DAL convoglio della metropolitana che si fermò alla stazione della Novantaseiesima con Lexington, scese una Laurie particolarmente stanca. Mentre saliva le scale nelle Stuart Weitzman ancora troppo nuove per essere comode, pensò di sfuggita al piacere che provava a viaggiare liberamente sui mezzi pubblici senza aver paura. Così non sarebbe stato solo un anno prima.
Ora aveva finalmente smesso di scrutare attentamente le facce di tutti gli uomini con gli occhi azzurri. Quella era stata la sola descrizione data da suo figlio Timmy dell’uomo che davanti a lui aveva sparato al padre colpendolo a bruciapelo in piena fronte. Una signora anziana gli aveva sentito dire: «Timmy, di’ a tua madre che adesso tocca a lei. Poi sarà il tuo turno».
Per cinque anni era vissuta nel terrore che l’uomo conosciuto come Occhi Blu avrebbe trovato lei e Timmy e li avrebbe uccisi entrambi come aveva promesso. Era trascorso quasi un anno da quando Occhi Blu era stato ucciso dalla polizia nel momento in cui aveva tentato di realizzare il suo piano. Le paure di Laurie non erano morte del tutto con lui, ma di certo stava lentamente cominciando a vivere come una persona normale.
Il suo appartamento era a soli due isolati. Attraversò l’atrio salutando amichevolmente il portiere e, salita al suo piano, aprì le due serrature della porta di casa, che sprangò appena fu all’interno. Si liberò subito delle scarpe nuove mentre lasciava cadere sul tavolino dell’ingresso la corrispondenza, la borsetta e la cartella. Toccò poi alla giacca, che abbandonò sopra le borse. Avrebbe messo tutto a posto più tardi.
Era stata una giornata molto lunga.
Andò direttamente in cucina, prese dal frigorifero una bottiglia già aperta di sauvignon e cominciò a versarsene un bicchiere. «Timmy», chiamò.
Bevve un sorso e sentì immediatamente cominciare a sciogliersi lo stress di quella giornata. Una di quelle in cui non aveva avuto mai un momento per mangiare un boccone o bere un bicchier d’acqua o controllare la posta elettronica. Ma almeno era stato un giorno proficuo. Tutti i tasselli del nuovo episodio di Under Suspicion stavano andando a posto.
«Timmy? Mi hai sentito? Il nonno ti sta già lasciando giocare ai videogame?»
Dopo la morte di Greg, Leo Farley, il padre di Laurie, aveva assunto le veci di cogenitore di Timmy. Ora Timmy aveva nove anni e per metà della sua breve vita a occuparsi di lui c’erano stati solo la mamma e il nonno.
Laurie non sapeva pensare a come ce l’avrebbe fatta da sola lavorando tutto il giorno, non fosse stato per l’aiuto di suo padre. Leo abitava a un solo isolato di distanza. Tutti i santi giorni era lui ad accompagnare Timmy e ad andare a prenderlo alla Saint David’s e tutti i santi giorni si tratteneva con lui a casa di Laurie fino al suo rientro. Con un debito come quello, mai e poi mai Laurie lo avrebbe criticato, anche quando Leo concedeva a Timmy piccole indulgenze come un gelato prima di pranzare o i videogame prima di fare i compiti.
A un tratto si rese conto del silenzio assoluto che regnava in casa. Niente voce di suo padre che spiegava a Timmy un problema di matematica. Niente voce di Timmy che chiedeva al nonno di ripetergli tutte le storie che più amava e che già aveva ascoltato chissà quante volte dei giorni trascorsi da Leo Farley al dipartimento di polizia: «Dimmi di quella volta che hai inseguito un cattivo su una barca a remi nel lago del Central Park», «Raccontami di quel cavallo della polizia scappato sulla West Side Highway». Nessuna traccia di videogame dall’iPad di Timmy.
Silenzio.
«Timmy? Papà!» Corse fuori dalla cucina così precipitosamente da dimenticarsi di avere un bicchiere in mano. Versò vino bianco sul marmo del pavimento. Vi passò sopra bagnandosi i piedi. Mentre faceva irruzione in soggiorno cercò di ricordare a se stessa che Occhi Blu era morto. Ormai erano al sicuro. Ma dov’era finito suo figlio? Dov’era suo padre?
Ormai sarebbero dovuti essere a casa. Corse allo studio in fondo al corridoio. Dalla comoda poltrona di pelle in cui era affondato, suo padre sussultò vedendola apparire.
«Ciao, Laurie. Perché tanta fretta?»
«Per fare un po’ di ginnastica», rispose la figlia allungando lo sguardo verso il divano, dove Timmy era raggomitolato con un libro tra le mani.
«Si è consumato tutto giocando a calcio», spiegò Leo. «Lo vedevo ciondolare la testa tornando a casa a piedi da scuola. Sapevo che si sarebbe addormentato appena rientrato.» Diede un’occhiata all’orologio. «Mamma mia, sono passate due ore. Finisce che resta sveglio tutta notte. Scusami, Laurie.»
«No, non è successo niente. Solo che…»
«Ehi, sei bianca come un cencio. Che c’è?»
«Sono…»
«Hai avuto paura.»
«Sì. Per un momento.»
«È normale.» Leo si allungò dalla poltrona per prenderle la mano e consolarla.
Quel giorno aveva preso la metropolitana con la serenità di tutti gli altri passeggeri, ma non per questo era ridiventata normale. Quando mai sarebbe accaduto?
«Timmy», disse suo padre. «Ha buttato lì che stasera vorrebbe mangiare indiano. Hai mai sentito di un bambino di nove anni a cui piace la saagwala d’agnello?»
Svegliato dalle loro voci, Timmy aprì gli occhi. Saltò subito giù dal divano per andare ad abbracciare la madre. I suoi espressivi occhioni castani dalle lunghe ciglia scure, le trasmisero tutto il suo profondo affetto. Laurie si chinò per accoglierlo. Aveva ancora la faccia calda e sapeva di sonno. Non aveva certo bisogno di un bicchiere di vino per sentirsi a casa.
Tre ore dopo i compiti erano stati fatti, gli avanzi delle pietanze indiane erano state riposte in frigorifero e, dopo il tradizionale «snack della buonanotte», Timmy era a letto con le coperte rimboccate.
Laurie tornò alla tavola dove Leo stava finendo una seconda tazza di caffè. «Grazie, papà», disse semplicemente.
«Perché ho chiamato il ristorante per farci portare la cena?»
«Per tutto, sul serio. Per ogni singolo giorno.»
«Lascia stare, Laurie, sai che tutto quello che faccio mi serve per sentirmi utile e contento di me stesso. Ora, è la mia immaginazione o questa sera Timmy e io non eravamo le sole persone a essere stanche morte? Giuro che certe volte mi viene da credere che quella storia del legame paranormale che tiri in ballo ogni tanto sia vera.»
Quando era nato Timmy, Laurie si era convinta di condividere con suo figlio un’inspiegabile empatia che non aveva bisogno né di parole né di contatti fisici. Si svegliava nel cuore della notte sicura che ci fosse qualcosa che non andava bene, per trovarsi circondata solo da oscurità e silenzio. Ma invariabilmente, nel giro di pochi secondi, il baby monitor crepitava del suono del suo pianto infantile. Persino quella sera, mentre tornava a casa in metropolitana, non gli era venuta voglia di tikka masala di pollo?
«Certo che è vero», ribatté con un sorriso. «Tutto quello che dico è sempre vero. Come è vero che sono un po’ stanca. Ma non è solo un po’. È stata una giornata dura.»
Gli riferì dell’approvazione con riserva ottenuta da Brett Young per la messa in onda del Cinderella Murder per il prossimo episodio di Under Suspicion, seguita dalla telefonata con Frank Parker.
«Ti è sembrato un possibile assassino?» volle sapere Leo.
«Sei tu quello che mi ha insegnato che le creature più spietate possono essere anche le più affascinanti.»
Leo non commentò.
«So che sei ancora in pensiero per me, papà.»
«Naturale che lo sia, come tu ti sei preoccupata per me e Timmy quando sei tornata a casa poco fa. Sarà anche vero che Occhi Blu non esiste più, ma è proprio per la natura del tuo show che ogni volta ci sono forti probabilità che ti ritrovi nella stessa stanza con un assassino.»
«Non c’è bisogno che me lo ricordi. Però ho sempre Grace e Jerry con me. Ho una squadra di tecnici. Non sono mai veramente a tu per tu con un intervistato. Sono probabilmente più al sicuro sul lavoro di quando sono per la strada.»
«Questo sì che mi tranquillizza.»
«Sono perfettamente al sicuro, papà. Ormai Frank Parker ha alle spalle una solida carriera da regista. Non è uno stupido. Anche se fosse stato lui a uccidere Susan Dempsey, l’ultima cosa che farebbe sarebbe di tradirsi cercando di fare del male a me.»
«Io comunque sarei più sereno se tra le persone che ti sono sempre vicine sul lavoro ci fosse anche Alex. È disponibile per quest’altra puntata?»
«Continuo a tenere le dita incrociate, ma Alex è molto ricercato per il suo vero lavoro di avvocato, papà, e non ha certamente bisogno di un secondo lavoro a tempo pieno come personaggio televisivo.»
«Queste sono solo chiacchiere e lo sai benissimo. Più si fa vedere in TV, più ha da guadagnarci nella sua professione di avvocato.»
«Io comunque spero che ci sia.» Fece una breve pausa. «E non per la ragione che pensi tu», si affrettò ad aggiungere poi, «perché nessuno potrebbe svolgere meglio il suo ruolo nel mio show.»
«E perché a tutti e due piace essere assieme.»
«Non potrò mai sottrarmi al tuo talento da investigatore, vero?» Laurie sorrise e gli accarezzò un ginocchio accantonando l’argomento. «Oggi comunque Frank Parker ha detto una cosa interessante. Per ottenere la partecipazione di Madison Meyer, mi ha suggerito di presentarmi davanti a casa sua con un cameraman.»
«Mi sembra abbastanza logico, come agitare una siringa davanti agli occhi di un tossico. Sei stata tu stessa a dirmi che è definitivamente uscita dal giro. Quando si renderà conto di quanto velocemente può tornare nelle luci della ribalta, avrà le sue difficoltà a dire di no.»
«E siamo a Los Angeles», aggiunse lei riflettendo a voce alta. «Potrei mettere assieme una squadra di poche persone su un budget limitato. Con Madison, Parker e la madre di Susan non vedo come Brett potrebbe negarmi il via libera.»
Prese il telefono e mandò un messaggio a Jerry e a Grace: «FATE I BAGAGLI PER UN CLIMA CALDO. PARTIAMO PER L.A. DOMATTINA PRESTO».
Il pomeriggio del giorno seguente Laurie parcheggiò il furgone a noleggio e confrontò nuovamente l’indirizzo con quello inserito nel suo GPS. Jerry e la piccola squadra che aveva messo insieme per quella giornata, costituita da un fonico e due operatori con telecamere portatili, stavano già smontando, ma Grace indugiò a guardarla meglio in faccia. «Tutto bene?» chiese. «Ti vedo titubante.»
Certe volte la facilità con cui Grace interpretava i suoi stati d’animo le metteva i brividi. Ora che si trovavano lì, senza preavviso, all’ultimo indirizzo conosciuto di Madison Meyer, si chiedeva se la sua non fosse stata una pazzia.
Pazienza, si rassegnò. Questo è reality. Qualche rischio bisogna pur correrlo. «No, non è niente», rispose mentre spegneva il motore. «Mi assicuravo solo di essere all’indirizzo giusto.»
«Non è esattamente Beverly Hills, vero?» commentò Grace.
La casa in stile ranch era molto piccola e la vernice blu del rivestimento esterno cominciava a venir via. L’erba del praticello era vecchia di almeno un mese. Nelle fioriere alle finestre della facciata c’era solo terra.
Laurie precedette Grace e Jerry, con i tecnici a chiudere la processione. Suonò il campanello una volta e poi altre due prima di vedere delle unghie smaltate di rosso scostare le tendine della finestra di fianco alla porta. Un paio di minuti dopo quella stessa porta fu aperta da una donna che riconobbe come Madison Meyer. A giudicare dalla lucentezza del rossetto della stessa tinta dello smalto delle unghie, doveva essersi data una rinfrescata di trucco prima di accogliere gli ospiti inattesi.
«Madison, sono Laurie Moran. Sono una produttrice della Fisher Blake Studios e vorrei averla in uno show che ha un seguito di più di dieci milioni di telespettatori.»
L’ambiente era opprimente e disordinato, con un numero incredibile di riviste abbandonate dappertutto, sul divano, sul tavolino, impilate sul pavimento vicino al televisore. Erano soprattutto periodici dozzinali di gossip su personalità del mondo dello spettacolo con importanti articoli come: «CHI LO INDOSSA MEGLIO?» o «INDOVINATE QUALE COPPIA STA PER SCOPPIARE?» Due mensole montate sul muro dell’ingresso contenevano i souvenir della breve carriera da attrice di Madison. Al centro c’era la statuetta che aveva ricevuto per il suo primo ruolo, quello che Frank Parker le aveva assegnato dopo che, secondo quanto da lui asserito, Susan non si era presentata per la sua audizione: uno Spirit Award, non un Oscar, ma pur sempre il segno di una carriera cominciata con il piede giusto. Eppure, dopo quel riconoscimento, dalle ricerche effettuate da Laurie risultava che le esperienze successive di Madison erano state tutte fallimentari.
«Ha ricevuto la lettera che le ho spedito, signorina?»
«Non mi pare. O forse sì e volevo semplicemente vedere se eravate veramente interessati.» Le rivolse un sorriso malizioso.
Laurie la ricambiò. «Be’, visto che sono venuta di persona, direi di sì.» Le presentò Jerry e Grace, che le strinsero entrambi la mano. «Ha sentito parlare di una serie di special intitolata Under Suspicion?»
«Certamente», rispose Madison. «Ho visto quello dell’anno scorso. Ho persino pensato scherzando che sarebbe stata solo questione di tempo prima che qualcuno si presentasse alla mia porta a parlarmi della ragazza con cui condividevo la stanza all’università. È per questo che è qui, vero?»
«Come sa», disse Laurie, «si è sospettato per anni che lei possa aver protetto Frank Parker fornendogli un comodo alibi. Lei dichiarò che al momento della morte di Susan si trovava con lui a casa sua.»
Madison aprì la bocca per ribattere, ma poi compresse le labbra e annuì lentamente. Vista da vicino, Laurie notò che aveva perso poco della sua bellezza giovanile. Aveva lunghi capelli biondi e lucenti e penetranti occhi verdi in un bel faccino ovale. Aveva una bella pelle, chiara e priva di difetti. Ma Laurie vedeva anche quanto il tempo avesse lasciato i segni sul viso, nonché tutti i tentativi di Madison per tenerlo a bada. Il colore scuro della radice dei capelli indicava che era giunto il momento di un’altra sessione di tinta; la levigatezza della fronte e delle guance era sicuramente artificiale e le labbra avevano subito un trattamento per diventare un po’ più carnose. Era ancora una donna molto bella, ma c’era da chiedersi se non lo sarebbe stata anche di più senza tutti quei piccoli interventi.
«È vero», disse finalmente Madison. «Intendo che è vero che se ne è parlato parecchio.»
«E lei non ha niente da aggiungere al riguardo?»
«È la prima persona a cui lo chiede? La lettera che mi ha spedito era abbastanza generica.»
«Ah, dunque adesso ricorda di averla ricevuta», la provocò Laurie inarcando le sopracciglia. «In effetti abbiamo già rivolto questa domanda ad altre persone. Stiamo cercando di coinvolgere tutte quelle che possiamo fra coloro che conoscevano la vittima…»
«E chi sarebbero queste altre persone? Chi si è offerto?»
Laurie non vide in che modo risponderle potesse danneggiarla. «La madre di Susan. Poi c’è Nicole Melling, l’altra vostra compagna di stanza, che si è mostrata interessata. Frank Parker.»
Sentendo il nome del regista, gli occhi verdi di Madison s’illuminarono. «Immagino che paghiate per la presenza nello show», disse.
«Naturalmente. Forse non quanto pagano gli studi cinematografici, ma credo che troverà il compenso più che soddisfacente.» Sapeva che da dieci anni Madison non riceveva una proposta per una parte in un film.
«Allora, prima di dichiarare qualcosa davanti a una telecamera, vi farò chiamare dal mio agente per accordarvi. Ah», aggiunse poi guardando direttamente i due cameraman. «Quando verrà il momento di girare, il mio lato buono è quello sinistro. E niente controluce. Mi fa sembrare vecchia.»
Mentre tornava al furgone, Laurie si concesse un sorriso furtivo. Madison Meyer faceva la difficile, ma parlava già come la primadonna del set.