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CI sono quelle persone che definiamo abitudinarie.

Non Madison. Diamine, Madison non era nemmeno il suo vero nome. In realtà si chiamava Meredith Morris. Molto démodé, no? Non era riuscita nemmeno a tirarne fuori un diminutivo passabile. Aveva provato con Merry, ma tutti lo scambiavano con Mary. Poi aveva provato Red, ma non funzionava molto bene per una bionda. E poi aveva sempre avuto un debole per le allitterazioni. Quando si era iscritta all’università per far piacere ai genitori, aveva cambiato il nome in Madison Meyer, decisa a farsi scoprire da Hollywood.

In varie fasi della sua vita era stata vegetariana, proprietaria di una pistola, estremista di destra, repubblicana, liberale. Si era sposata e aveva divorziato tre volte. Era uscita con attori, banchieri, avvocati, camerieri, persino un agricoltore. Madison era in uno stato di mutazione perenne. L’unica costante nella sua vita era il desiderio di diventare una star del cinema.

Tanto Madison era l’emblema del cambiamento, tanto Keith Ratner lo era dell’abitudine. Quand’era all’università, flirtava, danzava e di tanto in tanto si appartava con Madison e altre ragazze. Ma poi tornava puntualmente alla sua amata Susan. Era fedele a modo suo, come quei bigami che sostengono che il loro unico reato è di amare troppo le proprie mogli per volerle deludere.

Ed esattamente come aveva sempre saputo che Keith non avrebbe mai abbandonato quella che era stata la sua ragazza fin dai tempi del liceo, Madison era sicura che l’avrebbe trovato al solito posto, la lounge che le star chiamavano Teddy’s, in un angolo del parterre al Roosevelt Hotel. Era persino seduto sullo stesso panchetto dove l’aveva visto l’ultima volta, circa sei mesi prima. Era persino abbastanza sicura di saper identificare il liquido trasparente che aveva nel bicchiere.

«Lasciami indovinare», furono le parole con cui lo salutò. «Patrón Silver on the rocks?»

Keith l’accolse con un sorriso luminoso. Erano passati vent’anni e quel sorriso le faceva serpeggiare ancora un brivido lungo la spina dorsale. «Nossignore», le rispose facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio nel bicchiere. «Questo posto mi piace ancora, ma sono anni che bevo solo seltz. Quando esco da qui, faccio un salto in palestra.»

Alcuni anni prima, all’apice della carriera televisiva di Keith, Madison lo aveva visto vantare in un’intervista il suo impegno nel preservare la propria salute fisica, oltre che nel volontariato e nel frequentare la sua parrocchia. Le era sembrato un tipico manifesto da pubbliche relazioni, tuttavia ora lo trovava lì, al suo bar preferito, a bere acqua frizzante.

«Sempre occupato a convincere il prossimo d’essere un’anima recuperata?» lo apostrofò.

«Mens sana in corpore sano.»

Madison richiamò l’attenzione di una cameriera e ordinò un cucumber martini. «Nella mia visione del mondo, la vodka è più che sana.»

«A proposito di visioni del mondo», la stuzzicò Keith, «come hai fatto a scavalcare il cordone di velluto rosso?»

Madison era diventata celebre prima di lui grazie al suo ruolo in Beauty Land, il primo film importante firmato da Frank Parker. Ma la carriera di Keith non si era inaridita come la sua. Se solo avesse saputo quanto doloroso era stato quel commento. La verità era che Madison aveva allungato un biglietto da venti al buttafuori.

«Sapevo che ti avrei trovato qui», disse.

«Dunque questo non è un incontro casuale?»

Keith era evidentemente consapevole dell’ascendente che esercitava ancora su di lei. Madison ricordò come lo aveva conosciuto, quand’era una matricola. Si era presentata a una serie di provini per un orribile musical basato sulla vita di Jackson Pollock. C’era anche Keith, che aspirava alla parte di Pollock, mentre lei sperava di ottenere il ruolo di Lee Krasner, la moglie dell’artista. Il dialogo era così terribile, che mentre leggeva le sue battute Madison si era resa conto che entrambi faticavano a non scoppiare a ridere. Alla fine, quando l’agente del casting aveva dichiarato che erano tutti e due «di gran lunga troppo belli per quel progetto», avevano ceduto all’ilarità. Dalla sala dell’audizione erano andati direttamente al bar più vicino, dove Keith conosceva un barista disposto a servire loro alcolici nonostante l’età. Quando l’aveva baciata, Madison aveva conosciuto per la prima volta il sapore del whisky.

Non sapeva nemmeno che fosse iscritto all’UCLA finché non lo aveva visto nella Wilson Plaza, mano nella mano con una ragazza che riconobbe come una sua compagna al corso di Storia del teatro. Bionda, carina, una versione meno appariscente di Madison stessa. Si era dunque premurata di stringere amicizia già il giorno dopo con Susan Dempsey, venendo così a sapere che si era iscritta a quell’università in compagnia del suo fidanzatino del liceo. Keith non aveva gradito molto la nuova amica della sua ragazza, ma poco aveva potuto farci, giusto?

Keith era legato a Susan, così anche Madison si era trovata altri amici. Ma entrambi avevano continuato a vedersi di nascosto. Quando Madison aveva alzato la posta al secondo anno andando ad abitare con Susan, i loro convegni segreti erano diventati ancor più eccitanti.

Dopo l’uccisione di Susan era cambiato tutto. Keith aveva smesso di cercarla e quando era lei a chiamarlo, si faceva negare. Aveva successivamente abbandonato l’università poco dopo che lei aveva finito di girare Beauty Land. A tutti aveva dichiarato di essersi trovato un agente molto importante che aveva per lui grandi progetti. Ma le voci che circolavano erano invece che fosse rimasto così sconvolto dall’omicidio di Susan da non riuscire più a condurre un’esistenza normale, meno che mai poter frequentare i corsi di studio o intraprendere una carriera da attore. Si diceva che avesse trovato Gesù. Altre insinuazioni meno lusinghiere lasciavano intendere che la sua scomparsa fosse la prova che avesse avuto qualche responsabilità nella morte di Susan.

Ora, a distanza di vent’anni, il tempo era stato più benevolo con lui che con Madison, come sembrava che dovesse sempre essere con gli uomini rispetto alle donne. Le rughe sul suo viso magro e spigoloso lo avevano reso ancor più attraente di prima. I riccioli scuri che da giovane contribuivano a dargli un’aria da rockettaro, adesso gli conferivano un’aria da persona posata e sicura di sé. Appariva di tanto in tanto come protagonista ospite in una serie di episodi della durata di un’ora e l’anno precedente aveva avuto persino una piccola parte in un film di produzione indipendente. Ma anche così, Madison non lo aveva più visto apparire regolarmente dai tempi in cui lavorava alla sitcom conclusasi quattro anni prima. Keith aveva bisogno di Under Suspicion quasi quanto ne aveva bisogno lei.

«Non è un incontro casuale», confermò Madison, mentre arrivava la cameriera con la sua ordinazione. Si sedette accanto a lui e gli sorrise.

«Oh-ho, è passato un po’ di tempo, ma conosco quell’espressione. Sei a caccia di qualcosa.»

«Per caso ti ha contattato una produttrice TV di nome Laurie Moran?»

«Se è per questo sono stato contattato da non so quanti produttori per questo o quel progetto, impossibile tenerli tutti a mente.» Adesso toccò a lui sorridere. Era sempre irresistibile, in questo non era cambiato affatto.

«È per Under Suspicion», riprese lei. «Vogliono fare uno show sull’assassinio di Susan. Devono averti per forza contattato.»

Lui distolse lo sguardo e bevve un sorso. Quando riprese la parola, il tono non era più quello lieve di poco prima. «Non voglio averci niente a che fare. Che senso ha rivangare tutto quello che avvenne in quei giorni? Davvero vogliono farlo?»

«Così sembra.»

«Sai chi altri c’è?»

«Rosemary, la madre di Susan. E Nicole, dovunque si sia andata a cacciare. Sembra che adesso il suo cognome sia Melling. E poi la persona che secondo me a te interessa in maniera particolare: Frank Parker.»

Quando aveva saputo che Madison aveva ottenuto la parte in Beauty Land, Keith si era presentato al suo dormitorio. Era ubriaco e si era messo a gridare: «Come hai potuto? Quell’uomo ha ucciso la mia Susan e lo sanno tutti. Tu non potrai mai essere altro che la sua brutta copia!» Era stata l’unica volta che Keith l’aveva fatta piangere.

«Mi sorprende che qualcuno oltre a Rosemary abbia accettato di partecipare allo show», fu il suo commento.

«Be’, tanto per cominciare ci sono anch’io. Se giochiamo bene le nostre carte, potrebbe dare una mano a tutti e due. Ci saranno milioni di telespettatori, una buona occasione per mettersi in mostra.» Non aggiunse che sperava anche di convincere Frank Parker a trovarle una parte nel suo nuovo film.

«Ci penserò. Tutto qui?»

«Quello che mi serve veramente, Keith, è la tua parola.»

«E quale parola sarebbe? Una parolina segreta? Magica?» Sulle sue labbra era riapparso il sorriso giocoso.

«Parlo sul serio», insistette lei. «È importante che nessuno sappia di noi due.»

«È successo vent’anni fa, Madison. Eravamo tutti ragazzini. Pensi davvero che a qualcuno possa importare che di tanto in tanto tu e io ci facevamo piedino?»

Madison non si capacitava di quanto ottuso si stesse dimostrando. «Certo che importa al pubblico. Susan era la ragazza perfetta, intelligente, talentuosa, con tutte le carte in regola. Io ero… come mi hai definito tu? L’altra, quella carina, ma la sua brutta copia. E sai che la produzione presenterà Nicole come l’amica giusta, quella brava e leale. Io sarò la rivale cattiva della primadonna.» Madison sapeva che l’amicizia tra Susan e Nicole non era stata affatto perfetta come l’avevano fatta apparire i media all’indomani della morte di Susan. «In Internet c’è ancora chi dice che a uccidere Susan devo essere stata io, o che comunque come minimo ho fornito a Frank Parker un alibi falso avendo in cambio la parte in Beauty Land. Se si viene a sapere che me la facevo con l’amico di santa Susan, si convinceranno una volta per tutte che a farla fuori sia stata io.»

«Be’, potresti essere stata tu davvero.» Questa volta Madison non seppe capire se la prendeva in giro o era serio.

«O magari sei stato tu invece», sbottò lei. «Come hanno sempre pensato i genitori di Susan. Che te la facessi con la compagna di stanza della tua ragazza non ti farebbe fare una gran bella figura.»

«Distruzione reciproca», mormorò lui, fissando il bicchiere vuoto che ora si rigirava in una mano.

«Dunque ho la tua parola?»

«Parola data», rispose lui puntandole un dito addosso. «Noi non abbiamo mai avuto una relazione. Dimentica tutti i nostri affettuosi tête-à-tête. Il nostro segreto muore con noi.»