungibile.

Poi, al ballo di primavera delle none, è cambiato tutto. Hanno pomiciato. E una settimana più tardi, la sera dopo la consegna dei diplomi, hanno pomiciato di nuovo. Rebecka aveva bevuto due bicchieri di sidro ed era abbastanza su di giri da azzardarsi a chiedere: «Adesso stiamo insieme?»

E lui, con il suo meraviglioso sorriso, ha risposto: «Certo! Ovvio!»

Durante l’estate, la sua vita è cambiata completamente. Adesso tutti sanno chi è Rebecka. Ma soprattutto è cambiata lei. Le fa quasi paura il pensiero di dipendere così tanto da Gustaf. Certo, lui è bellissimo, e lei non si stancherebbe mai di guardarlo. Non è mai sazia dei suoi baci. Ma quel che la lascia perplessa è il fatto di essere diventata qualcuno. Ha la sensazione che tutto questo possa esserle strappato via in qualunque momento. Già s’immagina che un giorno tutti si accorgeranno che lei non è poi così intelligente, né simpatica, né bella. E soprattutto, che se ne accorga Gustaf.

La marea di gente è attraversata da un mormorio. Le porte della scuola si aprono e i lettighieri escono con una barella coperta. Mentre si dirigono verso l’ambulanza, la massa di persone si chiude alle loro spalle. Gli studenti tendono il collo nel tentativo di intravedere chi c’è sotto quel telo.

I lettighieri sollevano la barella, la caricano sull’ambulanza e chiudono il portellone, poi in tutta calma entrano nella cabina di guida. Le sirene cominciano a urlare, probabilmente per indurre la folla a spostarsi: non c’è poi tutta questa fretta di trasportare il corpo.

«È lui» dice una voce ansante.

Eccola lì, Ida Holmström, come sempre in compagnia delle sue ombre, Julia e Felicia. Praticamente la versione bionda di Qui, Quo e Qua.

«È Elias Malmgren» precisa Ida.

«E tu come fai a saperlo?» chiede Gustaf.

«Abbiamo sentito dei professori che ne parlavano» dice Julia.

Ida le lancia un’occhiata assassina, palesemente infastidita dal fatto di essere stata interrotta. Qui la protagonista è lei. Guarda Gustaf con i suoi occhioni da cocker. «Triste, vero?»

Prima che Rebecka si mettesse con Gustaf, Ida la ignorava nel modo più completo. Poi, all’indomani del diploma del biennio, le ha telefonato per invitarla a fare una nuotata nel Dammsjön, come se fossero state amiche da una vita. Rebecka si era resa conto di quanto fosse assurda la situazione, ma non ha osato dire di no. Più che altro perché Ida le fa una gran paura.

«Non capisco come si possa arrivare a togliersi la vita» mormora Felicia.

Ida annuisce. «Bisogna veramente essere degli egoisti. Cioè, pensa ai suoi genitori».

«Probabilmente stava male» osserva Rebecka, ma vorrebbe mangiarsi le mani: sta facendo la figura della rammollita.

«Ma è ovvio, era depresso» dice Ida. «Però tutti abbiamo i nostri problemi, non c’è bisogno di ammazzarsi. Se tutti si compiangessero fino a quel punto, nel giro di poco non esisterebbe più nemmeno un essere umano».

«Secondo me era finocchio» commenta Felicia.

«Sì, ho letto che spesso si suicidano, quelli» rincara Julia.

«Lo prendevano tutti per il culo!» taglia corto Gustaf.

Ida incrocia il suo sguardo e inalbera il suo sorriso più accattivante. «Lo so, G...»

Rebecka deve sforzarsi per non fare una smorfia. È stata Ida stessa a inventarsi il nomignolo ‘G’. Tutti gli altri lo chiamano soltanto Gustaf.

«...però, diciamocelo» continua Ida, «non è che lo obbligassero a venire a scuola così vestito e truccato».

Julia e Felicia annuiscono simultaneamente, e Ida, incoraggiata dal loro sostegno, prosegue: «Insomma, se la cosa lo faceva star male fino a questo punto, poteva fare un piccolo sforzo per adattarsi e comportarsi in modo un po’ più normale. Non voglio dire che era colpa sua se lo prendevano in giro, però non è che facesse granché per evitarlo».

Rebecka fissa Ida, che con aria sfacciata lancia un’occhiata a Gustaf, quasi speranzosa.

«Ma che cazzo, Ida» dice lui. «Non ti annoi, a fare sempre la stronza? Prenditi una pausa, una volta ogni tanto».

Ida batte le palpebre, poi fa una risatina sforzata. «Oh, G, sei sempre così spiritoso». Poi si volta verso Julia e Felicia, che si guardano, incerte. «I maschi hanno un umorismo tanto rozzo».

Rebecka prende per mano Gustaf. È fiera di lui, ma lei non ha detto niente, e la cosa le rode.

* * *

Minoo e Linnéa sono sedute sul divano verde scuro dell’ufficio della preside. Lei è nella stanza accanto, quella dove di solito c’è il vicepreside, e sta parlando con un agente in divisa.

Linnéa si rigira il cellulare fra le mani, come se stesse aspettando una chiamata. Minoo si sforza di non fissarla. La postura di Linnéa è chiarissima: non vuole essere disturbata.

L’ufficio è sorprendentemente piccolo. C’è una libreria piena di raccoglitori di colori diversi, qualche vaso di fiori sul davanzale, le tendine a righe bianche e verdi sono macchiate e la finestra avrebbe bisogno di una buona lavata, come tutte le altre finestre della scuola. La poltroncina è brutta, ma sicuramente ergonomica. L’unica cosa appariscente è una lampada con un paralume di vetro decorato da libellule disegnate in forma di mosaico.

È la prima volta che Minoo si trova nell’ufficio della preside.

Qui si viene convocati soltanto se si crea qualche problema, oppure se è successo qualcosa di tremendo.

Quando Minoo aveva dieci anni, ogni tanto fantasticava che accadesse qualcosa di drammatico: che scoppiasse un incendio nella scuola, o che tutti fossero tenuti in ostaggio da un rapinatore di banche in fuga. Poi, crescendo, si è resa conto di quanto fosse infantile quel sogno. Ma soltanto adesso capisce davvero quanto le sue fantasie fossero lontane dalla realtà.

Le cose brutte, nella realtà, non sono come quelle dei film. Non sono emozionanti. Sono soltanto spaventose, orrende e sporche. E soprattutto, non si possono spegnere. In questo momento, Minoo si sente ancora svuotata, ma sa già che l’immagine di Elias la perseguiterà per tutto il resto della sua vita.

‘Almeno avessi chiuso gli occhi’ pensa.

Tutt’a un tratto, Linnéa dice: «Io l’avevo già visto, un morto».

Minoo si volta verso di lei. Lo sguardo di Linnéa è ancora fisso sul cellulare che si sta rigirando fra le mani macchiate d’inchiostro. Tutte le unghie sono accuratamente smaltate di rosa shocking.

«Chi era?» chiede Minoo.

«Non so come si chiamava. Era una vecchia ubriacona. Le è venuto un infarto ed è morta. Così, come se niente fosse. Avrò avuto cinque anni, tipo».

Minoo non sa che cosa dire. Queste cose sono tanto lontane dalla sua vita.

«È una cosa che non si dimentica mai» mormora Linnéa.

Il trucco è colato intorno ai suoi occhi. Con sorpresa, Minoo si rende conto che lei, invece, non ha pianto. Ora Linnéa penserà che lei sia la persona più insensibile del mondo.

Ma Linnéa la guarda e basta. «Eravamo in classe insieme, in settima, giusto?»

Minoo annuisce.

«Com’è che ti chiami? Minna?»

«Minoo».

«Sì, giusto».

Linnéa invece non dice il proprio nome. O non gliene frega niente di presentarsi, oppure dà per scontato che Minoo sappia già chi è. E come farebbe a non saperlo? Al biennio, tutti parlavano di Linnéa Wallin.

«Ragazze» dice la voce della preside, e Minoo alza lo sguardo.

I lineamenti regolari di Adriana Lopez non rivelano alcuna emozione.

«Il poliziotto vuole parlare con voi».

Minoo lancia uno sguardo a Linnéa e resta quasi sconcertata nel vedere quanto odio ci sia in quegli occhi puntati verso Adriana. Deve essersene accorta anche la preside, perché d’un tratto si blocca.

«Tu eri amica di Elias, vero?»

Linnéa tace fino a quando la preside si volta per fare una domanda a mezza voce al poliziotto che sta entrando nella stanza.

«Sì, può restare» risponde lui. Ambedue gli adulti si siedono.

L’agente, che Minoo riconosce come il patrigno di Vanessa Dahl, si sforza di trovare una postura comoda sulla seggiola pieghevole di plastica. Alla fine accavalla le gambe, tenendo la caviglia appoggiata al ginocchio. Non sembra una posa granché autorevole. «Io mi chiamo Niklas Karlsson. Cominciamo dai vostri nomi».

Prende un piccolo blocco per gli appunti e una matita. Minoo nota che l’estremità è tutta masticata. Un poliziotto che rosicchia le matite? Un roditore in divisa.

«Minoo Falk Karimi».

«Benissimo. Te, invece, ti conosco già» dice Niklas, rivolto a Linnéa.

Probabilmente il suo intento è quello di sembrare amichevole, ma l’effetto è l’opposto. Minoo s’irrigidisce tutta, nel vedere Linnéa che stringe il cellulare fino a far scricchiolare la plastica.

‘Non dire niente’ pensa. ‘Ti prego, Linnéa, non fare stupidate. Saresti l’unica a perderci’.

«Capisco che dev’essere terribile, per voi» dice Niklas, assumendo l’espressione del poliziotto comprensivo. «Il consultorio è a vostra disposizione».

«Ci saranno degli psicologi, qui a scuola» dice la preside. «Potete andare a colloquio immediatamente».

«Io ci vado già, da uno psicologo» dice Linnéa.

«Ah, sì, bene» dice l’agente Niklas. «Voi conoscevate Elias?»

«Io no» mormora Minoo.

Niklas guarda Linnéa. È evidente che lui sta cercando di nascondere il suo disprezzo per quella ragazza dai capelli neri con il trucco sbavato. ‘Tanto varrebbe che lo dicesse apertamente’ pensa Minoo.

«Tu invece eri sua amica?» dice lui.

«Sì» risponde bruscamente Linnéa, abbassando lo sguardo.

«Elias aveva molti problemi, da quel che ho capito».

Per tutta risposta, Linnéa annuisce.

«E aveva già tentato il suicidio diverse volte».

«Una» dice Linnéa, con un filo di voce.

«Ah, ecco» dice il poliziotto. «Allora non c’è altro da aggiungere. Ovviamente gli darà un’occhiata anche il medico legale, ma la situazione è chiara come il sole».

Il tono di voce è così paternalistico che Minoo avrebbe voglia di urlare. Se Elias fosse stato ucciso e l’assassino l’avesse fatto sembrare un suicidio, la polizia non lo capirebbe. ‘Perché è così che va, in questa città di merda’ pensa. ‘Sei soltanto quel che gli altri pensano di te’.

«Ecco» ripete Niklas, alzandosi. «Ce la fate ad andare a casa?»

Minoo non ci aveva nemmeno pensato. «Telefono a mia madre».

«E tu?» chiede la preside a Linnéa.

«Faccio da sola».

Ma la preside ha ancora qualcosa da dire. Minoo la vede esitare, in cerca delle parole giuste, e prima ancora che cominci a parlare, Minoo sa che sta per dire qualcosa su Elias, e che sarà qualcosa di tremendamente sbagliato.

«Linnéa» dice la preside. «Sono davvero addolorata. Elias sembrava una persona molto speciale».

La voce di Linnéa è roca e tesa. «Perché non l’ha detto a lui?»

La preside resta assolutamente immobile. La bocca è semiaperta, ma non ne esce nemmeno una parola.

«Adesso ci calmiamo un po’, eh?» dice il poliziotto, guardando la preside con aria protettiva.

Linnéa si alza e se ne va senza dire nulla.

Minoo, incerta, guarda la preside, che le dice: «Puoi andare».

Minoo torna in classe per prendere la sua cartella. Le sedie sono rovesciate sopra i banchi. I granelli di polvere turbinano nei raggi di luce che entrano dalla finestra. Si avvicina al suo banco, ma la cartella non c’è più.

«Minoo?»

Si volta. Sulla porta c’è Max, con la sua cartella in mano. «L’ho presa io».

«Grazie».

Le loro mani si sfiorano mentre lui le porge la borsa, e per poco non le cade per terra. Le braccia di Minoo hanno nuovamente perso forza.

‘Sono completamente pazza? Perché devo sentirmi così ogni volta che mi succede qualcosa di tremendo?’ pensa.

«Come stai?» chiede Max.

«Non so» dice Minoo, sorpresa dalla facilità con cui le è venuta quella risposta sincera.

Lui annuisce. «Quando avevo la tua età, una persona che mi era molto vicina si è tolta la vita».

La voce è del tutto tranquilla, ma Minoo vede che la mano sinistra si è stretta a pugno. Certi traumi non si superano mai.

«Io non conoscevo Elias» dice Minoo. «Ma Linnéa sì».

Tutt’a un tratto, sente la mano di Max sulla sua spalla. Il calore attraversa il tessuto della maglia. «Se vuoi parlare, io ci sono. Volevo solo dirti questo».

«D’accordo». Minoo non ha il coraggio di dire altro. Non è sicura che la voce reggerebbe.

«Pensa solo a star bene, adesso». Max le stringe leggermente la spalla prima di ritrarre la mano.

Minoo non dice niente.

«Sono davvero addolorato. Nessuno dovrebbe vedere quel che hai visto tu».

Improvvisamente, Minoo si accorge di tremare tutta. Il panico la afferra con artigli affilati che penetrano nel petto e le rendono difficile respirare. Deve uscire di qui. «Devo andare. Grazie».

Corre fuori dall’aula e giù per le scale. Quando apre la porta ed esce sul cortile della scuola, la luce del sole la abbaglia.

Linnéa è seduta a gambe incrociate accanto alla gradinata e sta fumando.

Minoo sente il cuore che le martella e ha il respiro tanto affannoso che fatica a parlare. Guarda verso la strada, dove c’è l’auto rossa. Attraverso il finestrino intravede il profilo della mamma. «Vuoi un passaggio?» riesce finalmente a dire.

«No» risponde Linnéa.

«Sicura?»

«Come mai correvi?»

«Non... non so, dovevo solo uscire di lì».

Con uno scatto delle dita, Linnéa getta via il mozzicone. «Non si è ammazzato».

«In che senso?»

«Ci siamo sentiti appena prima. La sera doveva venire a trovarmi. Voleva parlare...» S’interrompe per un istante. «Avevamo litigato, ma non eravamo... C’era una cosa che doveva raccontarmi... Non avrebbe...» Linnéa non conclude la frase.

‘Non vuole ammetterlo con se stessa’ pensa Minoo. ‘Non vuole rendersi conto che il suo migliore amico l’ha abbandonata’. Però dice: «Perché non l’hai detto al poliziotto?»

«Mpf! Il poliziotto» sibila Linnéa. Tutt’a un tratto il suo sguardo si fa duro.

«Cioè, la polizia non dovrebbe saperlo?» dice Minoo.

«E tu che ne sai? Tu, che hai sempre vissuto nella tua bella villetta con la tua bella famigliola».

Minoo incrocia il suo sguardo. Si vergogna, perché sa che è vero. Allo stesso tempo, però, pensa che la verità di Linnéa non è l’unica esistente. Se Minoo ha visto quasi sempre il lato più luminoso della vita, Linnéa ha visto quasi sempre quello buio, ma uno dei due è più vero dell’altro?

Linnéa fa un sorrisetto di scherno. «Non devi correre dalla mamma?»

Minoo ha uno scatto di rabbia. «Mi fai solo pena» dice. Poi si avvia verso la macchina.

«Ficcatela nel culo, la pena!» le grida dietro Linnéa.