V
L’ufficio di Mina occupava una delle tre stanze dell’appartamento, ed era quella di dimensione inferiore: la più grande era del ginecologo, perché doveva ospitare il lettino e una tenda per spogliarsi e l’altra costituiva l’inutile, desertica attestazione di importanza della dottoressa Lucilla Monticelli Salvi, psicologa ricchissima e ai fini del consultorio inesistente perché si era vista tre volte negli ultimi sei mesi, approfittando della zona franca consentita al suo rango di moglie di un famosissimo primario.
E d’altra parte il supporto psicologico era difficile da somministrare, essendo la quasi integralità dei postulanti in cerca di certificazioni di vario genere. «Dottore’» le aveva detto una volta una virago che voleva un passaporto non possedendo nemmeno la carta d’identità, «qua se vogliamo parlare con qualcuno che ci può aiutare andiamo da San Gennaro, con tutto il rispetto».
L’affluenza era sempre stata piuttosto scarsa, come rimarcato dal dottor Rattazzi. In un quartiere in cui ci si batteva per la sopravvivenza, dove poche regole valevano e nessuna derivante dal codice della strada, a meno che non si fornissero pacchi di qualcosa o (meglio) sussidi in denaro, era difficile definire con esattezza la natura del supporto professionale. Anche se col tempo la struttura era stata accettata e scorrerie notturne finalizzate alla gratuita asportazione delle suppellettili meno rottamabili non ce n’erano state, un’aura di sostanziale diffidenza continuava ad aleggiare come una triste nube sull’appartamento del secondo piano e mezzo.
La prima, importante barriera culturale era nell’ostinato, ottuso e inutile uso dell’italiano da parte dei professionisti. Pur essendo la Monticelli presente solo in effigie sul manifesto esplicativo all’ingresso (e peraltro i pochi fortunati che l’avevano incontrata ricordavano la completa assenza della erre dal suo eloquio), tutti e tre i dottori si ostinavano a usare quella lingua inutilmente complicata e ormai obsoleta, lontana sia dall’idioma parlato in strada sia da quello rinviato dai display degli smartphone di cui, grazie alle offerte e alle elargizioni promozionali della criminalità organizzata, erano provvisti anche coloro che avevano problemi a coniugare pranzo e cena.
Di chi usava l’italiano non c’era da fidarsi. Un principio semplice, una regola fissa. Era il parlato dei carabinieri e dei poliziotti, almeno per la maggior parte di essi, e peggio ancora dei giornalisti che sotto mentite spoglie cercavano di girare documentari etologici e che venivano immediatamente riconosciuti e presi per i fondelli con una finzione perfetta, occasionalmente rovinata da ragazzini che salutavano le telecamere nascoste con sdentati sorrisi.
Ma la burocrazia imponeva l’intervento del consultorio in numerose occasioni, per cui obtorto collo e quando necessario ci si doveva arrampicare. Mina percorse rapidamente lo stretto corridoio tappezzato di poster i cui modelli erano stati sfregiati da anni con maligni graffiti che li avevano dotati di enormi organi genitali sapientemente dipinti, arrivando a quello che pomposamente chiamava il suo ufficio.
Si trattava di una stanza buia e angusta, con l’intonaco a macchie per l’umidità, una lampadina nuda e polverosa che pendeva come una minaccia dal soffitto e una malandata scrivania sormontata da un computer archeologico che andava dilatando giorno dopo giorno i tempi di accensione e spegnimento, tanto da conferire un apporto complessivo di circa mezz’ora su ventiquattro. L’arredo più notevole al momento era costituito da Ammaturo Assunta detta Jessica, gentildonna annoverabile tra le tipiche giovani madri del quartiere, campionessa nazionale di dispersione scolastica familiare con sei figli che avevano totalizzato complessivamente non più di una dozzina di presenze negli istituti di appartenenza.
Era forse la più assidua frequentatrice dell’ufficio di Mina. L’assistente sociale le aveva detto una volta che era certa che avrebbe impiegato al massimo un quarto dell’energia consumata per sfuggire alle maglie dello Stato per rispettarne invece le norme, ma la donna le aveva orgogliosamente risposto che le affermazioni di principio vanno bene al di là dell’utilità personale.
Il marito di Jessica, Ammaturo Vincenzo detto Diegoarmando per la riconosciuta abilità nel dribbling alle forze dell’ordine, era provvisoriamente assente per una decina d’anni per quello che la moglie definiva un vile clamoroso errore giudiziario limitativo della libera iniziativa commerciale nel campo del traffico internazionale di sostanze ingiustamente proibite. In piena continuità genetica il figlio maggiore, il sedicenne Ammaturo Jonathan detto Bigliettino, era stato vigliaccamente seguito dai poliziotti mentre recapitava innocenti informazioni sugli spostamenti di un furgone portavalori a quattro specchiati gentiluomini che stavano organizzando uno scherzo al conducente.
Era perciò un mistero per Mina il modo in cui Jessica riuscisse ad approvvigionarsi di risorse economiche per mantenere un livello esistenziale che lei avrebbe raggiunto solo diventando la favorita di uno sceicco, uno di quelli ricchi. Soltanto in termini di abbigliamento, gioielli e cosmetici quella donna spendeva una decina di volte lo stipendio di un’assistente sociale come lei, ammesso che lo stipendio fosse effettivamente pagato e non viaggiasse con tre mesi di arretrato costringendola alla piacevole e divertente convivenza col Problema Uno.
Non che la spesa valesse l’impresa. La Ammaturo che l’attendeva fumando nervosa e camminando avanti e indietro nella minuscola stanza come una leonessa in gabbia era tutt’altro che avvenente, e il gusto raffinato non riusciva a migliorarne l’impatto estetico. Ricordava infatti una vecchia Seicento, con sbalzi arrotondati e poco aerodinamici sui fianchi piramidali e polpacci semisferici come le braccia che straripavano un po’ cianotiche dalle strette maniche di una maglietta multicolore che affermava l’appartenenza alla linea di uno stilista il quale, se l’avesse vista, non avrebbe esitato a mettere fine alla propria esistenza in maniera tragica.
Tra il bordo della maglietta e l’inizio di un pantacollant che da nero era diventato grigio chiaro per la tensione disperata del tessuto decorrevano una ventina di centimetri che costituivano di per sé una scena di un film horror. L’ombelico affondava nel grasso e siccome era stato guarnito da qualcosa di luccicante emanava sinistri bagliori ogni volta che una particolare posizione ne provocava la momentanea emersione. L’elastico del pantacollant, sul punto di cedere alle leggi della fisica, lasciava un cordone violaceo che si mostrava quando l’indumento chiedeva grazia e si ritirava sotto la linea di galleggiamento, prima che la proprietaria lo artigliasse per tirarlo su. Il retro era anche peggio. Due vezzose fossette increspavano l’adipe, e al centro della posizione almeno dieci centimetri della fessura che separava gli enormi glutei minacciavano i sonni di chiunque si trovasse nella dolorosa posizione di doverla osservare senza poter distogliere l’inorridito sguardo.
Le scarpe erano gialle. Poco male, si dirà. Ma il giallo era talmente giallo che al buio avrebbero attirato nugoli di insetti anche in una rigida notte invernale, tenuto conto dell’altezza dei tacchi che in molti paesi sarebbero stati catalogati come sopraelevazione soggetta a permesso catastale. Compresa questa, Jessica arrivava al metro e sessantacinque solo grazie alla cotonatura del ciuffo color blu elettrico pettinato perpendicolarmente al cuoio capelluto.
Mina sospirò, scuotendo il capo:
«Signora, per favore, lo sa che qua non si può fumare. E poi le ho detto mille volte che dovrebbe attendermi fuori, nella sala d’aspetto, finché non arrivo in ufficio».
Le palpebre a mezz’asta perché ciascuna gravata da cento grammi d’ombretto si rivolsero freddamente verso la dottoressa per osservarla lentamente da capo a piedi. Il quadro era aggravato da una masticazione costante di un bolo gommoso in tinta coi capelli, il che accentuava la somiglianza con un grande bovino nordamericano abbigliato da Walt Disney.
«Mammasanta, signori’, e come vi combinate male. Tutto parete fuorché una femmina, grazie che nessuno vi salta addosso».
«Senta un po’, signora Ammaturo, i fatti miei non mi pare siano in discussione e...».
La donna sorrise, felina, sollevando le labbra sulle quali c’erano almeno due mani di glitter violaceo brillantinato e scoprendo così due malconci incisivi sui quali erano incastonati due finti diamanti da un carato l’uno. L’effetto, in favore di luce, era spettacolare: sembrava di guardare in un antro oscuro popolato di mostri lucenti. Masticò a due ganasce pensosa e disse:
«Dottore’, qua non è questione di fatti vostri. È questione di invidia nei confronti di una femmina che, senza offesa, se non fosse per un po’ di guardiania che mio marito ha disposto da dove sta, dovrebbe montare le mitragliatrici vicino alle finestre per evitare gli assalti».
Mina considerò l’interlocutrice, in tutto simile a una cassaforte decorata da un artista impressionista daltonico, e dovette ammettere che la differenza tra sé e Assunta detta Jessica era molto evidente.
Decise quindi di cambiare argomento:
«Signora, veniamo al punto. La solita questione, immagino».
Jessica gettò ostentatamente a terra il mozzicone, spegnendolo con la punta della sopraelevazione e sputando fumo in faccia all’assistente sociale, che rese di nuovo omaggio alla perfezione della GdM.
«Dottore’, è una persecuzione. Una povera donna che chissà come porta avanti tutti questi figli, compresa l’ultima, quella povera Shakira che le è venuta un’infezione al quarto buco che le ho fatto fare nell’orecchio sinistro che stiamo passando i guai nostri, secondo voi si dovrebbe pure porre il problema che Kevin a quasi dodici anni deve andare ancora a scuola. Ma è mai possibile, secondo voi?».
Mina tossì:
«Signora Ammaturo, ne abbiamo già parlato molte volte e...».
«Ma allora un uomo quando è che deve cominciare a guadagnarsi da vivere? O vi credete che il sostegno per i figli e per me arriva dallo Spirito Santo? Kevin si deve occupare delle consegne che... Insomma, deve fare quello che deve fare. Gli hanno dato pure lo scooter nuovo, quello grande, e...».
La dottoressa spalancò gli occhi, togliendosi gli occhiali:
«Ma come, lo scooter? A undici anni? E per fare quali consegne?».
La Ammaturo si lasciò cadere sulla sedia con un lieve effetto tellurico sulle suppellettili della stanza.
«Prima di tutto sono quasi dodici, mo’ è novembre e lui li fa a maggio. Poi lo sa portare, è sempre stato bravo. È alto, arriva coi piedi a terra con le punte. Noi dobbiamo tirare avanti, dottore’. Parliamoci chiaro, mettiamo che la finisce pure, la scuola, e lo escludo perché è una capra che se vede un libro gli viene l’eritema: che succede? Si iscrive alle liste del collocamento e va a fare tre mesi in un call center? Sapete quanto pigliano, in un call center? Lo so perché ci sta la figlia della parrucchiera mia che è ingegnere meccanico e ha trovato solo questo: quattrocento euro. Vi rendete conto? Io alla madre per un appuntamento due volte alla settimana do il doppio, e non ci deve nemmeno pagare le tasse perché la ricevo a casa mia. Kevin in due ore, facendo un giro col motorino, fa sei volte tanto. E nemmeno vi voglio chiedere quanto pigliate voi qua dentro, pure perché lo so già. Mo’ me lo volete spiegare perché dovrebbe perdere tempo ad andare a scuola?».
Mina boccheggiò come un merluzzo sul ponte di un peschereccio:
«Ma perché così non fa la fine del padre e del fratello, ecco perché! Io non riesco a credere che proprio lei, che ha subìto queste perdite, possa...».
Jessica rise, un verso a metà tra quello di un gallo da combattimento e di un’asina durante il parto:
«Dottore’, magari! Quelli stanno in grazia di Dio, sono tra amici e il ragazzo impara anche cose che gli serviranno nel mestiere. Certo mio marito mi manca, però ci sta una guardia amica che ci consente quel poco di intimità quando lo vado a trovare, quella Shakira così è nata, bella di mammà. Insomma, voi mi dovete risolvere questo problema di quelli della scuola che continuano a chiamare a casa. Non si può depennare Kevin dalla lista?».
«Ma come... Prima di tutto no, non si può ed è inutile che me lo venga a chiedere ogni lunedì, poi non è giusto. Lei, come madre, dovrebbe imporre un’inversione di tendenza a questo andazzo familiare, ma com’è possibile che i figli debbano ereditare questa condizione di delinquenza di generazione in generazione? Magari Kevin ha qualche talento, qualche tendenza che...».
La Ammaturo assunse un’aria nobilmente offesa, il che la rese straordinariamente simile a un leone marino prima dell’attacco al rivale.
«Oh, piano con le parole, dottore’, quali delinquenti? Sono uomini d’affari, ingiustamente colpiti da questi magistrati ignoranti e miopi che non si adeguano alle nuove forme finanziarie che...».
Prima che potesse finire la porta si aprì e si affacciò un uomo in camice bianco. Mina, che era di spalle, se ne accorse dall’incredibile variazione dell’espressione di Jessica i cui occhi, almeno la metà sottostante le palpebre azzurre, divennero liquidi e la cui mandibola crollò lasciando intravedere, oltre a otturazioni e carie, l’enorme chewing gum blu ruminato da ore.
L’uomo disse, con voce calda come un cembalo:
«Oh, scusami, Mina, credevo non ci fosse nessuno. Mi scusi anche lei, signora».
Jessica richiuse la bocca con uno scatto quasi metallico. Poi parlò, e il tono costituì un cambiamento che a Mina ricordò la scena dell’Esorcista in cui il demonio prendeva definitivamente possesso della bambina.
«Figuratevi, caro dottore. È un privilegio incontrarvi, e sempre un piacere vedervi».
Una dizione perfetta, una voce carica di femminilità nonostante la tonalità bassa che faceva pensare a un ruggito trattenuto. La Settembre ebbe l’impressione che Jessica stesse per balzare sull’uomo per divorarlo, in senso proprio. Non sarebbe stata più sorprendente se si fosse espressa in aramaico.
Si voltò con un sospiro, e come sempre assunse un’espressione truce:
«Sì, Gammardella, come hai acutamente rilevato sono occupata. Quando mi libero te lo faccio sapere. Ora, se vuoi scusarmi...».
Il dottore sbatté le palpebre, come se fosse stato schiaffeggiato. I capelli biondo scuro, perfettamente spettinati, ebbero un sussulto quasi fossero dotati di vita propria. I lineamenti proporzionati e bellissimi si ridisposero in modalità contrita, e l’ampia spalla che sporgeva dallo spiraglio si abbassò sconfortata. La somiglianza del dottore con il giovane Redford di A piedi nudi nel parco, manco a dirlo uno dei film preferiti di Mina, in certi momenti era quasi insopportabile.
«Chiamami Mimmo, ti prego. E scusami, la fretta, sai... Mi dispiace. Allora vado di là e ti aspetto, c’è un sacco di gente ma penso che questa cosa sia non dico urgente, ma degna di attenzione e... Vabbè, ti sto facendo perdere tempo, scusami ancora».
Mina aveva di nuovo voltato le spalle. Brontolò sorda:
«Infatti. Vai, vai, Gammardella. Ti chiamo io».
«Chiamami Mimmo. Certo. Ciao. Permesso. Scusate. Certo. Vado. Grazie».
Richiuse la porta piano, gettando Mina in un incoerente tragico sconforto come ogni volta in cui aveva la consapevolezza di aver maltrattato l’unico uomo per il quale provava attrazione, come una dannata quindicenne imbranata.
La Ammaturo la fissava come una suora che ha appena scoperto un’educanda che fuma uno spinello dietro l’altare maggiore.
«Ma perché lo trattate così, dottore’? Che vi ha fatto? È un angelo del paradiso, per quanto è bello, non capisco che ci fa qua dentro invece di fare l’attore porno, ci stanno amiche mie che si fanno un’ora di fila solo per avere le sue mani da quelle parti e voi manco lo guardate in faccia? Volete morire vergine?».
Mina ruggì:
«Io non sono vergine!».
Jessica sembrò sinceramente sorpresa:
«Uh, che peccato. Vi hanno violentata, eh? Perché se no non vedo proprio come può essere successo».
E, scuotendo il testone, sputò la gomma a terra e se ne andò.