DWIGHT Cook avrebbe volentieri sventrato la sede della REACH per ricostruirla ex novo. Il progetto originario gli era sembrato fantastico quando glielo aveva descritto l’architetto. L’edificio su tre livelli aveva grandi spazi aperti, alcuni con soffitti altissimi, ma era anche pieno di angolini e angoletti dai colori vivaci con divani e tavolini da bistro dove potersi riunire in piccoli gruppi. L’idea, secondo l’architetto, era di creare l’illusione di un unico grande spazio «labirintico» senza soluzione di continuità.
Be’, l’effetto labirinto c’era.
Davvero lui era il solo ad apprezzare la simmetria monocromatica?
Cancellò dalla mente quelle orribili distrazioni visive e pensò al lavoro che veniva svolto dentro quei muri dalle forme ridicole. La REACH esisteva da quasi vent’anni e riusciva ancora ad assumere alcuni dei cervelli più brillanti e innovativi della nazione.
Arrivò in fondo al corridoio e puntò diritto all’ufficio di Hathaway. Il suo ex professore era stato con lui fin dal principio da ogni punto di vista. Ma sebbene fosse un suo partner, lo vedeva sempre come il professore, l’uomo che aveva trasformato la REACH in un impero.
La porta di Hathaway era aperta, secondo la «politica aziendale» della società.
Richard Hathaway era vicino ai sessant’anni ma non era cambiato molto dai tempi in cui le studentesse dell’università lo avevano definito il professore più «da cotta» di tutto l’ateneo. Era di statura media con un fisico atletico, folti capelli mossi castani e un’abbronzatura che sfidava le stagioni. Quanto all’abbigliamento, sembrava sempre vestito per qualche tiro sul campo da golf. Avvicinandosi, Dwight notò che stava leggendo un articolo intitolato «Fai ginnastica meglio, non di più».
Si sedette davanti a lui, ancora in dubbio su come affrontare l’argomento che lo aveva portato lì. Decise di prenderla alla larga, come aveva notato che faceva la gente quando cercava di evitare un determinato argomento. «Certe volte quando giro per questi uffici mi torna in mente il nostro laboratorio all’UCLA.»
«Solo che là lavoravamo con computer grandi come utilitarie. E anche l’arredamento non era di questa qualità.» La prontezza di riflessi di Hathaway era proverbiale. Quante volte aveva salvato capra e cavoli presentandosi a una riunione con un potenziale investitore? Dwight lo aveva superato quanto a talento di programmatore, ma senza Hathaway avrebbe lavorato sempre sotto padrone.
«I muri erano diritti, però», ribatté cercando di mantenersi nel clima di bonario umorismo del collega.
Hathaway sorrise, ma Dwight si accorse che la sua indiretta autocritica era caduta nel vuoto.
«Quello che volevo dire», riprese, «è che noi abbiamo qui tutti questi ragazzi, tutti svelti di mente, tutti idealisti, probabilmente un po’ strampalati.» A queste parole Hathaway rise. «Credono tutti di poter cambiare il mondo con l’algoritmo giusto. Io ricordo che c’era lo stesso spirito anche nel tuo laboratorio.»
«Parli come un papà orgoglioso.»
«Sì, probabilmente sono orgoglioso.» Dwight si sforzava a tal punto di non provare emozioni da non aver mai imparato a descriverle.
«Essere orgogliosi va benissimo», commentò Hathaway, «ma la REACH ha degli investitori con delle aspettative. Sarebbe un bel colpo se tornassimo in auge.»
«Siamo più che in auge, Hathaway.» Per molto tempo dopo che avevano lasciato entrambi l’università aveva continuato a chiamarlo «dottor Hathaway», nonostante il professore gli ripetesse costantemente di voler essere chiamato solo Richard. Dwight non ce l’aveva mai fatta e «Hathaway» era un compromesso.
«Io intendo in auge sulla prima pagina del Journal. Il prezzo delle nostre azioni è stabile, Dwight, ma quello dei nostri concorrenti continua a salire.»
Anche da professore Hathaway non era mai stato di quelli in giacca di tweed e scarpe comode. Aveva sempre spiegato agli studenti che la tecnologia non solo aiutava il prossimo e cambiava il mondo, ma poteva anche farti diventare ricco. La prima volta che una banca aveva concesso loro un finanziamento a sette cifre permettendo alla REACH di costruire la sua sede a Palo Alto, Hathaway era andato subito da un concessionario a comprare una Maserati.
«Ma non sarai venuto qui a celebrare i vecchi tempi», disse ora.
Dwight si fidava di lui. Avevano stabilito un legame speciale fin dal momento in cui, nel bel mezzo del primo anno di università, Hathaway aveva proposto a Dwight di lavorare in laboratorio. Dwight aveva sempre patito il padre avendo la sensazione che stesse cercando di cambiarlo o evitarlo. Hathaway invece condivideva con lui tutti gli stessi interessi e non lo spingeva mai ad agire diversamente da come preferiva. Lavorando insieme e coniugando la creatività informatica di Dwight con l’intuito per gli affari di Hathaway, costituivano una squadra perfetta.
Dunque perché non confidare al suo amico e mentore di vent’anni che si introduceva negli account di posta elettronica di tutte le persone che avevano avuto a che fare con Susan?
Ah, che voglia aveva di raccontargli che cosa aveva scoperto. Sapeva per esempio che Talia, la moglie di Frank Parker, scriveva alla sorella che avrebbe preferito «che Frank non pronunciasse mai più il nome di quella ragazza». Si opponeva forse alla partecipazione di Parker allo show perché sospettava che il marito fosse coinvolto con la morte di Susan?
Poi c’era la e-mail di Madison Meyer in cui confessava al suo agente di essere sicura che una volta che si fosse trovata da sola con Frank Parker, «gli avrebbe strappato un ruolo di autentica rentrée». Parole che lasciavano senz’altro intendere che Madison avesse qualcosa con cui ricattare Frank.
E tuttavia Dwight non trovava il coraggio di rivelare a Hathaway che cosa stava facendo. Sapeva che si sarebbe preoccupato delle conseguenze che avrebbe potuto avere l’azienda se Dwight fosse stato colto nell’atto di leggere illegalmente della corrispondenza privata. Nessuno avrebbe mai più affidato informazioni sensibili alla REACH. Il valore delle loro azioni sarebbe precipitato. Quello era un segreto che avrebbe dovuto negare persino al suo più vecchio amico.
Ma Hathaway lo guardava in attesa. «Cosa c’è, Dwight?»
«Temo di essermelo dimenticato. Questo giro per il nostro labirinto mi ha fatto venire le vertigini.» Si rallegrò di vedere Hathaway sorridere. Questa battuta aveva funzionato.
«È quello che succede sempre anche a me», rispose il professore. «Comunque, visto che sei qui, sai chi mi ha chiamato? Una certa Laurie Moran. Uno special televisivo su Susan Dempsey? Mi dicono che sei stato tu a fare il mio nome. Io credevo che tutti più o meno sapessero che era stato Frank Parker a farla fuori e che la polizia non è semplicemente mai riuscita a dimostrarlo.»
Ma potrei poterlo dimostrare io, avrebbe voluto gridare Dwight. «Vorrei solo che si sapesse che Susan non era solo un bel faccino che bucava lo schermo», disse invece. «Non era solo un’aspirante attrice. Era… era veramente fenomenale.» Sentì la propria voce scricchiolare come quella di uno scolaretto. Quando fosse stato davanti all’obiettivo, tutti i telespettatori si sarebbero accorti di quanto fosse stato ossessionato dalla sua compagna di laboratorio? «E poi ammettiamolo», aggiunse, «tu in televisione vieni meglio di me.»
«Sei sicuro che sia una buona idea? Mi chiederanno del lavoro in laboratorio. Sai che non mi piace che ci si interessi troppo di come sia stata lanciata la nostra azienda.»
Erano passati quasi vent’anni da quando avevano avviato il loro progetto della REACH. Dwight si dimenticava qualche volta di come aveva avuto origine la loro idea, ma Hathaway no.
«Non succederà», pronosticò Dwight. «Questo tipo di programmi non ottengono aumenti di ascolto addentrandosi nei particolari delle ottimizzazioni delle ricerche informatiche. La gente vuole sentir parlare di Susan.»
«Molto bene, allora. Se ci stai tu, ci sto anch’io.»
Mentre tornava nel variopinto labirinto della sua azienda, Dwight si sentì completamente solo. Non ricordava una sola volta in cui non aveva confidato un’informazione a Hathaway. Ma sapeva anche bene perché non aveva voluto condividere le sue attività illecite con il professore: non voleva che Hathaway fosse deluso di lui.
Doveva però scavare ancora. Il motivo per cui voglio partecipare allo show, pensava, è che quando entrerò in contatto fisico con gli altri, potrò clonare i loro telefoni e dimostrare finalmente chi ha ucciso Susan. Di tutto questo, però, non poteva fare parola con nessuno.
Doveva occuparsene direttamente e da solo. Per Susan.