VII
Per arrivare all’ufficio dove Domenico «chiamami Mimmo» Gammardella esercitava la professione nel consultorio, Mina dovette farsi strada attraverso un corridoio gremito di aspiranti clienti.
La cosa, che la donna trovava estremamente fastidiosa, era cominciata quasi subito, quando l’uomo era arrivato in sostituzione del vecchio Rattazzi finalmente costretto alla pensione. Mina ricordava quando se l’era trovato davanti, improvviso come un raggio di sole e identicamente abbagliante, una borsa in mano e un camice nell’altra, impacciato, spettinato e affascinante come un cucciolo randagio. Le aveva riportato immediatamente alla mente il Redford di Butch Cassidy, uno dei suoi film preferiti.
In poche imbarazzate parole le aveva detto che veniva da Campobasso, che era specializzato con pieni voti, che aveva poche esperienze lavorative ma molta voglia di esercitare la professione, che avrebbe fatto del proprio meglio eccetera. Le era sembrato immediatamente irresistibile, soprattutto per una ragione: le guardava la faccia, anziché il torace.
La notizia dell’arrivo del nuovo dottore si era propagata come un disastro ecologico nelle acque del mare, e ben presto tutta la componente femminile del quartiere e gran parte di quella maschile di orientamento omosessuale (alla quale si cercava di far capire l’incongruenza anatomica, ma che comunque faceva accorato appello alla parità dei diritti) si erano precipitate a vedere «il ginecologo bello». La situazione aveva gettato nello sconforto il neopensionato Rattazzi, che avrebbe sperato di essere rimpianto per almeno una mezz’ora.
Su Mina invece Domenico aveva avuto uno stranissimo effetto. La cordialità e la gentilezza, tratti stabili del suo comportamento col prossimo, si erano velocemente dileguati lasciando il posto a un atteggiamento sgarbato e pungente, al limite della scortesia. Non avrebbe saputo spiegare perché: forse semplicemente per contrasto rispetto a tutta la benevolenza che il quartiere rovesciava addosso al nuovo arrivato senza nemmeno approfondirne la vera natura, forse per fargli capire che doveva tenere alta la guardia sotto il profilo professionale. Più probabilmente per controllare e arginare la debolezza che riconosceva in se stessa nell’attrazione nei confronti di lui.
Di fatto, Mina trattava il dottor Gammardella in maniera veramente schifosa. E la cosa sembrava dispiacergli sinceramente, a giudicare dalla faccia (bellissima) da cane bastonato che faceva, in tutto e per tutto uguale al Redford de I tre giorni del Condor, uno dei suoi film preferiti. L’assistente sociale avrebbe tanto voluto ridiventare se stessa quando entrava in contatto con lui, ma proprio non ci riusciva. Soprattutto da quando aveva sentito una collega di Campobasso, la città del ginecologo, e aveva appreso che Domenico Gammardella «chiamami Mimmo» era fidanzato con una dottoressa stupenda che lavorava all’estero. Fidanzato, e fedelissimo.
Intanto una donna bionda e robusta e un trans basso e grasso si stavano accapigliando vicino alla porta per la precedenza, in un alternarsi di toni e in uno strettissimo e incomprensibile dialetto. Di lato, in attesa fuori dalla fila, una donna dimessa dai tratti latinoamericani stava appoggiata al muro con il capo chino. Mina si fece spazio e bussò.
La voce di Domenico disse, immediatamente:
«Avanti!».
Con gli sguardi di fuoco della donna e del trans addosso, entrò nella stanza.
Domenico vedendola si illuminò istantaneamente, ricordandole il Redford de Il candidato, uno dei suoi film preferiti. La cosa, al solito e inspiegabilmente, la fece incazzare.
«Dimmi, Gammardella, lo sai che non ho tempo da perdere. Che succede?».
Il dottore boccheggiò come sempre quando la vedeva, poi disse:
«Scusa tu, Mina, io non ti volevo disturbare ma poi, sai... Uno teme sempre di sbagliare, sia a segnalare che a tacere. Nel dubbio... Molte volte capisco che le persone, sai, più che altro hanno bisogno di parlare. Sapessi quante delle donne che vengono qui non hanno niente, ma proprio niente che non va, anzi sono in perfetta salute e...».
«Sì, ne sono sicura» tagliò corto Mina. «E comunque ti sarai reso conto che qua fuori c’è un sacco di gente che aspetta di essere visitata, e tu dovresti essere il primo ad avere fretta, quindi...».
Domenico annuì, deciso:
«Certo, certo. E lo sai che a tutte le persone cerco di dare la stessa attenzione. Però certe volte mi chiedono qualcosa che... che eccede le mie competenze professionali, e allora...».
Mina non riuscì a trattenere un sorriso ironico:
«Sì, qualcosa della tua popolarità è arrivata alle mie orecchie. Devi avere il tocco magico».
Ma Domenico dell’ironia non conosceva nemmeno vagamente la dislocazione:
«Tu credi? Io penso piuttosto che apprezzino, le signore, la sensibilità, la compenetrazione. A volte, non mi crederai, qualcuna viene senza avere alcun sintomo, solo per parlare. E per me è una grande soddisfazione, certo non posso dedicare loro il tempo che vorrei né trovo professionale, come a volte mi chiedono, incontrare le pazienti fuori di qui e...».
La donna sbuffò:
«Senti, Gammardella, io non voglio starmene qua a sentire le tue confidenze sentimentali, cosa credi, ho da fare anch’io e...».
«Non potresti chiamarmi Mimmo, per favore? Mi sentirei meno lontano da casa, ti confesso che a volte la solitudine pesa un po’».
Mina lo avrebbe baciato, e invece disse:
«Ognuno ha i suoi problemi. Allora, hai qualcosa da dirmi o no?».
Il ginecologo sospirò sconfitto; poi fece un cenno verso la parete, alle spalle di Mina. La donna si voltò, e vide addossata al muro una ragazzina bruna di poco più di dieci anni, con gli occhi determinati e un paio di mutandine in mano.
Dopo un attimo di smarrimento sentì il sangue affluirle alla testa e si rivolse al medico:
«Senti, io non so se ti rendi conto che per una faccenda del genere non solo verresti cacciato da qui, ma probabilmente radiato dall’albo. Non voglio sapere niente di niente, ma una bambina che...».
Il dottore si alzò di scatto, la bocca spalancata:
«Ma che hai capito? Guarda che non l’ho nemmeno visitata, l’ha accompagnata la madre che è qui fuori, e lei non ha voluto che fosse presente. Aveva riferito di un prurito, io pensavo di darle un disinfettante, qualcosa di semplice. Poi appena la madre è uscita, mi ha detto...».
Si rivolse alla bambina, con un gesto di invito a parlare. E quella disse, d’un fiato:
«Mi chiamo Flor, ho undici anni, e sono qui perché penso che mio padre ammazzerà mia madre».