«Vedrai che non è niente» dice Gustaf.
Sono in piedi sulla scala. Rebecka è un gradino più in su, e per una volta sono alti uguali. Parlano sottovoce, in modo che le loro voci non risuonino nel corpo scale.
«Ha detto che è un colloquio di routine, no?» continua lui.
«Tu hai mai avuto ‘colloqui di routine’ con la preside?» chiede Rebecka.
Jari Mäkinen, dell’ultimo anno, arriva di corsa giù per la scala, con una borsa rosa che tra le sue braccia sembra decisamente fuori posto. Lui e Gustaf si salutano con un cenno della testa.
«Allora?» dice Rebecka, appena Jari si è allontanato.
«No. Però magari è una cosa nuova. Dopo quella storia di Elias, sai, forse vuole parlare con gli studenti che...» Si interrompe e distoglie lo sguardo.
Rebecka deglutisce. Ecco che sta succedendo. Ecco che stanno per parlarne. «Studenti che?»
Gustaf la stringe a sé e le annusa i capelli. «Hai un buon profumo» mormora.
Rebecka quasi lo spintona.
Lui la guarda preoccupato. «Che c’è?»
«Che cosa stavi per dire, sugli studenti come Elias e me?» ‘Dillo tu, semmai’ dice una vocina dentro di lei. ‘Non aspettare che ne parli lui. Di’ le cose come stanno. Ha ragione Minoo, devi fidarti di lui’.
«Volevo dire che magari vuole tenere d’occhio tutti quelli come voi, che hanno cominciato quest’anno» dice Gustaf.
La delusione per la vigliaccheria di Gustav, e per la sua, le opprime il petto.
«Ti aspetto all’entrata» dice lui.
«D’accordo» mormora Rebecka.
«Ti amo» dice lui. «Non te lo dimentichi, vero?»
Si guardano, e Rebecka si accorge di essere sul punto di piangere. Per tutta risposta, riesce solo a scuotere la testa.
L’ufficio della preside è immerso nella penombra. Le veneziane sono abbassate, e l’unica luce nella stanza è quella di una lampada da scrivania. Libellule a mosaico colorate formano un cerchio intorno al paralume di vetro, ala contro ala. Sulla scrivania non ci sono carte, né penne. Il computer è spento.
La preside ha addosso un completo grigio scuro con una grossa spilla d’argento sul risvolto. Sembra antica. La camicetta color avorio è abbottonata fino alla gola, e i capelli neri sono in ordine perfetto. Il viso è ben truccato, come al solito. A Rebecka viene da pensare che probabilmente molti la definirebbero una bella donna.
«Accomodati» dice la preside, con un sorrisetto rigido.
Rebecka si siede sulla poltroncina davanti alla scrivania.
La preside continua a guardarla negli occhi, ma improvvisamente il suo sguardo viene catturato da qualcos’altro. «Scusami» dice, tendendo una mano per prendere un capello rimasto impigliato nella maglia di Rebecka.
«Grazie» dice Rebecka, esitante.
«Sono un po’ pedante, sai» dice la preside.
Rebecka non sa che cosa rispondere.
«Ti starai sicuramente domandando perché voglio parlare con te». La preside lascia cadere il capello nel cestino della carta straccia.
«No. Credo di averlo già intuito».
La preside ha occhi scuri e intelligenti. «In che senso?»
C’è ancora quella pressione sul petto. Rebecka deve fare uno sforzo per proseguire. «Chi ha parlato?»
«Parlato?»
«È stata Julia o Felicia? È stata Ida? Oppure l’assistente sanitaria del biennio? Ha la facoltà di raccontare una cosa del genere? O è stata Minoo?» Si pente subito di aver pronunciato quest’ultimo nome. Di Minoo vorrebbe fidarsi, deve, se vuole esserle amica. Ma allora perché aveva quell’aria colpevole?
«Che cosa avrebbero dovuto dire di te?» chiede la preside.
Se Rebecka non chiude gli occhi, arriveranno le lacrime. Stringe le palpebre.
Tutt’a un tratto, pensa a quanto sarebbe bello mollare la presa. Lasciarsi cadere e vedere se qualcuno la afferra. Smettere di avere paura che il segreto venga svelato. Svelarlo lei stessa, semmai.
«Allora, credo che la cosa migliore sia cominciare dall’inizio» dice la preside.
Rebecka spalanca gli occhi. L’espressione confusa della preside sembra autentica, e Rebecka pensa che probabilmente si è sbagliata. Forse questo è davvero un colloquio di routine?
«Rebecka, secondo te che cosa riguarda questa nostra conversazione?»
Subito sembra impossibile parlare. Il segreto la tiene ancora fra le sue grinfie.
Si alza dalla sedia e contemporaneamente prende la borsa. «Mi scusi, devo andare».
«Aspetta!» dice la voce della preside, che però viene interrotta nel momento in cui Rebecka richiude la porta alle proprie spalle.
Attraversa di corsa il corridoio, svolta un angolo, si preme contro un muro. Gustaf la aspetta giù all’entrata. Aspetta di rimettere a posto le cose. Ma lei non può incontrarlo adesso. Non con il panico che la attanaglia. Deve restare da sola per un momento.
In lontananza, nel corridoio alle sue spalle, sente la porta dell’ufficio della preside aprirsi. I passi della preside sono leggeri ma determinati. Rebecka ascolta con tutta l’attenzione di cui è capace, e constata che i passi si muovono nella direzione sbagliata. Una porta si apre. A quanto pare, la preside crede che lei sia corsa giù per la scala a chiocciola.
Rebecka corre verso la scala principale ed entra in un altro corridoio. Poi è come se le sue forze venissero meno. Si appoggia a un muro e scivola lentamente fino a sedersi sui talloni.
Soltanto ora si accorge che il suo cuore sta martellando.
Soltanto ora si accorge di dov’è.
È seduta davanti alla porta dei gabinetti in cui è morto Elias.
Sono rimasti chiusi a chiave e sprangati fin da quando lui è stato trovato. La porta è piena di bigliettini e messaggi incisi.
R.I.P.
CI MANCHI!!!
IT’S BETTER 2 BURN OUT THAN 2 FADE AWAY.
PERDONACI.
LIVE FAST, DIE YOUNG & LEAVE A GOODLOOKING CORPSE.
SCUSA PER TUTTO, ELIAS.
PERDONAMI.
E inciso a solchi profondi, ben leggibile nonostante qualcuno abbia cercato di cancellarlo:
L’UNICO FINOCCHIO BUONO È UN FINOCCHIO MORTO.
Rebecka legge i messaggi uno dopo l’altro. In fondo, vicino al pavimento, c’è una scritta a pennarello nero e lettere ben formate:
THE GOOD DIE YOUNG.
I neon sul soffitto cominciano a lampeggiare con un suono trillante, elettrico. E poi si spengono.
Così è.
È una voce che non è esattamente una voce, ma più come uno dei suoi pensieri, eppure non è suo. Non ha nessuna somiglianza con la voce che le riempiva la testa durante quella prima notte, quando le è stato affidato il compito di guida. Quella era la voce di un ospite. Questa, invece, si è introdotta a forza nel suo cosciente.
È vero quel che c’è scritto, prosegue la voce. Il bene non può sopravvivere in questo mondo. E tu sei troppo buona, Rebecka.
Riconosce il terrore che la riempie. È lo stesso terrore di quando è stata pedinata, l’indomani della morte di Elias. Lo stesso terrore di ieri, quando si è accorta di essere osservata.
‘Sei tu’ pensa. Il suo battito cardiaco tambureggia nelle orecchie. ‘Chi sei?’
Alzati.
Il corpo di Rebecka si alza immediatamente, con naturalezza, come se il comando fosse arrivato da lei stessa.
Apri la porta del solaio e sali la scala.
I piedi cominciano a muoversi automaticamente. Soltanto ora si accorge che la porta del solaio è appena socchiusa.
Cerca di concentrare le forze per richiuderla, ma tutt’a un tratto c’è una forza contraria, molto più potente di lei, che la blocca.
La vista si annebbia, e Rebecka sente il sangue colare dal naso, giù per il labbro e dentro la bocca.
Sa di metallo, di terra e di dolce.
Non resistere, dice la voce, in tono affabile. Non serve a niente.
La scala della soffitta è stretta. Lei sale a passi lenti.
‘Che cosa vuoi?’ domanda, anche se conosce già la risposta, l’ha già capito fin troppo bene. È così che è morto Elias. È così che è successo.
Ora è arrivata in cima alla scala. Ci sono due porte. Un uscio sgangherato di legno che dà sul deposito del solaio, e uno in acciaio che porta fuori. Sul tetto.
Vede la propria mano tendersi e abbassare la maniglia della porta d’acciaio. La corrente d’aria le investe il viso, appena la porta si apre. Il cielo è azzurro, con nuvole bianche che si rincorrono a vicenda.
Elias soffriva. Io l’ho liberato dal dolore. Vi sto facendo un favore, Rebecka.
‘Ti prego’ implora lei. ‘Ti prego, io non voglio morire. Ho quattro fratelli minori. I miei genitori... Gustaf... Minoo...’ Il panico rende difficile formulare pensieri chiari.
Se ne faranno una ragione, tutti quanti. Meglio scomparire ora ed essere perfetti per sempre, nei loro ricordi.
I piedi di Rebecka varcano la soglia. Il tetto è rivestito di una guaina nera di catrame, che scricchiola mentre lei si avvicina al bordo.
Non dovrai soffrire mai più.
La voce nella sua testa è seducente. Suona come se fosse l’unica voce in tutto il mondo a preoccuparsi davvero per lei, e Rebecka deve fare uno sforzo per non ascoltarla.
‘Ma io voglio soffrire!’ grida in silenzio dentro di sé. ‘Io voglio vivere! Voglio vivere!’
Le gambe si fermano, ad appena un passo dal bordo. Vede il cortile della scuola, là sotto, gli alberi morti e l’asfalto nero che ha riempito la lunga crepa. Da quassù sembra una cicatrice. Vede la strada, sulla quale sta passando l’autobus. Alcuni studenti che corrono verso la fermata. Se soltanto qualcuno di loro guardasse in alto...
‘Ti prego’ implora. ‘Ti prego, lasciami vivere’.
Tutt’a un tratto sente l’altra presenza nel suo corpo esitare. Le gambe non sono più addormentate. Se fa soltanto un altro sforzo può voltarsi e allontanarsi dal bordo, se soltanto si concentra...
Rebecka intreccia le mani. Sta riprendendo il controllo.
No. È una cosa che devo fare.
Rieccola, la voce. E non esita più. Rebecka lo sente chiaramente, l’altra presenza sta tentando di riacquistare potere su di lei. Sente la pressione di quella volontà estranea, che cerca di penetrare a forza fino al cervello. Ma questa volta Rebecka ha due vantaggi. Il primo è la speranza, perché ha notato una debolezza nel nemico. E il secondo è il fatto di essere preparata.
Si oppone. La testa le fa un male pazzesco. Come se il cervello si stesse espandendo fino al punto di rottura. Si gonfia e preme sotto la calotta cranica. Rebecka si porta le mani alla testa, come se questo servisse a impedire al cervello di esplodere. Un altro rivolo di sangue le cola dal naso.
La presenza estranea cede, e Rebecka vacilla sull’orlo del tetto. Vedere il cortile della scuola, laggiù, le dà un risucchio allo stomaco.
Arretra dal bordo e si accascia. Non ha abbastanza forza per alzarsi, men che meno per ripercorrere tutta la strada a ritroso.
Rovista nelle tasche fino a trovare il cellulare. Sta per telefonare a Gustaf, ma si rende conto che non potrebbe mai spiegargli come è finita quassù. Deve chiamare Minoo.
Sente dei passi che si avvicinano e si volta. Per un istante, il sole la abbaglia. Deve farsi schermo con una mano per vedere chi è comparso sulla porta.
Rebecka fa un sorriso incerto. «Ciao. Come facevi a sapere che ero qui?»