SECONDO il GPS di Nicole Melling, per arrivare a Palo Alto avrebbe dovuto impiegare un’ora una volta giunta al Golden Gate Bridge. Ovviamente il computer di bordo non prendeva in considerazione il traffico. Al momento era bloccata in un altro ingorgo, questa volta nell’attraversamento di Daly City.
Alzò gli occhi sulle interminabili file di case tutte uguali che riempivano il fianco della collina. Cosa diceva quella canzone, forse di Pete Seeger, a proposito di quella cittadina? Scatolette sulla collina, tutte uguali, tutte fatte di «cartapesta e sputo».
A un tratto ricordò se stessa a soli diciassette anni. Per essere stata una ragazzina precoce era di un anno più giovane di tutti i compagni pronti per la maturità, ma scolasticamente molti anni più avanti di loro. Aveva ottenuto l’iscrizione a tutte le università a cui aveva presentato domanda: Harvard, Princeton, Stanford, tutte. Purtroppo i suoi genitori erano finiti in un limbo dal punto di vista economico, troppo ricchi perché lei ottenesse una borsa di studio, troppo poveri per sobbarcarsi le spese della sua istruzione. Si era deciso di iscriverla a Berkeley, ma poi era arrivata per posta la lettera che l’avvertiva che non c’era posto negli alloggi universitari. Avrebbe dovuto trovarsi un appartamento.
Ricordava come aveva supplicato suo padre con la lettera di Berkeley posata davanti a lui come l’avviso di un licenziamento sul tavolo della cucina. «Ce la posso fare, papà. Passerò tutto il tempo in università, tra corsi e biblioteca, quindi si tratta di fare poca strada a piedi una volta al giorno. Hanno piazzato persino delle telecamere di sorveglianza per quando si torna a casa dopo il tramonto.»
Lui aveva evitato di guardarla negli occhi mentre arrotolava gli spaghetti sulla forchetta. «Sei troppo giovane, Nicky. Sei ancora una ragazzina. E stiamo parlando della Berkeley.» Aveva pronunciato il nome come se vivessero in una nazione devastata dalla guerra dall’altra parte del mondo invece che a sei ore di macchina da Irvine, dove abitavano.
«Mamma, ti prego. Diglielo tu. Non mi sono mai messa nei guai in vita mia. Chiedete a tutti i miei insegnanti. Faccio tutto quello che devo, senza mai sgarrare. Sono una persona rispettosa dei regolamenti. Di me ci si può fidare.»
Sua madre stava impilando i piatti nel lavello, ma anche di profilo Nicole vedeva come teneva le labbra serrate. «Lo sappiamo benissimo, Nicky. Ma noi non ci saremo. E non ci saranno i tuoi insegnanti. Non ci sarà nessuno a stabilire quali regole devi rispettare.»
Solo quando Nicole si era messa a piangere, sua madre aveva finalmente chiuso il rubinetto ed era tornata al tavolo a prenderle le mani nelle sue. «Ti conosciamo, Nicole. So che sei anche meglio di come ti giudico io, perché sei la mia bambina. Ma non possiamo permettere che tu ti perda.»
Nicole ricordava d’aver guardato suo padre in cerca di una spiegazione e di averlo visto annuire una sola volta a conferma della posizione di sua madre mentre continuava ad arrotolare gli spaghetti.
Non aveva idea di che cosa intendessero i suoi genitori, ma presto si era capito che loro conoscevano bene la propria figlia. Come la sua famiglia era prigioniera di una trappola economica, anche la giovane Nicole era vittima di una trappola personale: la sua intelligenza era solida, ma la sua personalità era ancora… disgregata. I suoi temevano che si perdesse nella folla. Purtroppo la vita le aveva riservato un destino peggiore.
Il suono di un clacson la riportò al presente. Vide che davanti a lei si era aperto uno spazio, spedì un gesto amichevole all’automobilista che aveva protestato alle sue spalle ed era ripartita.
Secondo il GPS aveva da percorrere ancora una quarantina di chilometri. Non vedeva più Dwight Cook dai tempi del college, ma di lui aveva letto sul giornale. Tutti in America ne avevano letto.
Più di un’ora dopo, Nicole fermava la macchina nel parcheggio affollato di un complesso di uffici. Gli slanciati palazzi di vetro erano circondati da erba così verde da sembrare dipinta. Sopra l’ingresso dell’edificio principale, in gigantesche lettere viola, campeggiava il nome della società: REACH.
La giovane donna alla lucente scrivania bianca nell’ingresso aveva un piercing sul lato sinistro del naso e un altro nel sopracciglio destro. Nicole resistette alla tentazione di chiederle se non si sentisse la faccia storta.
«Nicole Hunter, per il signor Cook. Ho un appuntamento.» Quando aveva telefonato, aveva usato il suo nome da nubile per la prima volta in quasi diciotto anni. Anche così non era del tutto certa che Dwight si ricordasse di lei.
Nicole conosceva altre persone che avevano mantenuto i contatti con i compagni del college. Jenny, la sua vicina di casa, era andata a scuola a New York, ma una volta all’anno organizzava una miniriunione nella Baia. E sapeva da altre amiche in comune che le loro pagine di Facebook erano piene di foto e ricordi condivisi.
Lei naturalmente non poteva nemmeno permettersi un account di Facebook. Avrebbe pregiudicato tutti gli sforzi fatti per avere un’identità pulita con un nuovo cognome in una città nuova.
Ma anche senza le speciali circostanze che la contraddistinguevano, Nicole non sarebbe rimasta in contatto con i vecchi compagni di università. All’UCLA non aveva avuto veri amici a parte Susan. Era stata una vera fortuna finire a vivere con una persona come lei, una che si curava di lei. Era stato come vincere alla lotteria dell’amicizia.
Per il primo anno erano state solo loro due, poi Susan aveva preso come ulteriore coinquilina anche Madison, un’attrice sua compagna al dipartimento di Arte drammatica, perché in tre avrebbero potuto concedersi un alloggio più comodo.
Ed era stato tramite Susan che Nicole aveva conosciuto Dwight Cook, che, l’estate dopo il secondo anno di università, aveva fondato la sua azienda.
«Nicole!»
Sentendosi chiamare alzò la testa. L’ingresso era costruito come un atrio, che dal pavimento arrivava al soffitto di vetro tre piani più su. Dwight l’aveva chiamata dalla cima di una scala circolare.
Scese con un sorriso un po’ imbarazzato sulle labbra. «Non sei per niente cambiata.»
«Nemmeno tu», lo ricambiò lei con una smerigliatina alla verità. La faccia di Dwight era cambiata non poco, più pallida, più rotonda. E i capelli si stavano diradando.
L’abbigliamento però ravvivò i suoi ricordi: blue jeans dalla vita alta, una T-shirt Atari troppo larga che era già démodé ai tempi dell’università. Ancor più sorprendente era quanto poco fosse cambiato nei suoi atteggiamenti affettati. I movimenti incontrollati degli occhi e quel battere eccessivo delle palpebre si faceva notare in un timido teenager, ma erano ancora più appariscenti in un uomo maturo che doveva essere ormai quasi miliardario.
Dwight la condusse per un lungo corridoio tra uffici dove quasi tutti i dipendenti sembravano meno che trentenni, molti di loro appollaiati su gigantesche fitball invece che seduti in tradizionali poltrone da lavoro. In fondo al corridoio, aprì una porta e uscì in un cortile dietro l’edificio. Quattro impiegati si sgranchivano tirando a un canestro in un campo poco distante.
Dwight non aspettò che si sedesse prima di accomodarsi sui cuscini di una sedia reclinabile. Nicole lo imitò sapendo che il suo non era stato un gesto di maleducazione.
«Hai detto che volevi parlare di Susan.»
Anche in questo caso non si sentì offesa della mancanza di qualche convenevole. Alla Silicon Valley poteva essere ritenuto un genio, ma in lui Nicole riconosceva lo stesso giovane sempre sulle spine che lavorava fianco a fianco con Susan al laboratorio di scienze informatiche.
Ascoltò impassibile Nicole che gli parlava di Under Suspicion e della possibilità di apparire nella rievocazione del caso di Susan. «Hai ricevuto una lettera dalla produzione?» gli domandò.
Dwight scosse la testa. «Quando la sua morte è diventata una notizia da prima pagina su Hollywood, a nessuno è più importato nulla che fosse anche una brillante programmatrice. Dubito che la produzione sappia che ci conoscevamo.»
All’epoca dell’università, qualche volta erano usciti in tre, lei, Susan e Dwight, e solo in un secondo tempo Nicole si era accorta che Susan sperava di fare la parte di Cupido tra il suo partner di laboratorio e la sua amica e coinquilina. Da un certo punto di vista aveva una sua logica: Dwight e Nicole erano entrambi a un livello di intelligenza superiore alla media. E adesso Nicole vedeva un’affinità anche da un altro punto di vista: erano, ammettiamolo, entrambi un po’ strani. E Susan si era messa in testa di estrarli dai loro gusci. Dwight si sentiva a suo agio solo in mezzo ai computer. Nicole aveva trovato la sua strada… be’, non le andava di ripensare a quella parte del suo passato.
Fatto sta che dopo due uscite insieme, Nicole aveva capito dove stava la differenza fondamentale tra lei e Dwight. La sua personale diversità era solo temporanea. Era più giovane degli altri, protetta, e così impegnata a emergere da non avere mai esercitato la propria indipendenza intellettuale. Aveva solo bisogno di trovare la sua via. I «problemi» di Dwight andavano più in profondità. Ai giorni nostri lo avrebbero probabilmente classificato nell’ambito delle «disfunzionalità sociali».
In gioventù Nicole aveva pensato di avere prospettive migliori. Ma non aveva imparato a proprie spese, non ancora, quanto pericoloso poteva essere il desiderio di una giovane donna brillante di trovare la propria via.
«È proprio per questo che sono venuta, Dwight. Durante lo show vorrei parlare della tua amicizia con Susan. Dell’altro aspetto della sua personalità.»
Dwight la guardava diritto negli occhi, come probabilmente gli era stato spiegato che la gente si aspettava che facesse durante un colloquio, ma non era veramente in sintonia con Nicole. «Naturale. Susan era sempre stata molto buona con me. Mi proteggeva. È stata una fortuna per me trovarmi a lavorare sotto lo stesso professore, altrimenti non l’avrei conosciuta.»
In altre parole, anche lui aveva la stessa sensazione d’aver vinto alla lotteria dell’amicizia.
«Allora posso dire a Laurie Moran che mi aiuterai per lo show? Parteciperai anche tu?»
Lui annuì di nuovo. «Sempre pronto a dare una mano. Qualsiasi cosa per Susan. Devo chiederlo anche a Hathaway?»
«Hathaway?»
«Richard Hathaway. Il nostro professore. È grazie a lui che io e Susan ci siamo conosciuti.»
«Ah, non avevo pensato a lui. Insegna ancora all’UCLA? Siete rimasti in contatto?»
«Adesso è in pensione, ma sì, siamo senz’altro in contatto. Lavora qui alla REACH.»
«Buffo che tu abbia tra i tuoi dipendenti il tuo ex professore.»
«Diciamo quasi un socio. Mi ha aiutato fin dal primo giorno. E sono sicuro che è disposto ad aiutare anche con lo show.»
Nicole si chiese quanto Dwight si trovasse a suo agio a lavorare in stretto contatto con il suo mentore accademico, un uomo che lo aveva conosciuto prima che diventasse un milionario ventenne sulla copertina della rivista Wired. «Bene», commentò. «Sarebbe bello.»
Quasi si sentiva in colpa per aver coinvolto Dwight Cook in quell’iniziativa. Dwight era a capo della REACH, una società che negli anni Novanta era entrata nel lessico delle famiglie americane modificando le tecniche di ricerca di informazioni in Internet. Non aveva idea di quali fossero i nuovi progetti a cui lavoravano adesso, ma a giudicare dagli uffici, era evidente che Dwight possedeva ancora una posizione di rilievo nel mondo dell’informatica.
Ma era proprio per quello che Nicole era andata fino a Palo Alto. Frank Parker era diventato un regista di fama, ma anche Dwight era una celebrità a modo suo. Più persone di alto profilo avessero partecipato al programma, meno tempo sarebbe stato dedicato alla compagna di università che aveva abbandonato gli studi dopo il secondo anno, aveva cambiato nome e non aveva mai più messo piede a Los Angeles.
Seduta in macchina, Nicole prese dalla borsetta la lettera di Laurie Moran e compose il numero del suo ufficio sul cellulare.
«Signora Moran? Sono Nicole Melling. Mi aveva contattato per Susan Dempsey, la mia ex compagna di università.»
«Sì.» Nicole sentì il fruscio di un sacchetto di plastica. Probabilmente l’aveva colta durante la sua pausa di pranzo. «Diamoci del tu, per piacere. Chiamami Laurie. E sono davvero felice di sentirti. Sai come funziona Under Suspicion?»
«Sì», rispose Nicole.
«Come probabilmente sai già, il nome del programma sta a indicare che torniamo nel passato a intervistare coloro che sono rimaste a tutt’oggi letteralmente indiziate in casi rimasti irrisolti. Tu naturalmente non rientri in questa categoria, ma tu e la madre di Susan ricorderete ai telespettatori la figura di Susan come persona in carne e ossa e non solo come una bella ragazza con l’ambizione di diventare attrice. Non era una Cenerentola.»
Nicole capiva benissimo perché la madre di Susan tenesse molto a quello show.
«Sse pensi che il tuo programma possa aiutare a resuscitare l’attenzione sul caso di Susan, sono lieta di dare il mio contributo.»
«Fantastico.»
«E spero che non ti dispiaccia ma mi sono presa la libertà di contattare un altro amico di Susan dei tempi del college.» Le descrisse brevemente i rapporti di lavoro che aveva avuto Dwight Cook con Susan al corso di informatica, informandola in chiusura che Dwight era disposto a partecipare allo show. Laurie reagì con entusiasmo, come Nicole si era aspettata.
Uscendo dal parcheggio, guardò nello specchietto retrovisore sentendosi incredibilmente orgogliosa di Dwight Cook. La morte di Susan aveva avuto un potente impatto sulla vita di tutte le persone che l’avevano conosciuta. Nicole e Keith Ratner avevano abbandonato gli studi. Rosemary le aveva confidato di non essere riuscita ad alzarsi dal letto per quasi un anno intero.
Dwight al contrario era riuscito a creare qualcosa di totalmente nuovo. Ora si domandava se fosse proprio quello che lo rendeva diverso da tutti gli altri ad averlo aiutato a usare il cordoglio per la morte di una cara amica in un modo per loro inimmaginabile.
Era così assorta nei suoi pensieri da non vedere il pick-up bianco sporco che usciva dal parcheggio dietro di lei.