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ROSEMARY Dempsey percorse tutta la cucina passando la punta delle dita sui piani di granito grigio scuro. «Che effetto strano mi fa essere di nuovo qui», mormorò. «In questa cucina ho fatto da mangiare tutti i giorni per quasi quarant’anni.»

Rosemary aveva messo assieme una collezione di foto di sua figlia da bambina e alcuni oggetti che le erano appartenuti, una coccarda blu vinta a un concorso di scienze, la fascia che aveva indossato da reginetta del liceo. Aveva prestato a Laurie e alla sua troupe anche il registro delle presenze al servizio funebre in commemorazione di Susan.

Ora erano nella vecchia casa di famiglia, dove Jerry aveva voluto ambientare la sua intervista. Quella era la cucina dove Rosemary aveva ricevuto la notizia del ritrovamento del corpo di sua figlia al Laurel Canyon Park.

«Pensavo che tornare qui sarebbe stato troppo traumatico», commentò. «Ma dopo quello che è successo la settimana scorsa dietro casa mia, mi è stato di sollievo allontanarmi dal mio ‘nuovo’ ambiente.»

«Nessuno sviluppo nell’indagine della polizia sulla morte della tua vicina?»

«Sembra di no. Potrebbe essere un caso interessante per il vostro programma», rispose Rosemary con un sorriso triste.

Laurie cercò di avviare con la discrezione del caso la conversazione sull’orribile mattina in cui Rosemary aveva appreso della morte di Susan. Lanciò un’occhiata a Jerry fermo vicino ai cameraman piazzati vicino alle porte-finestre in fondo alla cucina e ottenne in risposta un cenno affermativo. Per quanto si tenessero a debita distanza, gli operatori non avrebbero perso niente di quanto era necessario che venisse registrato.

«Trovi la casa molto diversa da quando vivevi qui?» chiese Laurie.

Rosemary si fermò per guardarsi intorno. «No, almeno superficialmente, direi di no. Ma le sensazioni sono completamente diverse. Quest’arredamento… è molto più moderno del nostro. E non ci sono più i nostri quadri. E le foto. Tutte le cose che facevano di questa la nostra casa le ho portate via con me o sono finite in magazzino.»

«Se non ti è troppo doloroso», propose Laurie, «potresti forse indicarmi qualche particolare della casa che aveva un significato importante per tua figlia. Ti va se cominciamo dalla sua stanza?»

Laurie non avrebbe avuto bisogno di sequenze girate in altre parti, ma fare un giro di tutta l’abitazione era un modo per aiutare Rosemary a sciogliersi e a cominciare a parlare di Susan. Lo show funzionava solo quando riuscivano a dare della vittima un’immagine che non fosse quella di un elemento di un mistero da risolvere, ma quella di un essere umano in carne e ossa.

Rosemary la condusse su per le scale a una camera da letto che si trovava in fondo al pianerottolo. Quando strinse la maniglia le tremò la mano. Ora la stanza era adibita a nursery, con le pareti color lavanda tempestate di tulipani gialli.

Andò alla finestra a toccare il fermaglio. «Vedi che qui sotto c’è subito il tetto della veranda anteriore. Tutte le sere io controllavo questa serratura perché avevo paura che qualcuno potesse entrare di nascosto da qui a rapire la mia bambina.»

Poi andò all’armadio a muro e passò le dita lungo lo stipite. «Qui è dove segnavamo le tacche della sua crescita, una a ogni compleanno. Adesso il legno è stato ridipinto, ma ti assicuro che si vedono ancora. Guarda. Vedi queste lineette?»

Allungando lo sguardo da sopra la spalla di Rosemary, Laurie sorrise, anche se non vedeva altro che uniforme vernice bianca.

Quando furono di nuovo in cucina e davanti alle telecamere, Laurie ritenne che Rosemary fosse pronta. «Allora», la incoraggiò dolcemente, «raccontaci come hai appreso la notizia della morte di tua figlia.»

Rosemary annuì lentamente. «Era il fine settimana dei sessant’anni di Jack. Sabato avevamo fatto una grande festa in giardino, una splendida serata. Tutto era andato alla perfezione, dispiaceva solo che Susan non ci fosse. Quel pomeriggio aveva chiamato per fare gli auguri a Jack, che però era al club a giocare a golf. Susan era di ottimo umore, eccitata per i suoi studi e ancora di più per l’audizione che aveva in programma per quella sera.»

«Quella con Frank Parker?»

«Sì. Mi disse come si chiamava, ma era un nome che non avevo mai sentito. Mi disse che era veramente in ascesa. Disse… disse di sentirsi ‘fortunata’, che era ‘troppo bello per essere vero’.» Ebbe un tremito nella voce mentre ripeteva le parole di sua figlia. «Poi, l’indomani mattina, è arrivata la telefonata della polizia. La cosa strana è che per tutta la giornata avevo avuto questa terribile sensazione che qualcosa non andasse, un presentimento vago ma orribile.»

«Su Susan?»

«No, all’inizio no. Era più un’ansia generica. Tutto però è cambiato dopo la telefonata della polizia. Era quella di Los Angeles. Avevano trovato un corpo. Il resto lo sai. Ha perso una scarpa, probabilmente mentre correva inseguita nel Laurel Canyon Park. Poco distante c’era il suo cellulare. Le avevano strappato dal collo la collana portafortuna. Volevano sapere per quale motivo si trovasse nel parco. Io spiegai che quella sera aveva un appuntamento con Frank Parker. Solo in seguito venimmo a sapere che casa sua era a meno di due chilometri da dove avevano trovato il suo corpo.»

Laurie vide il dolore prendere nuovamente il sopravvento su Rosemary, ancora dopo tutti quegli anni. Sapeva che non ne sarebbe mai uscita. «Tornando a Frank Parker, non ti era sembrato strano che le avesse dato appuntamento a un’ora così tarda?» domandò con la dovuta pacatezza.

«No, però non mi aveva detto che sarebbe andata a casa sua. E avevo dato per scontato che ci sarebbe stato anche il suo agente. Credimi, se potessi tornare indietro, le impedirei di andare a quell’audizione.»

«Perché? Perché pensi che sia stato Frank Parker a far del male a tua figlia?»

Rosemary abbassò lo sguardo e scosse la testa. «No. Vorrei averle impedito di andare a Hollywood Hills quella sera perché almeno così sarebbe stata più vicina alla sua università, un posto che conosceva bene. Non avrebbe indossato le scarpette d’argento con le quali le era impossibile correre. E come minimo, anche se non avesse potuto scappare, non l’avrebbero soprannominata Cenerentola, come se mia figlia fosse una qualsiasi ragazza carina a caccia di un principe azzurro. Il soprannome e Hollywood non avrebbero distorto il quadro di questa tragedia.»

«Distorto in che senso, Rosemary?»

Rosemary ci pensò su comprimendo le labbra mentre cercava le parole giuste. Quando finalmente parlò, il controllo che si era imposta davanti alle telecamere si dissolse. Guardò direttamente nell’obiettivo come una star esperta. «Una distorsione della verità, cioè che la persona più pericolosa nella vita di Susan era quella a lei più vicina: Keith Ratner, il suo ragazzo. La tradiva e le mentiva e sapeva che la mia Susan avrebbe raggiunto traguardi che lui non poteva nemmeno sognarsi. Scenderò nella mia tomba convinta che sia stato lui a uccidere la mia piccola.»